Mercoledì, 02 Ottobre 2013 00:00

Il diritto di essere messi in grado di capire (e gli inglesi della politica italiana)

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Voglio tornare sul linguaggio della politica prendendo a pretesto quest’iniziativa organizzata dai Gd e dal Pd con lo scopo di “scoprire la politica”.

Ma l’uso dell’inglese fa sorgere spontanea una domanda: non è forse contradditorio invitare a “scoprire la politica” usando l’inglese, lingua che solo il 34% (percentuale che ritengo sovrastimata) degli italiani, secondo dati forniti dalla Commissione Europea, è in grado di comprendere.

L’uso della lingua inglese (soprattutto nella sua variante americana, che è un inglese imbastardito), che in teoria dovrebbe unire il mondo in quanto lingua dell’impero, nella realtà tende a dividere i cittadini in cittadini di serie A e cittadini di serie B, diversamente abili all’esercizio della democrazia e della pratica politica.

L’inglese assume oggi la funzione che un tempo era del latino fra i dotti e del francese fra gli aristocratici, ossia quella di distinguere i dotti e gli aristocratici dal resto della volgo, di separarli dagli “inferiori”, di rendere “segreti” i loro pensieri e le loro parole, di cui è esempio  l’uso del francese nelle famiglie nobili in presenza della servitù.

La democrazia moderna si è affermata non solo con l’introduzione di nuovi istituti giuridici e prassi costituzionali, ma anche con l’affermarsi delle diverse lingue nazionali, o meglio dei diversi “volgari” intesi come lingue del “popolo”; un’ipotesi da indagare e approfondire, ma innegabile dal punto vista storico.

È noto che Umberto Terracini, prima di pubblicare definitivamente la Costituzione, affidò a tre insigniti letterati, fra i quali il latinista Concetto, la revisione finale (sotto il profilo della pulizia linguistica e della coerenza sintattica e stilistica) del testo della Costituzione prima della sua definitiva approvazione.

È altrettanto noto che il Concilio Vaticano II, fra le sue più importanti decisioni, adottò le singole lingue nazionali in sostituzione del latino nella celebrazione della messa.

Quello che è importante in politica è essere capiti da tutti, perché essere messi in grado di capire (comprendere) è un vero e proprio diritto, motivo per cui l’uso dell’italiano, di una lingua corretta e comprensibile ovviamente e non del politichese, non corrisponde ad un vezzo tardo nazionalista, ma ad una evidente e reale necessità e/o obbligo della politica.

D’altra parte è evidente la contraddizione di chi ritiene l’inglese condizione indispensabile per l’agibilità sociale e politica, e poi magari protesta perché l’Unione Europea non lo considerata lingua consentita nei propri concorsi; oppure pretende dai cittadini stranieri (molti dei quali masticano l’inglese meglio degli italiani) una perfetta conoscenza della lingua di Dante per l’ottenimento della cittadinanza.

Sarebbe quindi bene che in politica si tornasse ad un linguaggio chiaro e comprensibile a tutti, usando termini stranieri solo se presenti nell’uso comune, evitando soprattutto l’utilizzo di termini gergali o di slogan mutuati dal linguaggio politico americano: I care, Yes we can e via obamizzando e kennedyzzando.

Pensate a quale potrebbe essere la reazione di due ignoti partecipanti ad un dibattito nel quale il relatore facesse largo uso di termini quali: bipartisan, question time, governance, welfare, devolution, appeasement, exit poll, election day, pool, social card, impeachment, ecc. …

Pensate al dialogo che potrebbe seguire:

Beppe: Oh Gino! Icche t’ha capiho!

Gino: An onanistic act! Oh Joe!

Ultima modifica il Martedì, 01 Ottobre 2013 12:40
Francesco Draghi

Francesco Draghi, nel Partito Comunista Italiano prima e dalla sua fondazione nel PRC, ha ricoperto in entrambi incarichi di direzione politica, è stato amministratore pubblico.

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