Sabato, 21 Marzo 2015 00:00

Lastra a Signa con il popolo kurdo #2

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Di Chiara Del Corona e Daniele Sterrantino

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Quel fiore –
gli hanno strappato i petali, ma è vivo
quel cuore –
nella sventura, è rimasto saldo
quella stella –
è caduta, con una scia di luce nella foresta
come chi sa morire con un sorriso
quando spalanca le ali
il vento dell’altopiano.
Li porto con me,
sono l’immagine
del non arrendersi.
Heyar, da “Canti d’amore e di libertà del popolo kurdo

 

Dopo l’appassionato e ricco intervento di Giulia Chiarini, Daniele Sterrantino riprende la parola per introdurre l’intervento successivo di Erdal Karabey, presidente dell’associazione “Kurdistan”.
“La resistenza che abbiamo visto a Kobane, da parte dei combattenti kurdi”, chiede Daniele, “Come è cominciata, come si è svolta? E si è capita l’importanza dello scontro che non è stato solo uno scontro di difesa della città ma uno scontro per affermare le proprie idee contro quelle dell’ISIS?”

Erdal prende a questo punto la parola e inizia la sua approfondita analisi. La Turchia ha cominciato una cultura del massacro, in 600 anni ha aspirato a comandare su tutto l’Oriente e poi su tutto il mondo. Dopo la prima guerra mondiale, nel 1921, il trattato di Sevrès, che regolava la pace tra gli alleati e l’impero Ottomano (sancendone di fatto la fine e lo smembramento) stabilì per la prima volta la creazione di un Kurdistan indipendente. Solo tre anni dopo, con il trattato di Losanna del 1923 e il respingimento del precedente trattato del 21 da parte del leader del movimento nazionalista turco, Mustafa Kemal (soprannominato poi Ataturk), tutte le garanzie, le tutele e le promesse di indipendenza previste peri kurdi furono smantellate e tradite. Le speranze e le aspettative delle minoranze curde rimasero deluse sotto gli occhi di un occidente che con quel trattato stipulava una nuova pace con la sempre più emergente Turchia lasciando nel dimenticatoio la “questione curda”.

Come scrive la rivista Limes “Sèvres e Losanna sono ancora oggi luoghi simbolici delle rivendicazioni del Kurdistan e del sogno indipendentista precocemente infranto”. La Turchia insiste nel non voler riconoscere l’indipendenza del Kurdistan e ha continuato una sistematica politica di annientamento dei diritti e dell’esistenza stessa della minoranza kurda (nel precedente intervento Giulia ci aveva raccontato che addirittura il termine stesso, curdo,è stato cancellato) che rappresenta ad oggi la più grande nazione al mondo priva di un’entità statale. “la resistenza di Kobane parte dunque da lì, da Sevrès e Losanna”, prosegue Erdal. Questa resistenza è diventata un simbolo, che non deve però esser destinato a rimanere puramente, scusatemi il gioco di parole, simbolico. Essa fa capire che il popolo curdo esiste. Nel 1978 il PKK allorché si è costituito come partito sotto l’egida del leader Ocalan, ha avuto un ruolo di fondamentale importanza per la “libertà del Kurdistan”, ma nessuno, a livello internazionale, glielo ha riconosciuto. Anzi, al contrario: la Turchia ha continuato a eliminare fisicamente o a imprigionare chiunque dicesse semplicemente “sono curdo”, il PKK è stato bollato come organizzazione terroristica e il suo leader è in carcere da ormai sedici anni solo per aver lottato per il suo popolo, senza per altro aver ottenuto, se non quando ormai era troppo tardi, la richiesta di asilo politico da parte dell’Italia. Anche gli esponenti, gli aderenti o i simpatizzanti (tra cui giornalisti, scrittori, diplomatici..) della nuova ideologia rappresentata dal Confederalismo Democratico che porta avanti gli stessi ideali di libertà, rischiano la detenzione. Erdal si sofferma poi un attimo sugli interventi degli Sati Uniti in Iraq prima, in Siria poi. Con la “scusa” di eliminare, prima Bin Laden, poi Assad, in realtà non hanno fatto altro che sostituire quelle dittature con altre dittature o innescando nuovi conflitti e nuovi scompaginamenti. Portano la guerra in quelle zone fingendo di esportare democrazia e spazzar via le dittature di turno, ma l’unico interesse ovviamente non dichiarato che hanno è quello di prelevare sempre più petrolio, creando inevitabilmente ulteriori vittime.

Ritornando alla resistenza di Kobane che ha visto le donne a combattere in prima linea, Karabey ricorda le parole pronunciate negli anni ‘80 da Ocalan che già allora esclamava “Rivoluzione verrà, rivoluzione delle donne”. Infatti questa rivoluzione si può dire sia cominciata con la regolazione del ruolo delle donne e l’idea di fondo che “se la donna è libera, sarà libero anche il Kurdistan”. Queste donne hanno mostrato agli occhi del mondo che possono fare tutto e tutto possono cambiare. “Se anche ci tolgono le armi, comunque spazzeremo via l’ISIS”, questo è il loro slogan emblematico del fatto grande e raro che queste donne combattono con il cuore e non per interessi economici o di potere. Sono loro che hanno fatto vedere la resistenza kurda, che però ribadiamolo ancora una vola, non inizia né finisce con Kobane. Ed è Forse proprio il ruolo che le donne rivestono nel PKK a dare una spinta per far cambiare a livello di opinione pubblica, la visione di questo partito.

