Ci sono però alcuni punti che io vorrei provare ad unire in un filo rosso. Bortolotti fa riferimento al quadro economico in cui viviamo, alla profonda crisi che attraversa il nostro paese e che, in misura diversa, tocca anche altri paesi europei; e fa riferimento all’Europa e alle politiche europee che stanno sempre più riducendo i diritti di cittadinanza e le tutele sociali. Bortolotti scrive:
L’Europa non ci salverà; tutta la costruzione dell’Europa non solo è stata fatta in modo da accompagnare, a scapito dei sistemi nazionali di garanzia del lavoro, lo sviluppo di imprese globali, ma è addirittura stata fatta, secondo alcune interpretazioni, precisamente a questo scopo.
La retorica dell’autoimpiego, dello sviluppo locale, delle iniziative locali, che tanto spazio ha nelle politiche del lavoro europee, è, in questa visione, un modo di indorare la pillola da parte delle élites dominanti e di accompagnare un indebolimento selettivo del tessuto industriale che certo fa pagare i prezzi più alti ai lavoratori “marginali”.
In poche righe evidenzia un mondo di considerazioni, mette bene in luce il peso delle politiche degli scorsi anni e i nuovi rischi che si profilano ancora con la retorica dell’autoimpiego. Temi che andrebbero ancora esaminati a favore di quanti – me compresa - negli scorsi anni sono stati meno sensibili agli avvertimenti dei movimenti no global e che hanno preso parte con contenuto trasporto ai movimenti degli anni Novanta e che ora vedono crudamente sotto gli occhi gli esiti di quelle scelte.
La situazione è così scura che non è facile intravedere un’uscita e, da non economista, i due segnali che mi pare che la rappresentino meglio sono: il completo deprezzamento del valore economico del lavoro, largamente condiviso tra le ex classi medie qualunque sia la tipologia di lavoro; un costo lordo del lavoro molto elevato; un sempre più basso livello di tutele e di garanzie in termini di diritti e di servizi erogati dagli enti pubblici in modo gratuito o con costi adeguati alle fasce di reddito; e in sintesi la fine della classe media. Su questo Bortolotti dice bene e varrebbe la pena di approfondire.
Però. Chi viene toccato da questa crisi? Bortolotti parla lungamente di grande impresa, poi parla di lavoro autonomo e distingue le imprese “formalmente autonome ma economicamente dipendenti” e il lavoro autonomo di seconda generazione.
Dei primi, ovvero i terzisti, comprende il disagio - hanno un monocommittente, ne dipendono per prezzo e condizioni, hanno scarsi mezzi di manovra. Ovvero di quelli che erano i terzisti dei distretti italiani, mi pare di capire, si comprendono le difficoltà e si auspica che questi in quanto “economicamente dipendenti” divengano oggetto dell’interesse del sindacato.
Diverso è, si legge, quello che si può dire sui lavoratori autonomi di seconda generazione “perché l’area di interessi comuni con i lavoratori tradizionali è più ristretta che nel caso precedente” e dunque “sarebbe meglio per tutti se accanto alla ricerca di convergenza con i lavoratori dipendenti, questi lavoratori si coalizzassero tra loro”. Al di là del giusto invito a coalizzarsi e riconoscere un disagio, resto perplessa per la diversa “qualità” che Bortolotti individua negli autonomi di seconda generazione.
Bortolotti afferma che le divisioni “tra il professionista, il lavoratore autonomo e il lavoro dipendente” sono “profonde e complesse”; e considera gli autonomi di seconda generazione (e io non ho capito perché) i più lontani dalla possibilità di trovare un’intesa che invece, addirittura, vede possibile tra l’imprenditore terzista e il lavoratore dipendente.
Spero che il confronto prosegua e questo nodo si sciolga e intanto provo a spiegare perché i lavoratori autonomi sono, invece, legittimi portatori di richieste di equità e di cittadinanza. Il lavoro autonomo di seconda generazione, proprio come quello dei terzisti, anche quando ha molteplici committenti, ha scarsissimi margini, poche possibilità di negoziare, bassissime tutele, alti costi previdenziali e nessun accesso al welfare, o quasi.
I lavoratori autonomi fanno i conti con un mercato avvizzito, nella gran parte dei casi sono (anche forzatamente) non evasori perché lavorano per imprese ed enti pubblici e dunque pagano regolarmente le tasse e l’iva su ogni fattura e fatturano ogni lavoro e non si possono immaginare tesoretti nascosti; in più non hanno neanche “Stato”. Ovvero come, e di più, di molti dipendenti e di molti terzisti monocommittenti, non hanno accesso a servizi e tutele ma in più, a differenza dei monocommittenti e dei dipendenti, devono cercare spasmodicamente il cliente giorno per giorno.
Quale è dunque la differenza che li rende meno aggregabili? Vogliamo di nuovo affermare che il lavoro autonomo ha “bisogno” di sindacato se somiglia a quello dipendente, tirando dentro intere aziende “economicamente dipendenti”, ma non i lavoratori autonomi “battitori liberi”?
Possiamo, invece, cominciare a discutere di reddito? Di diritti? Vogliamo ammettere che la Gestione separata dell’Inps è un tesoro a cui attingono tutti fuorché chi ci versa davvero? I lavoratori autonomi dicono: “versiamo contributi previdenziali molto onerosi e non abbiamo nessun diritto; abbassate i contributi o innalzate le tutele”. Non si tratta di sottrarsi alla solidarietà sociale; ma la solidarietà sociale non può essere invocata in modo unilaterale.
Così come un terzista è schiavo di chi gli affida un lavoro con un margine troppo basso, lo è l’autonomo che riceve un incarico con un compenso inadeguato e che subisce la concorrenza dei grafici bulgari o dei traduttori indiani (perché questo accade, oggi) che lavorano per meno di 1/10 delle tariffe che consentirebbero una vita “dignitosa”. Perché non farne soggetto di cittadinanza?
L’ultimo punto che non viene trattato da Bortolotti, e che passa completamente sotto silenzio in tutte le discussioni sul tema, è il ruolo dell’ente pubblico nel creare precarietà, autonomi poveri e imprese che non hanno capacità di rispettare i contratti di lavoro.
L’austerità da un lato, col patto di stabilità, e l’esigenza degli enti pubblici di ripulirsi l’immagine di “corrotti e spreconi nell’uso dei fondi pubblici” dall’altro, fa sì che i bandi e le gare siano sempre più impraticabili; il problema non è solo del massimo ribasso perché spesso è addirittura la base d’asta ad essere inadeguata a garantire stipendi dignitosi a titolari e collaboratori. L’ente pubblico, che è un grande spenditore (e anche grande debitore), è una delle cause di questa forte lacerazione sociale e della paralisi del nostro mercato del lavoro.
Possiamo dunque ripartire dalle persone, dimenticando per quanto è utile farlo, etichette e ruoli in modo da tornare a valutare le effettive condizioni di vita e di lavoro a cui siamo, tutti, costretti? Possiamo provare a ripartire dall’Europa che, ha scritto bene, Bortolotti “non ci salverà”, per provare a rivendicare – insieme – un mercato del lavoro e uno Stato più equi per tutti, ognuno in base al suo reddito? Possiamo unire, sindaci, imprese, poveri autonomi e poveri dipendenti e sindacati, in rivendicazioni e diritti comuni?