Proviamo a esaminare l’accordo nelle sue implicazioni pratiche e politiche con una intervista a Alessandra Sciurba, ricercatrice ed attivista sui temi delle migrazioni, dei diritti umani e delle frontiere.
Ci spieghi, in pratica, come dovrebbe funzionare lo scambio 1 a 1 con la Turchia?
Il meccanismo dello “scambio 1 a 1” con la Turchia viene descritto nella Comunicazione della Commissione Ue del 16 marzo, che riporta i risultati del summit del 7 marzo Ue-Turchia, come “uno schema (…) che mira a rimpiazzare rapidamente i flussi irregolari dei migranti che viaggiano in condizioni pericolose attraverso il Mar Egeo con un processo ordinato e legale di resettlement”.
Il principio è semplice, per non dire demenziale: per ogni siriano respinto in Turchia dalla Grecia un altro siriano dovrebbe essere ricollocato in Europa. Spiegarlo più dettagliatamente è molto difficile, perché si tratta semplicemente di un’enunciazione che non può trovare alcun riscontro reale. Quel che presumibilmente dovrebbe accadere è la trasformazione degli hotspot delle isole greche da centri di transito a centri interamente dediti al respingimento dei “nuovi” migranti arrivati dopo il 20 marzo. Nel frattempo, e questa è invece una previsione che rientra nella dimensione dell’irrealtà, i profughi già transitati – come le migliaia accampati al porto del Pireo - dovrebbero essere redistribuiti nei vari paesi europei.
L’intero documento susciterebbe solo ilarità, se non fosse tragico nei suoi presupposti e nelle sue conseguenze. In quelle pagine, dopo avere come sempre giustificato un’ennesima politica del tutto illegale nel nome della guerra “umanitaria” ai trafficanti volta a salvare vite umane, i decisori europei sanciscono 6 principi fondamentali del “Piano di azione congiunta Ue-Turchia”. Il primo principio è il seguente: “il respingimento di tutti i nuovi migranti e richiedenti asilo dalla Grecia alla Turchia è una componente essenziale per rompere il modello secondo il quale rifugiati e migranti pagano i trafficanti e rischiano la loro vita”. Il secondo principio, conseguenziale, è appunto lo scambio 1 a 1.
Già in questi due primi principi una serie di aberrazioni giuridiche, oltre che politiche e umane, prendono forma. I richiedenti asilo sono dichiarati formalmente migranti da respingere, mentre la Turchia, come viene esplicitamente affermato più avanti, è considerata un paese terzo sicuro che deve solo implementare qualche dettaglio nelle sue politiche dell’asilo. E su questa base i mezzi di Frontex hanno già iniziato a riportare in Turchia dalle isole greche numerosi profughi intercettati. Proprio mentre The Syrian Observatory for Human Rights denuncia l’uccisione di profughi siriani nei mesi scorsi da parte della polizia turca mentre cercavano di entrare in Turchia. Ma del resto consideriamo di fatto come “paese terzo sicuro” anche l’Egitto, insieme ad altri stati dai quali è in concreto sempre più difficile anche solo chiedere una forma di protezione internazionale. Neppure le torture e l’uccisione di Giulio Regeni sono bastate a dimostrare il contrario. La mappa dei “paesi terzi sicuri” la fanno gli interessi economici e strategici degli stati europei, non certo la valutazione delle reali condizioni di vita delle persone.
Il diritto d’asilo come diritto fondamentale e quindi soggettivo e universale, che ogni essere umano può chiedere da qualunque luogo provenga, è di fatto totalmente svuotato. Si compie, con questo accordo, un ulteriore passo nella distruzione di questo istituto sancito in altre epoche e per altri luoghi (fino al 1967 la Convenzione di Ginevra aveva una riserva geografica e temporale ben specifica), e diventato per l’Europa contemporanea un insostenibile orpello di cui disfarsi. L’Agenda europea sulle migrazioni e questo accordo con la Turchia rendono carta straccia non solo la Convenzione di Ginevra ma anche le Direttive che proprio l’Unione europea aveva prodotto negli ultimi vent’anni sui temi dell’asilo. Direttive piene di ambiguità, certamente, ma che comunque appaiono del tutto messe tra parentesi da queste decisioni che giuridicamente non dovrebbero assolutamente avere questo potere. Ma l’Unione europea, strumentalizzando la cosiddetta “crisi migratoria”, sta rinegoziando tutti i principi su cui aveva dichiarato di fondarsi, incluso quelli basilari della legalità rispetto alle norme che essa stessa si era data, e della legittimità rispetto al diritto dei diritti umani elaborato in Convenzioni e Dichiarazioni che a questo punto sembrano non valere più nulla.