Il parlamento tedesco ad esempio ha proposto di togliere il PKK dalla lista di movimenti terroristici, proprio perché esso porta avanti una battaglia che non riguarda solo la difesa e l’autonomia dei curdi ma la salvezza di ogni etnia o gruppo religioso presente in quei territori contro qualsiasi forma di terrorismo, che provenga dal nazionalismo turco o dal fondamentalismo islamico.
La presa di Kobane comunque non significa il suggellamento di una libertà che ancora non viene riconosciuta, né purtroppo rappresenta la fine dello spietato gruppo jiahdista ma ogni giorno donne e uomini curdi (e non soltanto i Peshmerga del Kurdistan iracheno, che sono gli unici a venire foraggiati dai paesi occidentali) continuano a combattere e a resistere. Arriva poi una domanda da un compagno curdo di Erdal, presente tra il pubblico, che vive in Germania e che chiede a Karabey delucidazioni su un parallelismo tra la sistematica sanguinosità dell’ISIS e la politica “semi-legale” colonialista e violenta condotta da Israele nei confronti della popolazione palestinese. Secondo Erdal si tratta, alla base, della stessa mentalità. Uno fa la guerra in nome dell’islamismo, l’altro del sionismo. La differenza però è che Israele è molto più potente e può ammazzare o privare di diritti e di terra il popolo palestinese con il consenso e l’approvazione internazionale. In qualche modo tutto il mondo occidentale appoggia e sostiene economicamente Israele e implicitamente legittima i suoi crimini contro i palestinesi.

Il confederlalismo democratico come aveva già intuito Ocalan una decina di anni fa, proprio in quanto afferma un’estensione di diritti per tutti fa paura al capitalismo perché cozza un bel po’ contro la logica gerarchica, patriarcale e verticistica propria dell’ideologia capitalista, proiettata tutta verso profitti puramente economici e indifferente a una giustizia sociale. È una simile ideologia e una simile mentalità che vanno cambiate e con Kobane forse qualcosa potrà muoversi. Ormai sono circa 120.000 i profughi curdi senza più casa né diritto alla sanità e anziché limitarsi a mitizzare il coraggio delle donne curde o a venire in aiuto dei soli peshmerga, bisognerebbe cominciare a muoversi capillarmente e costantemente per risolvere queste situazioni. Un grande passo in avanti è stato fatto con la creazione della “Mezzaluna Rossa Kurdistan Onlus”, che dal 30 dicembre scorso nasce anche in Italia (a Livorno), come diramazione della più grande associazione umanitaria “Heyva Sor a Kurdistane” attiva in Germania dal 1993. Ciò che veramente è importante è che per la prima volta si sia usato legalmente il termine Kurdistan in Europa, quando prima ciò era vietato. L’associazione si occupa di raccogliere aiuti sanitari, provenienti dalle Asl di Livorno, di Firenze, dalle organizzazioni di solidarietà, da inviare poi in Kurdistan (in Turchia è però vietato mandarli) tramite un qualsiasi comune italiano. “È importante cominciare da qui, da quelle che sembrano piccole cose, così come è importante sostenere la campagna affinché il PKK venga tolto dalla lista di organizzazioni terroristiche”. È vero che si tratta di un partito che porta avanti una resistenza armata (sebbene affiancata dalla battaglia diplomatica), ma lo fa perché a obbligarlo è il contesto, i massacri, il silenzio internazionale. Senza questo partito non sarebbe stata possibile la resistenza di Kobane che oggi tutti, giustamente ma abbastanza ipocritamente, applaudono. In Italia probabilmente molti non sanno neanche cosa sia il PKK ma ugualmente sono pronti, per luogo comune, a condannarlo come associazione terroristica adeguandosi passivamente e superficialmente a quello che ci viene raccontato, senza andare ad approfondire la sua reale attività, il contesto in cui si inserisce, quello che fa e ciò per cui combatte. Gli Yazidi (o Ezidi) curdi sono stati il primo obiettivo dell’ISIS per il loro rifiuto alla forzata islamizzazione, ma gli unici ad essere andati in aiuto alla popolazione Yazida sono stati per l’appunto i membri del PKK per sottrarla al massacro del gruppo Jiahdista. La comunità internazionale, ancora una volta, si è riempita gli occhi di ovatta o neanche si stava accorgendo di quel che accadeva. L’altra paradossale vicenda, penosa e costosa in termini soprattutto umani è appunto quella che riguarda Ocalan che ha visto profilarsi intorno a sé l’impotenza e l’indifferenza dell’occidente e la sua ipocrisia di fondo. Basterebbe un minimo di volontà politica anche solo per concedere la cittadinanza onoraria al leader del PKK. Basterebbero anche piccoli passi che partano dal basso per veicolare questo messaggio.

