Quest’ultimo esordisce affermando che l’iniziativa lastrigiana – svoltasi presso il suddetto circolo Arci Due Strade – vuole dimostrare un forte appoggio al popolo curdo, con la speranza che possa essere solo la prima di altre iniziative che possano fornire un sostegno concreto e tangibile. Dopo anni di oscuramento e silenzio mediatico, negli ultimi mesi tutti noi sicuramente, a causa dell’avanzata degli eserciti dell’Isis, abbiamo assistito a immagini che ci mostravano la lotta dei resistenti curdi. In particolare sono state le immagini delle donne di Kobane a fare il giro del mondo attraverso giornali, telegiornali, social network, riviste ecc.. donne che combattono contro le stragi, la violenza efferata, le condanne perpetrate da un nemico senza pietà né umanità. E anziché restare a guardare – pietrificati, raggelatii o all’opposto avidi e famelici di agghiaccianti immagini di decapitazioni quasi fossimo in preda a un macabro voyeurismo – quegli orrori sanguinari, il popolo curdo, in particolare quello di Kobane, si è opposto a tutto questo con una forza e una fierezza incredibili. I combattenti curdi sono così riusciti persino a cacciare lo Stato Islamico dal territorio di Kobane, in nome non soltanto della propria difesa ma anche di una libertà che non ha mai smesso – e non solo negli ultimi tempi – di esser rivendicata.
Giulia, che come abbiamo accennato è stata e tornerà in Kurdistan, ha fatto un lungo e approfondito intervento. È sbalorditivo che i curdi, dice, siano la più grossa minoranza a non vedersi riconosciuta come stato indipendente. La “questione curda” risale almeno alla fine dell’impero ottomano, che alla fine della prima guerra mondiale con il trattato di Sèvres (1920) fu ridimensionato e ridotto a modesto stato entro i confini della parte anatolica e fu privato di tutti i territori arabi e della sovranità sugli stretti (del Bosforo e dei Dardanelli). Durante questo ridisegnamento a tavolino della nuova geografia, uno dei progetti era comunque quello di garantire l’indipendenza alle minoranze nazionali presenti in Turchia, ovvero armeni e curdi, così che a questi ultimi sarebbe dovuto spettare il diritto di indipendenza entro uno Stato i cui confini sarebbero stati decisi dalla Società delle Nazioni. Fatto sta che, dopo vicissitudini su cui qui non potremo soffermarci, già nel 1923 un nuovo trattato cancellava ogni concessione e ogni riconoscimento spettanti a curdi e armeni , perché le potenze d’occidente avevano scoperto il petrolio in Iraq e l’importanza di quei territori così ricchi di risorse; su quei popoli sarebbe stato dunque meglio (dal punto di vista dell’occidente ovviamente!) esercitare un controllo dall’alto mantenendoli in una posizione di subordinazione o confusione. In soldoni fu così che il territorio curdo si trovò frammentizzato tra diversi nuovi stati, quali Turchia, Iran, Iraq, Siria e Armenia, senza poter ottenere l’indipendenza promessa e prevista dal primo trattato, ottenendo soltanto, ma non prima degli anni 2000, una certa autonomia politica del Kurdistan iracheno e del Kurdistan siriano. Come abbiamo accennato infatti quei territori rappresentano la cosiddetta mezzaluna fertile, in quanto preziosi bacini di petrolio e di acqua – la parte turca del Kurdistan nelle regioni del Tigri e dell’Eufrate la più grande risorsa idrica – e sono diventati una sorta di burattino nelle mani delle potenze internazionali che li sfruttano a loro uso e consumo. Per non parlare poi della posizione strategica del territorio curdo: fa parte del Medioriente ma si affaccia sull’est Europa e sulle zone dell’ex Unione Sovietica. Diventa perciò una colossale contraddizione il fatto che oggi tutti quei paesi occidentali che continuano a negare l’indipendenza spettante di diritto a questa nazione stiano osannando il coraggio dei partigiani curdi. O meglio, più che altro dei Peshmerga che sono ”solo” i curdi