Nonostante il testo della Comunicazione del 16 marzo si ostini a dichiarare che verrà fatta una valutazione individuale dei singoli casi alla frontiera tra Turchia e Grecia (e chiunque abbia una vaga idea di cosa sia una frontiera sa che è impossibile), è chiaro che stiamo assistendo a una forma esplicita di respingimento collettivo di persone in fuga verso uno stato nei fatti governato da una dittatura efferata. Uno Stato retto da un presidente che tratta le minoranze con inaudita violenza, come nel caso del popolo curdo, e viola costantemente i diritti umani anche di quella che riconosce come la propria popolazione.
In questo senso, paradossalmente, io penso che Erdogan abbia ragione quando insiste sull’accelerazione del processo di adesione della Turchia all’UE (di questo parla il quinto principio del piano descritto nella Comunicazione del 17 marzo). In fondo, se riteniamo questo presidente sufficientemente democratico per occuparsi della vita e della morte di milioni di profughi e delegare il loro destino nelle sue mani, non si può dire al contempo che è un po’ troppo illiberale per aderire all’Unione europea. Dichiariamo invece, finalmente, che il rispetto dei diritti umani e della democrazia non sono principi cardine di questa Europa e che quindi c’è posto per tutti, da Orban a Erdogan, basta che i profughi che avrebbero diritto all’asilo restino lontani.
Che ricadute prevedi di questo meccanismo sul piano delle richieste di asilo e sul piano pratico per la vita nei campi profughi?
Innanzitutto va detto che non sono solo siriani i profughi che cercano di attraversare la Turchia per arrivare in Europa, e di tutti gli altri, provenienti da Iraq, Afghanistan e da altri paesi devastati e insicuri, neanche si parla. Il loro diritto di chiedere asilo non è preso in considerazione neanche formalmente, all’interno di questo accordo che di fatto, lo ripeto, rappresenta l’annullamento del diritto d’asilo tout court. La strumentale differenziazione gerarchica tra “veri” rifugiati e “migranti economici” cosiddetti, ha infine condotto, come era inevitabile, alla trasformazione dell’asilo in un dispositivo di totale esclusione, giocando da un lato sulla criminalizzazione delle migrazioni in sé, e dall’altro sulla descrizione dei rifugiati come mero problema da gestire.
Tornando al contenuto concreto dell’accordo, quello che riguarda i siriani, la prospettiva dello scambio è una barzelletta. Anche ammesso che funzionasse, non si sa come, la selezione degli “aventi diritto” a essere portati dalla Turchia in Europa, ciò presupporrebbe la disponibilità degli Stati europei ad accogliere questi “selezionati”. E per capire come andrebbe a finire, basta guardare al completo fallimento delle relocation che sarebbero dovute essere effettuate dagli hotspot italiani negli scorsi mesi per le persone che l’Agenda europea aveva definito “in clear need of protection” (definendo nei fatti l’asilo come qualcosa da concedere o da negare a gruppi di persone su base nazionale): solo poche centinaia di migranti a fronte delle decine di migliaia programmate sono state rilocate in uno Stato diverso. La relocation rimane su base volontaria da parte degli stati che dovrebbero accogliere, e mi sembra che la direzione sia quella, nella maggior parte dei paesi europei, di una chiusura sempre più netta. La differenza tra quel che accade da Ottobre del 2015 con gli hotspot in Italia e quel che sta accadendo e accadrà a breve tra Grecia e Turchia dopo l’accordo è la seguente: nel caso italiano (almeno fino ad oggi e fatta eccezione per quel che avviene nell’hotspot di Trapani), dopo avere separato illegalmente, attraverso operazioni di polizia, una minoranza di migranti identificati come richiedenti asilo da una maggioranza che si vorrebbe esclusa dall’accesso alla procedura di richiesta di protezione, si procede al confinamento ad libitum dei primi in attesa di una loro relocation che arriverà solo in pochissimi casi, e a una clandestinizzazione dei secondi che ricevono un decreto di respingimento differito che non comporta però una vera espulsione fisica dal territorio italiano. Nel caso della Grecia, invece, il respingimento sarà fisicamente effettuato verso la Turchia in maniera per forza di cose indiscriminata, con la promessa irrealizzabile di una seconda possibilità di ingresso per coloro che verranno, non si sa come, definiti come “aventi diritto”.
