I parlamentari grillini, per la verità, sono già arrivati a una conclusione. La riunione di ieri, tenutasi a porte chiuse e non in diretta streaming come annunciato in precedenza, ha sancito la chiara vittoria dei falchi sulle colombe: 79 voti favorevoli all’espulsione, 42 contrari e 9 astenuti. A nulla sembra essere servito il tentativo di riconciliazione dei senatori nella riunione preliminare, anche se l’ultima parola spetta alla rete.
Al di là di cosa deciderà il verdetto, la sensazione è che il M5S si stia lasciando sfuggire la situazione dalle mani. Il sit-in organizzato dai fedelissimi di Beppe Grillo davanti alla Camera dei Deputati non basta ad allontanare lo spauracchio di una possibile scissione, né a nascondere il malcontento che si sta diffondendo a macchia d’olio all’interno del movimento.
Una nuova richiesta d’espulsione sembra pendere sul capo della deputata Paola Pinna, che in una serie di interviste critiche ha parlato di una faida tra “talebani” e “dissidenti” nel partito, schierandosi a sostegno della collega Gambaro.
La polemica nei confronti dei parlamentari ribelli sta assumendo sul web tinte molto forti, tanto che il senatore Maurizio Buccarella si è spinto addirittura a definire la situazione su Facebook uno “stato di guerra”.
A essere messa in discussione è la condotta di Grillo, in quanto leader e anima di un movimento costruito intorno alla sua figura, e da lui incarnato in tutti gli aspetti. In molti sembrano non essere più disposti ad accettare i suoi metodi e i suoi toni, e soprattutto le sue decisioni politiche, considerate controproducenti per gli obiettivi del partito. In effetti le recenti elezioni amministrative hanno sancito una capillare avanzata del PD ai danni non solo della coalizione di centro-destra, ma anche del Movimento 5 Stelle, che ha dovuto fare i conti con una sostanziale perdita di consenso che ha il sapore di una bocciatura.
I risultati, per quanto pregiudicati da un pesante astensionismo, sono stati analizzati con preoccupazione da alcuni esponenti del Movimento, che non hanno sottovalutato l’importanza delle amministrative come indicatore delle tendenze dell’elettorato. Nonostante la ribellione dei dissidenti non sia un fattore da prendere alla leggera, il vero problema di Beppe Grillo risiede nei risultati elettorali.
La vicenda del M5S ricorda infatti da vicino la storia di un altro movimento, Alleanza Democratica, fondato nel 1992 dall’ex democristiano Mariotto Segni. Sull’onda del successo del referendum abrogativo del 1991, che impose l’abolizione della preferenza plurima assestando un duro colpo al potentato della DC, Segni decise di cavalcare il forte desiderio di cambiamento e di protesta della popolazione. Il suo obiettivo era la modifica della legge elettorale da proporzionale in maggioritaria, nell’ottica di sovvertire l’immobilismo della classe politica e di puntare così al rinnovamento radicale del sistema. Segni si propose come outsider in un mondo che fino ad allora sembrava dominato soltanto dai partiti, e divenne in breve tempo un leader molto amato e apprezzato. Il suo progetto fallì però nel tentativo di trasformare il movimento da protestatario in propositivo. Segni non capì che una formazione politica di protesta è trasversale e capace di sfruttare il malcontento popolare catturando voti sia a destra sia a sinistra, ma che per trasformarsi in movimento propositivo deve necessariamente collocarsi in un’area di consenso per intercettarlo. Il suo errore risultò fatale per la sopravvivenza di Alleanza Democratica, e Beppe Grillo sta rischiando di seguirne l’esempio.
Quella fetta consistente della popolazione che ha votato M5S alle politiche, nella speranza di ottenere un cambiamento, adesso lo sta punendo per non aver tenuto fede alle promesse. La campagna elettorale di Grillo, fondata sullo slogan del “Mandiamo tutti a casa” si è scontrata con la realtà di un sistema politico che non sta andando affatto nella direzione del cambiamento, ma che anzi, se possibile, sembra assumere più i connotati di un redivivo governo di “solidarietà nazionale” per far fronte alla crisi. Una volta assodato che mandare tutti a casa non è praticabile, e che la rivoluzione parlamentare almeno per il momento è una chimera, il M5S ha continuato ad arroccarsi nel suo ostinato rifiuto a qualsiasi tipo di alleanza: una strategia che il suo elettorato non sembra apprezzare. Lo dimostrano i risultati delle amministrative e la diffusa sfiducia che si respira sui blog e sui social network, quest’ultimi segnali particolarmente indicativi che un movimento che ha fatto del web il suo canale di comunicazione prediletto non dovrebbe permettersi di ignorare.