A una domanda di una ragazza dal pubblico sul modo in cui sono arrivate nei nostri media (giornali, televisioni..) le informazioni su quello che stava succedendo durante la resistenza, Erdal ripete che dopo Kobane quel silenzio che ha coperto per anni la situazione kurda è stato un po’spezzato e ora sono tutti a difendere il Kurdistan, quando prima non si poteva neanche nominare la parola. Si avverte una certa parzialità in queste informazioni, o comunque una certa strumentalizzazione, tanto che infatti non si fa mai un minimo accenno al ruolo essenziale svolto dal PKk, ma si parla solo dei Peshmerga. Si porta alla ribalta ciò di cui si ritiene opportuno parlare in questo determinato momento così sconvolto dalla minaccia dell’ISIS, ma siamo pronti a rigettare una coltre sulla storia e le vicende di questo stesso popolo che fino ad adesso i media hanno tendenzialmente insabbiato e inabissato nel più assoluto silenzio. Altre due questioni le pone Mauro Marzi, membro del direttivo della sezione ANPI di Lastra a Signa, che chiede approfondimenti riguardo all’eventuale peso della religione all’interno dei movimenti kurdi, e anche come sia possibile per l’ISIS, forgiarsi, oltre che dell’apporto esterno in termini di armi e collaboratori o finanziatori, anche di un così forte consenso popolare che lo appoggia e lo sostiene. Inoltre invita Erdal a partecipare al 70esimo anniversario della liberazione durante il quale verranno consegnate sia delle tessere speciali agli ultimi due partigiani rimasti a Lastra a Signa sia delle tessere ad honorem al popolo kurdo, per la sua indomita e tenace resistenza che da tutti questi anni fino ad oggi, non ha mai abbandonato, né abbandonerà mai – a meno che le cose non cambino in meglio, ovviamente e sperabilmente. A queste questioni rispondono sia Giulia che Erdal. L’attivista fiorentina spiega che in Iraq ad esempio la strategia è sempre stata quella del divide et impera, non solo a livello statuale/politico ma anche e forse soprattutto religioso. Storicamente il passaggio di potere da una componente religiosa all’altra può aver valso come elemento di propaganda e di “trascinamento” delle coscienze anche per movimenti come quello dell’ISIS. E finché non verrà messo in discussione questo tipo di dinamica, vigente dagli anni ’20 in poi, questi gruppi fondamentalisti troveranno sempre maggiori cunei e vuoti di potere in cui inserirsi e in cui prender più terreno, in nome di rivendicazioni religiose cui tutti devono sottostare e piegarsi. Riguardo poi al fatto se la religiosità sia condizionante o meno nell’ideologia dei curdi, delle donne combattenti, dei movimenti politici cui fanno parte, Erdal chiarisce che innanzitutto il terrorismo non proviene dalla religione, non fa parte del suo messaggio originale, semplicemente quest’ultimo assurge a scusa principale e più sentita dalle persone, diventa il terreno fertile per condizionare le coscienze e su cui costruire una partecipata adesione per fare la guerra contro tutti gli infedeli. Il Confederalismo Democratico invece lascia totale libertà di credo e di professare il proprio culto, qualsiasi esso sia. Uno dei suoi pilastri fondamentali è proprio la totale libertà allargata su tutti i fronti, indi compreso anche quello religioso. I curdi erano cristiani e non volevano essere islamizzati, proprio per difendere la propria autonomia contro qualsiasi imposizione assolutistica o violenta. L’Islam è una religione molto politica ed è quindi un terreno molto scivoloso e su cui muoversi cautamente. Il confederalismo è consapevole di questo e la sua politica rimane quella di creare minor divisioni possibili. Ciò risulta fattibile soltanto se si ammettono come legittime e degne di esistere tutte le differenze, così che anziché entrare in conflitto tra loro possano convivere tutte pacificamente insieme in nome di un comune riconoscimento e di un’unità reale. Unità reale che però non significa omologazione a un’unica religione o a un unico regime ma una comunanza di ideali di libertà e fratellanza. E soltanto se si lotta per questi principi, in prospettiva di un cambio di mentalità più che di un cambio di potere, conclude Erdal, ci sarà la speranza di costruire una società migliore, più giusta, libera ed egualitaria.

Ho posato l’orecchio sopra il cuore
della terra.
Parlava d’amore, del suo amore
per la pioggia,
la terra.
Ho posato l’orecchio sul liquido cuore
dell’acqua.
Il mio amore, l’amor mio
è la sorgente, cantava
l’acqua.
L’ho posato sul cuore
dell’albero.
Della sua folta chioma,
– l’amore suo – diceva,
l’albero.
Ma quando accostai l’orecchio
all’amore stesso,
che non ha nome,
era di libertà che parlava,
l’amore.

Sherko Bekas, da “Canti d’amore e libertà del popolo kurdo"

Ultima modifica il Venerdì, 20 Marzo 2015 16:52
Beccai

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