In questo senso anche le famiglie devono esser consapevoli del ruolo della scuola, che per quanto giustamente e adeguatamente attenta ai bisogni e alle condizioni dell’alunno, non potrà mai sostituirsi alla funzione genitoriale. Essendo l’educazione per lo più frutto del confronto tra realtà scolastica e realtà familiare, la poca presenza di uno di questi due fattori, l’incomunicabilità o lo scontro tra di essi, pregiudica il processo formativo e quindi l’educazione stessa, che dovrebbe essere l’obiettivo ultimo di entrambi. Infatti, spesso sono le famiglie che, colpevolizzando gli insegnanti per tutto quello che accade di negativo al figlio, finiscono per silenziare il suo senso di responsabilità e per compromettere la sua crescita individuale, o, nel peggiore dei casi, rimangono spettatori assenti del percorso del proprio figlio in cui non possono o non vogliono avere responsabilità e controllo, delegando tutto l’onore dell’educazione alla scuola.
Dal punto di vista dell’istituzione scolastica, ovvero ciò che qui più ci preme affrontare, premesso che, naturalmente, chi lavora nell’ambito scolastico ha molti più strumenti e parametri di valutazione e giudizio rispetto a chi scrive, ritengo che tra molti degli articoli letti in merito alla vicenda ci siano due atteggiamenti sbagliati di fondo. Il primo è quello di chi, in nome di astratti modelli educativi, cerca in ogni modo di comprendere qualsiasi comportamento negativo del ragazzo e, attribuendo le principali responsabilità alla scuola ritenuta incapace di stabilire un dialogo con lo studente, arriva a rendere quest’ultimo vittima di un sistema non in grado di ascoltarlo e accoglierlo nei suoi bisogni. Il secondo appartiene a coloro che, avendo come punto di riferimento ideale una scuola in cui il rigore e la disciplina sono elementi essenziali del rapporto educativo e unici in grado di garantire il riconoscimento e il rispetto dei ruoli, pensano che il mero ripristino di un metodo sanzionatorio e punitivo severo, sia la principale alternativa a un sistema non più in grado di contenere classi di ragazzi che sembrano meno interessati al processo formativo e in questo coinvolti.
A mio avviso, l’errore del primo atteggiamento consiste nell’impianto fortemente giustificatorio nei confronti dello studente e di eccessiva colpevolizzazione degli insegnanti, anche da parte delle famiglie. Una simile visione tende a deresponsabilizzare il ragazzo impedendo in tal modo lo sviluppo di una matura capacità di autocritica e di un adeguato senso di realtà: è come se il ruolo attivo di studente venisse trasformato in un atteggiamento di passivo ricettore/consumatore di servizi che la scuola deve sempre e comunque mettere a disposizione per proteggerlo (da qui anche la presenza sempre più iperbolica di councelors, psicologi, pet therapy, mediatori di conflitti, nutrizionisti etc..) e tutelarlo da qualsiasi negatività rischiando però in tal modo di abituare gli adolescenti a un sistema di assistenza e costante attenzione che non corrisponde alla realtà. La seconda “scuola di pensiero”, ritenendo che l’azione punitiva sia la principale fonte di educazione da opporre a un comportamento negativo del ragazzo, pensa di risolvere queste “storture” gettando con aprioristica rassegnazione tutta la responsabilità a studenti e famiglie. In altre parole è come se si spostasse l’atteggiamento giustificatorio del primo caso dallo studente all’insegnante, inteso come parte rappresentativa dell’istituzione scolastica. Si viene a perdere quindi la mission dello scopo educativo arroccandosi in un atteggiamento difensivo che si preoccupa più di tutelare la scuola come istituzione che della formazione del ragazzo considerato “un caso perso”.
Se in entrambe le posizioni scorgiamo intenzionalità positive, l’errore alla base che ne compromette poi tutto l’impianto è il non rendersi conto che quello che è venuto a mancare nella maggior parte di casi di “classi indisciplinate” è proprio una qualsivoglia forma di rispetto nei confronti dei ruoli che vanifica perciò qualsiasi ricetta proposta: se vengo giustificato mi sentirò ancor più legittimato a non correggere il mio comportamento né a ritenerlo così sbagliato; se vengo punito non riconoscendo l’autorità e il ruolo di colui che punisce, non darò quasi alcun peso al valore della sanzione e mi sentirò autorizzato a non portar rimedio alla mia trasgressione. Il rapporto insegnante-alunno, scuola-studente, non è né un rapporto tra pari, né un rapporto subordinato. Se fosse solo un rapporto tra pari l’insegnante perderebbe l’autorità e l’efficacia nel percorso didattico ed educativo, in qualsiasi momento potrebbe scaturire qualcosa che danneggi la credibilità del docente facendogli perdere significato nel processo scolastico. Se fosse solo un rapporto di subordinazione l’insegnante sarebbe un capo, colui che da ordini, anziché un docente, cioè colui che ha la facoltà di insegnare, e si privilegerebbe il rapporto gerarchico rispetto a un ruolo di partecipazione attiva e capace dell’esercizio di senso critico da parte dello studente. In definitiva, volendo semplificare, il rapporto studente-insegnante, che è il fulcro del percorso didattico e di formazione scolastica in generale, è qualcosa che sta a metà strada tra una relazione di gerarchica subordinazione e una situazione di insegnamento tra pari. Il professore non né un capo né allo stesso livello dell’alunno, è un docente, cioè colui che è capace di “insegnare” ma anche di “condurre verso una direzione” che in teoria non si dovrebbe limitare solo allo spazio prettamente didattico, ma dovrebbe proseguire idealmente all’esterno della struttura-scuola. Educare, dal latino ex-ducere, condurre fuori, dovrebbe voler significare proprio questo, il tentativo di portare fuori non solo i risultati cognitivi derivanti dall’apprendimento delle materie didattiche, ma contribuire a formare uno spirito critico e di analisi per affrontare la dimensione sociale, politica, culturale e lavorativa all’esterno dello spazio scuola in cui il ragazzo si troverà ad agire.
La scuola non deve infatti rimanere avulsa dalla realtà ma dovrebbe rappresentare una fase che fa essa stessa parte della realtà e che al contempo prepara ad essa. Predisporre alla realtà non significa comunque diventare una tappa intermedia di mera preparazione al mercato del lavoro, che finirebbe per essere solo una pratica di aziendalizzazione del sistema scolastico, ma fornire gli strumenti critici e di interpretazione del reale cercando, attraverso studio e trasmissione di saperi, di aprire le menti e allargare le proprie visioni del mondo. Soprattutto tenendo conto di questa considerazione l’attenzione verso lo studente, non solo nelle sue vesti di alunno, ma inteso e compreso nella sua condizione sociale, affettiva, economica e psico-emotiva, non può che essere una pratica positiva solo se tale approccio rimane inserito nel contesto scolastico e se viene vissuto come funzionale ad affrontare in maniera più incisiva il percorso formativo dello studente.
Pertanto, se volessimo cercare una sintesi tra i due atteggiamenti citati in precedenza, potremmo dire che una più corretta “rilettura” dell’istituzione scolastica potrebbe essere data pensando alla scuola come a un luogo che insieme alla società è anch’essa in movimento e in evoluzione ma questa “progressione” può avere una funzione e un’efficacia solo se alla base di ogni mutamento e ogni innovazione delle modalità, dei metodi e degli strumenti didattici, anche laddove essi si presentino come radicali e persino rivoluzionari, venga conservato un reciproco riconoscimento dei ruoli, delle responsabilità, della differenza anagrafica e di preparazione culturale nella relazione insegnante-studente.