In conclusione, abbiamo dato 6 miliardi di euro alla Turchia per confinare dentro il suo territorio centinaia di migliaia di persone, non importa come e a quali condizioni, con lo scopo dichiarato di “porre fine alla crisi migratoria in Europa” che significa semplicemente operare l’ennesimo ottuso tentativo di esternalizzare questa crisi, costantemente riprodotta dalla sinergia tra le politiche di guerra e le politiche migratorie europee.
Quel che accadrà, che sta già accadendo e accade da tempo, perché è prassi consolidata delle autorità turche, è il respingimento “a domino” di questi profughi verso i territori da cui sono fuggiti. Anni fa raccolsi in Grecia le procure dei migranti protagonisti del caso Sharifi et al. c. Italia e Grecia portato davanti alla Corte europea dei diritti umani. L’Italia fu condannata per i respingimenti indiscriminati dai porti dell’Adriatico verso la Grecia, e la Grecia per numerose violazioni alle norme internazionali sul diritto d’asilo, ma già allora pochissimi dei ricorrenti arrivarono a vedere la sentenza positiva emanata dalla Corte Europea dei diritti umani. La maggior parte di loro erano stati rimandanti dalla Grecia in Turchia, e dalla Turchia in Afghanistan, perché questi profughi erano quasi tutti afghani. Allo stesso modo, i respingimenti turchi verso la Siria sono già iniziati (anche a colpi di armi da fuoco), e chi invece non sarà rimandato indietro, dopo un periodo infernale vissuto in campi di ammassamento sempre più al collasso, tenterà come sempre di aprire nuove rotte migratorie.
I trafficanti, in questo scenario, ovviamente fanno festa. È solo la chiusura delle frontiere e il sistema dei visti ad arricchire chi traffica in esseri umani.
Cosa avrebbe significato poter usare questi soldi in paesi europei per l’accoglienza?
Con 6 miliardi di euro avremmo potuto aprire corridoi di ingresso legale e programmare un’accoglienza dignitosa per centinaia di migliaia di migranti (per 200.000 persone sarebbero 30.000 euro a persona) sottratti, stavolta sì veramente, dalle mani dei trafficanti e dalla lotteria della morte alle frontiere.
Si vogliono fermare gli affari degli smugglers? Si vuole evitare che le persone rischino la propria vita nei viaggi verso l’Europa? Solo l’apertura di canali legali permanenti è una soluzione reale. Canali come quelli aperti dal progetto Mediterranean Hope della Chiesa Valdese insieme alla Comunità di Sant’Egidio che nel 2016 sta riuscendo a portare in Italia 1000 persone con visti umanitari direttamente dal Libano, sottraendole alla violenza delle frontiere. Si tratta di strade percorribili, che avrebbero bisogno, per essere implementate, di quei 6 miliardi di euro regalati a Erdogan insieme a tutti quelli spesi nella militarizzazione inutile della “Fortezza Europa”.
Va considerato, inoltre, che c’è un mondo del terzo settore non corrotto, composto da migliaia tra operatori sociali, sanitari, legali, psicologi, che avrebbe potuto mettersi in funzione, insieme a migliaia di cittadini e cittadine europei che stanno già praticando l’accoglienza diffusa sorretta da pratiche di straordinaria solidarietà e resistenza alla cultura xenofoba imperante. Si sarebbe potuta attivare, investendo su di loro parte dei soldi regalati alla Turchia, una forma di redistribuzione che rendesse l’accoglienza libera da speculazioni, un vantaggio per tutti e non solo una necessaria prova di umanità e coerenza che l’Europa ha definitivamente fallito.
Alessandra Sciurba è assegnista di ricerca all'Università di Bergamo, membro del centro interuniversitario “L'Altro diritto”, e co-fondatrice della “Clinica Legale per i diritti umani” dell'Università di Palermo. È inoltre responsabile di un progetto de L’Altro Diritto Onlus volto a contrastare lo sfruttamento lavorativo delle migranti rumene nel settore agricolo del ragusano.
È stata Project Manager per un breve periodo al Consiglio d’Europa, per poi scegliere di tornare alla ricerca e all’attivismo. Tra le sue pubblicazioni, i libri “La cura servile servile. La cura che serve” (Pacini Edizioni, 2015) e “Campi di forza. Percorsi confinati di migranti in Europa” (ombre corte, 2009) oltre a decine di articoli sui temi delle migrazioni, anche da una prospettiva di genere, e dei diritti umani.
Foto: Forgotten in Idomeni