iracheni anche se spesso vengono confusi con tutti i curdi, e sono gli unici a venire foraggiati, in particolare dalla Germania, di armi contro l’ISIS,. Questi stessi paesi occidentali tra l’altro, non hanno mai smesso, e continuano a farlo, di andare a braccetto con quella che aspira a diventare un’altra potenza mondiale, vale a dire la Turchia, maggior responsabile della negazione dei diritti dei curdi, che essa chiama “I turchi della montagna”, non potendo neanche concepire l’esistenza di popolazioni non turche al proprio interno. Questa potenza, forte dell’appoggio o comunque del silenzio omertoso dell’occidente “civile” si è macchiata di sangue mediante una politica di repressione, massacri, soprusi, incarceramenti ecc., mirante all’annientamento della “minoranza” curda e alla cancellazione della sua stessa identità. Simili violenze non accadono però solo in Turchia ma anche in Iraq, Siria..che hanno forzato l’evacuazione di popolazioni curde dai loro territori, oltre ad avervi introdotto un’operazione di islamizzazione, per tenerle ancor più sotto controllo e col timore che costituissero un’identità nazionale portando avanti la loro rivendicazioni libertarie e autonomisiche. Ciò che sconvolge è anche il gioco strumentale che questi 4 paesi in cui è diviso il Kurdistan(Turchia, Iran, Iraq, Siria) conducono per i propri fini e interessi geopolitici ed economici: durante la guerra Iran-Iraq ad esempio l’uno stato strumentalizzava e cercava di “corrompere”, per portarla dalla propria parte, la componente curda dello stato rivale con lo scopo di indebolire il rivale stesso.
Emerge dunque un’enorme ipocrisia da parte di turchi, europei, americani che fino ad ora hanno fatto finta di non vedere quel che stava accadendo in Kurdistan voltandosi da un’altra parte per non assistere alle ingiustizie subite dal popolo curdo e ora sono pronti a salire sul carro dei difensori della libertà presentandosi come loro vecchi amiconi. Si pensi anche solo al paradosso statunitense: gli USA hanno un rapporto privilegiato col PDK (il Partito democratico del Kurdistan fondato nel 1945) guidato dall’attuale Presidente del Kurdistan Iracheno Mas’ud Barzani ma allo stesso tempo, dopo l’attentato alle Torri Gemelle del 2001, hanno inserito nella lista di organizzazioni terroristiche il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, che da sempre ha avuto un ruolo principe nella resistenza curda. Questo partito “illegale” di lotta armata ha infatti, fin dalle origini, come fosse inciso nel proprio dna, l’obiettivo di raggiungere l’unità di tutti i curdi, diversamente dal Pdk che mira specificamente all’autonomia a e all’unione del solo Kurdistan iracheno. Il PKK nasce come movimento di lotta per la riacquisizione dell’identità da parte dei curdi e nel 1978 si costituisce come vero e proprio partito sotto la guida del leader Abdullah Öcalan, la cui vicenda è ormai tristemente nota a tutti; inizialmente ispirato ai principi del marxismo-leninismo ha successivamente abbracciato la piattaforma politica del Confederalismo democratico. La sua politica – più ampia e meno ovattata nelle aspirazioni autonomistiche del solo pezzo di territorio iracheno proprie del PDK– va di pari passe con quella “gemella” portata avanti dal Rojava, regione autonoma de facto nel nord della Siria. Quest’ultima, ispirata al federalismo democratico, all’autosufficienza e al pluralismo politico, etnico e religioso, si pone anch’essa l’obiettivo di riunire le componenti curde di tutti e quattro gli stati in cui sono presenti. Una strategia e un’aspirazione simili sono motivate, oltre che da ideali di libertà e pacifica convivenza, anche dalla lucida consapevolezza che una mancata unità politica significa maggior tensione e divisione e di conseguenza implica il rischio di diventare ancor di più pedine da muovere e manipolare su quella grande scacchiera che è il Medioriente.
