Domenica, 29 Settembre 2013 00:00

La svendita delle industrie italiane e lo stato

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Tra i disastri dell'economia italiana ce n'è uno, vera e propria bomba ventennale a orologeria, che continua a devastare il nostro sistema industriale: è quello delle privatizzazioni effettuate a quattro soldi a beneficio di una finanza e di imprenditori rampanti dai governi Ciampi e Prodi. Tra i suoi effetti oggi c'è la svendita quasi gratis a imprenditori esteri di siderurgia (ILVA, ecc.), Telecom, Alitalia, Ansaldo.

Ma prima c'è stata la svendita di Bulgari, Parmalat, ecc.

In Italia infatti sono vent'anni che tutti fanno shopping industriale a buon mercato: dalla Cina al Qatar, dall'Australia alla Spagna, passando per la parte del leone fatta dalla Germania, che sta trasformando il nord in un immenso apparato di forniture a buon mercato per le proprie industrie meccaniche, e dalla Francia, che continua ad accaparrarsi le nostri industrie alimentari. Nessuna illusione: queste acquisizioni estere non porteranno investimenti se non nella misura delle convenienze degli acquirenti e dei loro paesi, e ancor meno porteranno occupazione, anzi ne distruggeranno. C'è in Italia una legge (c'è in tutti i paesi industrializzati) che consente ai governi di intervenire a difesa di industrie considerate vitali per la tenuta e lo sviluppo dell'economia del proprio paese: ma lì per lì Letta se ne era “dimenticato”: Telecom e Alitalia sono “private”, ci ha detto, “non si può fare granché”, “tuteleremo l'occupazione”. Come? entro fine anno ci saranno in Italia, grazie anche al governo in carica, almeno 400 mila disoccupati in più, per non parlare della sorte ad altissimo rischio del grosso dei precari della pubblica amministrazione. Ma forse Letta non si era accorto che l'Alitalia francese sta per tagliare duemila posti di lavoro. Vergogna!

Il disastro ha radici lontane: sono infatti le medesime della mancanza di investimenti strategici, della chiusura di decine di migliaia di piccole e medie imprese, delle delocalizzazioni, della condizione catastrofica del Mezzogiorno, della continuazione della nostra recessione, dell'aumento della disoccupazione, della caduta ventennale del livello dei salari, dell'assalto ventennale alla baionetta allo “stato sociale” e ai diritti pensionistici dei lavoratori, dell'esosità delle tasse sul lavoro, ecc. Sono, in poche parole, nelle illusioni, nell'irresponsabilità e anche, spesso, nel carattere delinquenziale di gran parte della nostra imprenditoria capitalistica e finanziaria così come del complesso dei suoi rappresentanti e dei suoi camerieri politici.

Le illusioni di questa classe dirigente riguardarono a suo tempo l'Europa. La sua unità e soprattutto l'euro, si disse, avrebbero creato la più potente realtà economica mondiale, e ciò avrebbe garantito una grande espansione della nostra economia, occupazione, alti salari, benessere. Peccato che gli altri grandi sistemi (Stati Uniti, Cina, ecc.) disponevano di una loro centralizzazione statale che faceva e finanziava programmi di crescita tecnologica e grandi investimenti, mentre l'Unione Europea affidava programmi e investimenti a ogni paese membro, cioè a una serie di piccoli paesi. Né si vide che l'euro sarebbe stato un marco tedesco sottovalutato e una lira sopravvalutata, quindi che la Germania avrebbe acquisito una capacità competitiva distruttiva nei confronti della nostra economia (così come di quella francese).

I comportamenti irresponsabili della nostra cosiddetta classe dirigente si manifestarono alla grande, inoltre, con la svendita del patrimonio industriale pubblico, onde “far cassa”, ridurre il deficit di bilancio, entrare subito nell'euro. L'Europa, si disse, avrebbe risolto con la sua stessa esistenza il problema di nostri nuovi processi di industrializzazione, a condizione però di affidarli ai privati, gli unici capaci di buona imprenditoria. Peccato che l'Italia abbia storicamente affidato la propria industrializzazione soprattutto allo stato. In quanto paese industrialmente in ritardo, solo lo stato disponeva dei mezzi per resistere alla competizione di sistemi esteri più sviluppati. Ciò vale anche oggi: come dimostra il fatto che quanto residua di pubblico (ENI, ENEL, ecc.) funziona bene, fa profitti, crea posti di lavoro. Ma il governo Letta, in ossequio alla politica insensata di “rigore” che ci è imposta dalla Commissione Europea, ma che esso condivide, sta lavorando a nuove privatizzazioni, cioè a nuove svendite al parassitismo privato.

Occorre opporsi subito ai disastri, imporre al governo la difesa del patrimonio industriale italiano e la fine del “rigore”. L'Europa è solo uno spauracchio, non è in grado di imporci niente. Chiediamo ai sindacati un'immediata mobilitazione. Ma in una prospettiva più ampia occorre all'Italia un ricambio drastico di classe dirigente: con l'attuale si finirà come la Grecia. E questo ricambio può avvenire soltanto riportando il mondo del lavoro a pesare con grande forza nella politica.

Luigi Vinci

Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.

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