Martedì, 25 Giugno 2013 00:00

Lavoratori differenti: uguali diritti

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Lo slogan è quello di Amnesty international per il Pride di Palermo: “Persone diverse, uguali diritti”. 

Io lo voglio utilizzare per parlare di lavoro: “Lavoratori differenti: uguali diritti”.

La condizione di diseguaglianza sul mercato del lavoro tra lavoratori “tutelati” e lavoratori non tutelati è tale che il richiamo ai diritti umani mi sembra quasi opportuno.

Sto pensando a tutti i lavoratori non tipici, non standard, ovvero tutti i lavori che non abbiano accesso al complesso sistema di norme che regolano i contratti di lavoro sia dal punto di vista del compenso, che dei compensi accessori, che dei diritti e delle tutele.

Mi riferisco - e questo sarà il punto cruciale del mio intervento all'SMS di Peretola – non solo ai precari, non solo alle false partite iva, ma anche al consistente drappello di vere partite iva del terziario avanzato. 

Sottolineo questo punto e ci tengo che venga considerato un elemento qualificante di questo intervento e non un argomento tra gli altri per due motivi:

appartengo a quel gruppo e ne conosco bene le caratteristiche e i bisogni; mi collego strettamente all'intervento di Leonardo Croatto e di Dmitrij Palagi che ha dato spunto a questo incontro.

Ci sono due affermazioni del loro articolo sulle quali voglio porre l'attenzione. Gli autori sostanzialmente dicono:

  1. Alcuni si stanno accorgendo che la divisione netta tra il professionista, l'autonomo, il dipendente forse non serve più a spiegare davvero il mondo del lavoro.
  2. La creazione di lavoro sempre più raramente avviene top down come nel modello novecentesco, molto più spesso il lavoro si crea dal basso: “il lavoro ci si inventa”.

Sono due affermazioni su cui concordo e credo che ci aiutino ad esplorare il mondo del lavoro in modo da coglierne lucidamente alcuni rilevanti cambiamenti che ci impongono, di conseguenza, anche rilevanti cambiamenti dei paradigmi di riferimento nel disegnare politiche.

Ovvero di questi due importanti punti dobbiamo vedere alcune rilevanti implicazioni e in particolare le implicazioni in termini di equità dei diritti.

Nell'articolo di Croatto e Palagi non compare neanche una volta la parola “diritti” ed è invece su questa dimensione che io credo che sia necessario concentrarsi nel momento in cui da sinistra si riconosce l'esistenza di questi lavoratori e, per di più, si afferma di considerare accettabile o auspicabile la creazione del “lavoro dal basso”.

Credo che sia cruciale che partiti di sinistra e sindacato non sposino la vulgata dell'”inventiamoci il lavoro” senza iniziare ad affiancare a questo lavoro inventato i diritti.

Perché non possiamo dimenticarlo che il lavoro inventato, non meno del lavoro precario, è quello che Aldo Bonomi definisce “formule di auto impiego che sarebbe retorico chiamare imprenditoria”, o che molti prima di lui e insieme a lui definiscono “working poor” o “classe operaia post-industriale”. È a questi lavoratori della conoscenza, della cultura, della creatività, del sociale che operano in ambiti “fighi” ma nei quali le risorse sono spesso scarsissime che intendo riferirmi. Lavoratori che - salvo che per gli studi a carattere scientifico – non compaiono mai nel discorso pubblico dei media generalisti e quotidiani, non sono nei Tg, non sono nella nostra coscienza, non sono nel nostro lessico mentale e politico. 

Lungi da me volere ricacciare la sinistra unicamente dentro il “modello fabbrica”. Quello che vorrei è che si accettasse la necessità di considerare il reddito e non la “forma lavoro” lo spartiacque per l'accesso a diritti e tutele. Quello che auspico è si abbia il coraggio di dare uguali diritti a “lavoratori differenti”. Attualmente non è così: gli autonomi come i precari non hanno diritto ad alcun sostegno per la disoccupazione e hanno ridotto e difficile accesso alla indennità di malattia e di maternità.

Nell'auspicare la creazione del lavoro dal basso si tenga conto che ogni nuova partita iva è un disoccupato in meno nelle statistiche e un piccolo giro di economia da lui attivato. Allo stato non fa altro che comodo. Non si può però lasciare sulle spalle dei singoli individui tutto l'investimento. Se gli autonomi un tempo erano benestanti, non avevano bisogno di tutele né di stato, oggi si trovano a pagare aliquote previdenziali pesanti più dei dipendenti (perché sostanzialmente interamente a loro carico) e non hanno i medesimi diritti.

Nella valutazione del reddito degli autonomi si deve tenere conto del fatto gli “autonomi” non hanno ferie, tredicesime, tfr, straordinari, non hanno permessi di famiglia, di malattia, non ci sono accordi integrativi, buoni pasto, premi produzione, etc. Gli autonomi pagano di tasca propria il commercialista e la formazione.

Domani aggiungerò a queste considerazioni alcuni dati sui redditi tratti da recenti ricerche tutti concordanti sul disegnare una classe di veri e propri working poor che, nonostante la passione con cui lavorano, non possiamo ancora fare finta che se la passino proprio bene.

Ultima modifica il Lunedì, 24 Giugno 2013 23:17
Barbara Imbergamo

Barbara Imbergamo, un dottorato in Storia contemporanea all’Università di Firemze, un master in Metodologia della ricerca sociale.

Ho lavorato per alcuni anni come ricercatrice con (vera) partita iva, nel 2006 ho fondato, con altre socie, Sociolab (www.sociolab.it).

Sono socia Acta associazione consulenti del terziario avanzato.

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