Scacchiera in cui si snoda il gioco di interessi e profitti economici (si pensi all’importanza strategica dei gasdotti e degli oleodotti che, attraversando i territori del Kurdistan devono portare il petrolio in Europa) e geopolitici dei paesi occidentali. La proposta politica del Pkk e quella portata avanti dal Condferalismo democratico del Rojava non nascono solo adesso che è salita sulla scena la sempre più incombente e pericolosa minaccia dell’Isis, non nascono con la resistenza di Kobane, bensì hanno radici più antiche e profonde. Il PYD (il partito democratico del Rojava) ha reso possibile la resistenza armata delle donne perché la loro difesa era già nata in Siria nel 2002 ad esempio. Nella stessa Siria ha anche organizzato la resistenza al regime di Assad e alla sua politica di islamizzazione contro l’autonomia dei curdi. Il Rojava, ha lanciato il suo progetto di federalismo democratico all’interno dei quattro “cantoni” curdi e questi sono riusciti ad ottenere democrazie dirette. In Turchia poi, prosegue Giulia, il PKK dal primo “cessate il fuoco”nel 1984, si sente obbligato a scegliere la lotta armata come unica strategia di difesa del proprio popolo contro la negazione totale della propria autonomia e identità. Dall’84 infatti i partigian curdi si battono in una guerra durissima per la propria autonomia che ha causato circa 40.000 vittime, la distruzione di interi villaggi e costretto un milione e mezzo di curdi a diventare profughi (dati tratti dal messaggero). Dal 1993 alla lotta armata – che comunque non poteva essere abbandonata – il partito ha affiancato una via diplomatica per accreditarsi come interlocutore politico di Turchia e occidente, e un lavoro di costituzione di strutture che potevano collaborare legalmente in vista degli stessi obiettivi, stimolando quindi la nascita di partiti politici che potevano proporsi alle elezioni. Purtroppo però molti di questi partiti via via sono stati “fatti fuori”, o perché riconosciuti anch’essi come illegali o perché i loro esponenti politici venivano messi in carcere, o perché sono stati chiusi in quanto “parteggiatori dei terroristi”. Altra grande e odiosa contraddizione se si pensa che forse uno degli stati più terroristici è proprio la Turchia che come abbiamo già in precedenza accennato ha bruciato villaggi, fatto stragi di donne, uomini, bambini, condannato all’ergastolo dissidenti politici, giornalisti, scrittori, nel nome di Ataturk. Costui fu il primo presidente turco diventato eroe nazionale, che fu promotore di importanti riforme improntate alla laicità e in direzione di un’occidentalizzazione o europeizzazione della Turchia ma che ha sempre negato l’indipendenza delle minoranze fin dal suo rifiuto del già citato trattato di Sèvres. Durante il suo governo, di fatto un sistema/regime a partito unico, sostenuto anche dal forte controllo da parte dell’esercito dotato di poteri eccezionali, si registrarono fenomeni di repressione, sciovinismo e razzismo nei confronti dei curdi. La cosa impressionante, esclama Giulia è che il suo nome in Turchia è davvero presente ovunque, persino nelle latrine delle carceri! A metà degli anni ’90, continua la giovane attivista, anche in Turchia si verificarono comunque alcune vittorie e conquiste ottenute dal partito curdo del momento: sono infatti state sperimentate forme di autogoverno, sistemi di governo simili a quelli del Rojava che Ocalan, insieme al Federalismo Democratico, ha contribuito a teorizzare. Nel Rojava, chiarisce Giulia, esistono piccole comunità che si organizzano dal basso su modello assembleare piramidale: si tratta cioè di un sistema ad adesione popolare fondato sull’idea egualitaria che chiunque voglia partecipare al progetto, a prescindere da etnia, dal credo religioso o dal sesso, possa farlo senza alcuna restrizione. L’unica condizione è quella di aderire a certi ideali di libertà, autonomia, uguaglianza, reciproco rispetto e pacifica convivenza interreligiosa e interetnica, in quanto si tratta sì di un contesto mediorientale ma non monoetnico: “Invito alla costruzione di una modernità democratica. E’ tempo per l’unità e l’alleanza, non per il conflitto”(A.Ocalan). Contesto, quello mediorientale, in cui, osserva ancora Chiarini, l’occidente sguazza creando addirittura strutture o sistemi ad hoc per dividere ancor di più il già dilaniato mondo islamico e fomentare i conflitti che lo attraversano incessantemente. Si pensi alle guerre sante, alle lotte tra sciiti e sunniti, oppure all’attuale stato islamico alla cui radice vi sono anche finanziamenti occidentali, insieme a quelli, molto più ingenti, provenienti dal Quatar e dall’Arabia Saudita, dalle “petromonarchie” (monarchie, dittature del petrolio) di turno con cui Stati Uniti e Europa non esitano a stringere rapporti economici.
