Il governo statunitense sostiene di avere prove schiaccianti del fatto che Saddam Hussein stesse nascondendo e ricostruendo un arsenale di armi di distruzione di massa, che avrebbe invece dovuto distruggere negli anni '90. In ottobre il Congresso autorizza il presidente ad adottare ogni mezzo necessario contro l'Iraq, in novembre le Nazioni Unite danno all'Iraq “un'ultima possibilità” di dimostrare la propria buona volontà. Alcuni dei più stretti alleati degli Stati Uniti, tra cui Germania e Francia, rimangono inorriditi di fronte ai venti di guerra che vengono da Oltreoceano; non il Regno Unito di Tony Blair, che appoggia incondizionatamente la dottrina Bush, come gli altri maggiori membri europei della rabberciata “coalizione dei volenterosi” riunitasi attorno ai piani bellicosi di Bush: Italia, Polonia (che parteciperà all'invasione) e Spagna. Nel Regno Unito, nonostante le dimissioni di tre membri del governo, una imponente ribellione alla disciplina di partito tra i parlamentari laburisti e l'opposizione vocale di un gigante della politica britannica come Charles Kennedy, la risoluzione del governo contro l'Iraq passa con un'ampia maggioranza, il 18 marzo 2003.
Il 20 marzo 2003 l'Iraq viene invaso dalle forze americane e della “coalizione dei volenterosi”, lo stato baathista (il partito Baath è il partito panarabo nazionalista radicale a cui apparteneva Hussein) crolla, le sue forze armate sono sbagliate e nel giro di un mese il Paese mediorientale è in mano agli invasori. Il primo maggio del 2003, a bordo della portaerei Lincoln, George W. Bush dichiara “missione compiuta”. In realtà il peggio doveva ancora arrivare. La fine dell'invasione segnava solamente l'inizio di una brutale insurrezione, una guerra di tutti contro tutti tra vari gruppi religiosi e politici del Paese, il governo centrale e le forze occidentali che, attraverso varie fasi, arriverà fino ad oggi. L'insurrezione costerà migliaia di vite alle forze della “coalizione dei volenterosi” e agli americani, decine di migliaia di vite agli iracheni e farà da incubatrice alla barbarie di Daesh, nato dalla costola irachena di Al-Qeda, che prima dell'invasione angloamericana – sembra – non esisteva o era estremamente debole. Dall'invasione al 2011, secondo lo studio più attendibile, sono morte in Iraq circa mezzo milione di persone (vedi qui).
L'Iraq, più che l'Afghanistan o le molte bushiane operazioni “Enduring Freedom”, ha segnato profondamente la consapevolezza politica e l'immaginario della generazione dei nati tra anni '80 e prima metà degli anni '90. La causa dell'opposizione alla guerra ha risvegliato nel mondo occidentale un movimento di massa altrimenti traumatizzato dalla fine della stagione No Global, e ha generato il fiorire di una produzione saggistica politologico-filosofica di varia natura e qualità, tra cui vorrei ricordare soprattutto Iraq. The borrowed kettle dello psicoanalista Slavoj Žižek.
Se quel movimento non è riuscito nel (probabilmente ormai improbabile a prescindere, data la natura ademocratica della politica contemporanea) obiettivo di evitare che iniziasse o fermare la guerra mentre si svolgeva, non mi sembra troppo ottimistico o ingenuo dire che – almeno in Europa – ha ottenuto una vittoria sul piano culturale, nel lungo periodo. La realtà della guerra e del suo inverso, il movimento pacifista, ha distrutto la carriera politica di Blair, trasformando quel “brand” di centrosinistra economicamente liberista e politicamente assertivo sul piano internazionale in un rifiuto tossico della storia (anche se, recentemente, Partito Socialista francese e Partito Democratico italiano hanno dimostrato a loro spese di non aver capito questa lezione). In Gran Bretagna, il rapporto Chilcot ha messo nero su bianco che la guerra poteva essere evitata e andava evitatata, che i militari britannici sono stati mandati allo sbaraglio nel teatro mediorientale, con tattiche basate su assunzioni fantasiose e senza obiettivi chiari, che sull'intera impresa bellica si staglia l'ombra dell'illegalità internazionale; è difficile immaginare che una simile opera di parresia si debba solo allo spirito di trasparenza delle istituzioni del Regno, a prescindere dalle spinte del movimento pacifista. L'ascesa di Jeremy Corbyn dalla retroguardia laburista alla leadership non si può capire se non si considera il suo passato di oppositore radicale della guerra in Iraq. Specularmente, le tendenze filo-New Labour nella destra laburista scontano tuttora la complicità della stragrande maggioranza dei loro politici più esperti con l'aggressione irachena.