Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.
Che accade in Turchia? Il governo di Erdoğan, capo carismatico del partito islamico-moderato AKP, forte di quasi la metà dei suffragi e della maggioranza assoluta nella Grande Assemblea Nazionale (il parlamento), vacilla, sotto l'urto di una rivolta giovanile che sta scuotendo le città della Turchia, i media dicono ben novanta, insomma tutte, e che appare motivato da molto di più del casus belli, l'improvvisa decisione dell'amministrazione di Istanbul, in mano essa pure all'AKP, di tirar giù gli alberi di piazza Taksim, la piazza centrale della parte europea (quindi storica) della città e luogo tradizionale di incontri, manifestazioni, pellegrinaggi turistici, a ridosso del grande bazar, per metterci un centro commerciale e una moschea (interessante connubio! La dice tutta sull'AKP, il cui moderatismo è in realtà sinonimo di liberismo).
La vittoria di Maduro nelle elezioni presidenziali venezuelane del 17 aprile è avvenuta d'un soffio e pone perciò una serie di questioni sulla prospettiva della rivoluzione socialista bolivariana. Non si tratta tanto della mobilitazione di piazza promossa dall'opposizione e della sua contestazione del risultato: non è il primo tentativo, né forse l'ultimo, di rovesciare il governo socialista da parte di una coalizione tanto eterogenea quanto nelle mani di una delle più fetenti oligarchie latino-americane, e non le sarà dato, ritengo, alcuna possibilità di farcela.
La pretrattativa tra il leader dei curdi di Turchia Abdullah Öcalan e alcuni funzionari di alto grado del MİT (i servizi turchi di intelligence), nell'isola di İmralı, del cui carcere Öcalan è l'unico “ospite”, per quanto era nelle sue finalità è giunta in porto.
Margaret Thatcher è scomparsa; figura indubbiamente notevole, la discussione non poteva mancare sul significato della sua esperienza di governo. Attaccò a testa bassa e brutalmente i minatori britannici, che resistevano alla chiusura di miniere che non reggevano la concorrenza del carbone australiano e d'altra provenienza non europea. Vinse, distrusse il sindacato minatori, indebolì terribilmente Trade Unions e Labour Party, inoltre spostò quest'ultimo su posizioni moderate semiliberiste, insomma aprì la strada a Tony Blair.
La vicenda cipriota fornisce ampio materiale a sostegno di due ragionamenti. Il primo riguarda gli orientamenti reali dei vertici di governo dell'Unione Europea e, al tempo stesso, la loro qualità intellettuale. Il secondo, la possibilità effettiva di opporsi alle loro decisioni.
Tra le condizioni di una democrazia partecipata dal popolo, quindi supportata da un popolo consapevole, cioè non degradata in oligarchia, Habermas pone, addirittura, che alle riunioni del popolo e dei suoi rappresentanti non partecipino giornalisti. Le deformazioni delle posizioni, le falsificazioni, le invenzioni, le ridicolizzazioni, le apologie, le censure sono altrimenti inevitabili.
Lucio Caracciolo, direttore della rivista di “geopolitica” Limes, ha rilasciato immediatamente dopo l'annuncio della morte di Hugo Chávez una dotta intervista alla RAI sul bilancio di quasi quindici anni di rivoluzione socialista “bolivariana” in Venezuela e sulle intenzioni di questa rivoluzione in America latina. Essa, al tempo stesso, ha dichiarato Caracciolo, è riuscita ed è fallita. Sul piano delle realizzazioni sociali, cioè dell'uscita della stragrande maggioranza del popolo venezuelano dall'emarginazione, dalla miseria e dalla dominazione di una delle più fetenti cleptocrazie borghesi del pianeta, ha realizzato obiettivi importanti. Tuttavia (come evitare di sottolinearlo?) è fallita nel suo tentativo di fare del Venezuela il paese egemonico in America latina. In questa parte del mondo “c'è solo il Brasile”. Questo paese, guidato da una sinistra non “populista”, democratico anziché essere guidato da un “caudillo”, ha efficacemente contrastato le velleità chaviste, ecc. ecc.
Abbiamo appreso ieri sera della scomparsa del Presidente venezuelano Hugo Rafael Chávez Frías. Egli soffriva da due anni, come è noto, di una forma micidiale di tumore; figura coraggiosa, generosa, ottimista, aveva sottovalutato le prime manifestazioni della malattia. La popolazione venezuelana si è riversata nelle strade commossa. A da subito, poiché la lotta di classe esiste anche se in Italia non si può dire senza essere ridicolizzati dai mass-media, si è scatenata la cagnara mediatica, sulla scia dei mass-media statunitensi, di quelli della destra latino-americana e spagnola, inoltre del quotidiano spagnolo liberista di centro-sinistra el País, a cui l'omologo italiano la Repubblica si abbevera. Una recente ricerca fatta in Spagna ha mostrato come il 55% delle “notizie” pubblicate da el País su Venezuela, Cuba, Bolivia, Ecuador è confezionato a Miami dalla destra somozista cubana ivi riparata: è questa la deontologia, appunto tutta di classe, di tanta stampa occidentale.
I soliti mass-media montiano-padronali narrano di una preoccupazione cubana, date le condizioni di Chávez: il Venezuela, se Chávez verrà meno, rimarrà amico di Cuba? Il Brasile non vedrebbe l’ora, scomparso Chávez, di affermare la propria egemonia economica e politica sull’America latina? Continuerà lo scambio tra Venezuela e Cuba, medici cubani in Venezuela, petrolio venezuelano a bassissimo prezzo (l’equivalente dei costi di produzione e di trasporto) a Cuba, una vera porcheria contro le leggi del mercato? Davvero uno scenario torbido.
Ma torbido è invece il cervello dei gazzettieri servi dei padroni in questione. Tra i dati decisivi dell’attuale situazione latino-americana ce n’è uno molto ignorato (volutamente) da costoro: quello dei legami solidissimi tra i suoi paesi e i suoi partiti progressisti.
Che io sappia, le prime esperienze latino-americane di democrazia partecipata non sono venezuelane ma brasiliane, attivate, sotto il nome di “bilancio partecipativo”, da amministrazioni locali (di stato federato o comunali) in mano alla sinistra, in particolare al suo principale partito, il PT (Partito dei Lavoratori) di Lula e Dilma Rousseff (sono rispettivamente il precedente e l’attuale presidente del Brasile). Le località più note di quest’esperienza sono lo stato di Rio Grande do Sul e la sua capitale Porto Alegre, per avere questa città ospitato i primi tre Forum Sociali Mondiali. Ma io ebbi la fortuna di conoscere con molto anticipo l’esperienza brasiliana, a San Paolo, prima ancora che Lula vincesse la sua prima presidenza.
Nei suoi termini generali l’esperienza brasiliana è fatta così. La maggioranza di sinistra, in uno stato o in un comune che sia, si impegna a determinare parte della propria spesa (il 20-25% circa, esattamente quella che non va in costi fissi già esistenti, come servizi sociali, servizi pubblici, assistenza, salari, stipendi) sulla base delle richieste della popolazione. Queste richieste vengono definite attraverso un itinerario fatto di assemblee popolari di ogni tipo (di quartiere, paese, ecc.; sindacali, di partito, da parte di altre forme associative, ecc.; di donne, giovani, studenti delle varie scuole, lavoratori delle fabbriche e degli uffici, ecc. ecc.), che trattano sia l’uso della totalità della spesa a disposizione che quello della parte impiegabile su un determinato territorio o in risposta a un determinato tipo di problemi. Naturalmente il risultato esorbita la cifra globale a disposizione.
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