Si tratta dunque di una zona del mondo in cui è molto difficile prospettare una soluzione in termini di creazione di uno stato nel senso tradizionale in cui lo intendiamo noi. I curdi ad esempio hanno rinunciato all’idea stessa di Stato Nazionale, perché non è sufficiente una “semplice” presa del potere per far sì che ci sarà una giustizia sociale, che non ci saranno più discriminazioni poiché tali mete potranno esser raggiunte solo se a cambiare sarà innanziutto la mentalità, il modo di pensare. La rinuncia stessa al separatismo è un’evoluzione positiva di un pensiero politico che il PKK ha sempre difeso e sbandierato, come si legge nel suo manifesto in cui viene descritto il federalismo democratico: “Il federalismo democratico del Kurdistan non è un sistema di Stato, è il sistema democratico di un popolo senza Stato ... Prende il potere dal popolo e lo adotta per raggiungere l'autosufficienza in ogni campo (…)”. Stessa cosa per quanto riguarda la figura della donna guerriera del Rojava, così – a ragione – esaltata dai media internazionali: essa non è nata oggi, non è spuntata dal nulla come un fungo appena si è affacciato l’Isis alle porte, ma è insita nel sistema di parità sessuale perseguito già da un bel po’ sia dal PKK che dal Confederalismo Democratico. La donna che rischia la vita combattendo è diventata un’icona, un simbolo di coraggio, di forza, di resistenza anche nella nostra stampa e questo da un lato è positivo, dato che anche attraverso questa immagine si può sperare di portare un po’fuori e alla ribalta la “questione curda” di cui si parla troppo poco e troppo male, strumentalizzandola superficialmente. Dall’altro lato però questa stessa idealizzazione, questa mitizzazione nasconde una visione un po’colonialista e un po’razzista delle cose: queste donne non vogliono esser notate perché tengono le armi in mano o perché sono quasi tutte particolarmente belle, ma semmai vogliono esser notate per le loro idee, per quei valori, quegli ideali che le hanno spinte a mettersi in una situazione di enorme rischio per la propria incolumità. Certo, prima la donna non era in primo piano nella società curda, ma se ci pensiamo anche nel nostro occidente le donne hanno lottato duramente e per molto tempo prima di vedersi riconoscere certi diritti. Oltretutto, nonostante sulla carta sia ammessa ormai questa parità, nell’atto pratico però molto spesso le donne vengono sfruttate, a volte subiscono violenza fisica o psicologica da parte degli uomini, o vengono bistrattate per vari motivi (salari più bassi, lavori peggiori, doppio lavoro considerando quello a casa, licenziamenti o minacce di licenziamenti se rimangono incinte…). Insomma, non possiamo recitare così bene la parte dei paladini esporatori di civiltà ed emancipazione. Nel confederalismo democratico e nel PKK alle donne è dato lo stesso ruolo istituzionale (come si evince dalla carta del Rojava) degli uomini, e questi a loro volta sono completamente consapevoli dell’elemento di crescita di tutta la società rappresentato dalla componente femminile. Il ruolo della donna si accompagna al rifiuto dello Stato nazionale: questo infatti si lega inevitabilmente al modello patriarcale che a sua volta costituisce l’essenza stessa del capitalismo. Per comprendere meglio il binomio tra emancipazione femminile e importanza del ruolo delle donne e rifiuto di uno Stato tradizionalmente inteso, Giulia ci riporta le parole di una donna curda che durante un’intervista una donna curda dice: “io combatto contro lo Stato perché al massimo ciò che potrei ottenere in esso sarebbe l’esser considerata equivalente a un uomo. Uno stato potrebbe concedermi dei diritti ma solo su carta, solo in termini di riconoscimento teorico e formale. Noi lottiamo invece per esser uguali agli uomini nella pratica, nel concreto, nella vita pragmatica in ogni sua sfaccettatura, non per esser riconosciute come uguali. Non ci dovrebbe neanche essere il bisogno di un riconoscimento, dato che questa parità di diritti dovrebbe essere un dato di fatto”. Va inoltre da sé che un simile modo di pensare sia l’esatto opposto rispetto all’ideologia fanatica alimentata dall’isis. La resistenza di Kobane in questo senso non rappresenta soltanto la resistenza di un popolo che difende i propri territori ma è l’emblema di un conflitto che è innanzitutto ideologico, tra due concezioni dicotomiche, una che lotta in nome di una libertà e una parità in tutti i sensi e l’altra che si nutre di cieco odio, intolleranza religiosa, fondamentalista, razziale, sessuale. L’occidente ancora una volta, apparte eroicizzare la figura della donna guerriera, mostra una certa reticenza a riconoscere l’importanza di quel tipo di resistenza, perché riconoscerla significherebbe ammettere la legittimità del progetto politico e ideologico che vi è dietro e che la anima. Non è un caso infatti che i media parlino solo dei peshmerga che vengono foraggiati regolarmente dai paesi occidentali ma sempre in vista del mantenimento di uno status quo, ponendosi in quel ruolo di implicito dominio strategico atto ad impedire un eventuale scompaginamento del contesto mediorientale o un capovolgimento delle posizioni. L’occidente in tale ruolo di arbitro che gestisce dall’alto e con i propri strumenti il controllo della situazione ha paura delle rivendicazioni autonomistiche, libertarie ed egalitarie di partiti come il Pkk o l’YPG, Unità di Protezione Popolare, braccio armato del Partito dell’Unione Democratica. Con Kobane, in ogni modo, non è finita la resistenza curda, anzi, con Kobane è appena cominciata sebbene la vittoria sia stata fondamentale e importante, anche per stimolare la solidarietà internazionale e l’attenzione del mondo intero, solidarietà che non è solo simbolica. Per questo è ancor più preziosa, se si sta attenti a non farne un astratto vessillo con cui riempire per qualche mese le pagine dei nostri giornali e poi destinato a rimanere una flebile memoria da riseppellire nell’invisibile (per i nostri occhi volutamente ciechi) realtà curda.
Nell’oscurità di anguste celle,
tra usci infami e solidi ferri
fra topi e scarafaggi
seminiamo la nostra parola,
e matura la nostra storia
irrigata dalle lacrime dei bambini
per il padre dietro le sbarre,
nutrita dal desiderio umiliato
delle giovani spose
cui il carcere ha tolto
ben presto l’amore.
La fantasia tesse nuovi racconti,
ricama con fili di lacrime,
con colori di sangue,
del sangue dei ragazzi e delle ragazze
che scorre eroico sui nostri monti,
su queste montagne kurde
e così continuano le nostre leggende
si intrecciano altre canzoni.
La nostra ispirazione non nasce
da labbra rosse dipinte,
da occhi e volti
elegantemente abbelliti:
da lacrime, sangue, desiderio
sorge la poesia
rinnova il nostro amore
e sospinta da un soffio leggero vola
oltre le sbarre.
Mehmet Emin Bozarsalan, da “Canti d’amore e libertà del popolo kurdo”