Un più ampio negoziato tra stato turco e parte curda ora passa formalmente al capo del MİT e al partito curdo legale, rappresentato in Parlamento, il BDP. È stato questo a motivare l'appello di Öcalan al PKK (il Partito dei Lavoratori Curdi) di concludere la lotta armata contro lo stato turco e di ritirare la parte delle proprie milizie stanziate in territorio turco nel nord dell'Iraq, nei luoghi dove già stanzia il grosso di queste milizie, i monti Qandil, sul confine tra Iraq e Iran.
L'unica cosa nota a questo proposito è che l'esercito turco cesserà le sue operazioni militari (che investono da sempre anche il territorio iracheno) non appena la ritirata delle milizie del PKK sarà terminata, e che tutto quanto dovrà avvenire entro l'agosto prossimo.
Inoltre è stato costituito un organismo parlamentare incaricato del monitoraggio del negoziato e di riferirne pubblicamente, selezionato tra i deputati più significativi. Per quanto riguarda la parte curda si tratta di Leyla Zana, l'altra grande figura carismatica accanto a Öcalan, già parlamentare ai tempi del golpe militare del 1980, incarcerata (1981) per aver giurato fedeltà allo stato turco (come la Costituzione turca prevede avvenga all'inizio di ogni legislatura) nella sua lingua madre, condannata a morte, poi, invece, a seguito della reazione internazionale, a quindici anni di carcere, di cui undici scontati, infine, dopo la conferma della pena (la Corte di Strasburgo aveva imposto il rifacimento del processo, per il palese mancato rispetto dei diritti della difesa da parte del tribunale), scarcerata, a seguito della protesta delle istituzioni europee, che avevano fatto del risultato del secondo processo la cartina di tornasole della continuazione o meno della trattativa sull'adesione della Turchia all'Unione Europea. Giova anche ricordare come la Turchia fu contemporaneamente obbligata allo scioglimento dei tribunali per la sicurezza dello stato, organismi di palese ruolo fascista. Insomma fin qui le cose parrebbero filare. Filano molto meno, invece, sul terreno.
Proseguono gli arresti e le incriminazioni di attivisti ed esponenti curdi, e continuano a rimanere in carcere sindaci, addirittura deputati, e questo senza che il Parlamento abbia avuto modo di esprimere un'autorizzazione a procedere. Molte migliaia di curdi “rei” di avere manifestato per gli obiettivi della loro popolazione sono in carcere; con essi, alcune centinaia di minori.
Le interpretazioni di questa situazione, in così stridente contrasto con l'apertura e gli sviluppi del negoziato, sono due.
La prima è che il governo turco, in mano all'AKP, il partito islamista, faccia il doppio gioco: voglia che tutto il quadro portante della parte curda venga allo scoperto, sia meno attento dinanzi al rischio di essere arrestato o assassinato, per farlo poi fuori nella sua interezza.
La seconda interpretazione è che il leader dell'AKP e capo del governo Erdoğan e il Presidente della Repubblica Gül, stretto sodale di Erdoğan, abbiano il problema di “dimostrare” all'opinione pubblica turca, a larga maggioranza sciovinista e anticurda, facendo i duri, che non stanno calando le brache dinanzi al PKK e che anzi il negoziato attesta la sconfitta militare e quindi politica della parte curda. Personalmente sono di questo secondo avviso, e tra poco indicherò perché.
Per il resto non mancano le illazioni e le interpretazioni dei media turchi, in genere ragionevoli. La parte curda ovviamente rivendica, esse dicono, la pienezza dei propri diritti linguistici e culturali e l'autonomia delle regioni della Turchia abitate in prevalenza da curdi, cioè del sud-est. Naturalmente saranno oggetto di discussioni impiccate problemi come quelli della libertà per Öcalan e del ritorno a casa in libertà dei miliziani e dei quadri portanti del PKK. L'AKP, a sua volta, intende ottenere dal BDP l'appoggio parlamentare a un ambizioso programma di riforme istituzionali, tra le quali campeggia il passaggio della Turchia da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale. In questo modo l'AKP (il cui candidato a prossimo Presidente della Repubblica è ovviamente Erdoğan) si assicurerebbe un livello e un'ampiezza di potere tali da consentirgli, oltre che una propria più solida egemonia nella società turca, anche di mettere finalmente il guinzaglio al collo dei militari. L'obiettivo della repubblica presidenziale, però, per essere raggiunto richiede una riforma costituzionale, e in Turchia le riforme costituzionali il Parlamento le può fare solo a maggioranza qualificata che l'AKP da solo non ha. Quindi gli servono alleati, ma tutti gli altri partiti non sono d'accordo con la repubblica presidenziale, salvo quello curdo legale, a cui in sostanza non importa un fico secco della forma istituzionale della Turchia, e che è disposto perciò a trattare. Ecco perché ritengo che il negoziato non sia una finzione del governo ma una cosa seria. È c'è anche un secondo motivo a supporto di quest'opinione. Alla rivolta endemica della popolazione curda in Turchia e all'esistenza nel nord dell'Iraq di uno stato curdo di fatto si è aggiunta nel corso della guerra civile in Siria un'altra entità curda di fatto indipendente, nel nord-est di questo paese; per di più, mentre lo stato curdo di fatto nel nord dell'Iraq è nelle mani di formazioni curde legate agli Stati Uniti e molto tiepide nei confronti dell'irredentismo curdo in Turchia, l'entità curda in Siria è gestita da una formazione strettamente legata al PKK. Insomma il rischio per l'AKP è che, anziché stagnare, se non ridursi, la lotta del popolo curdo politica e militare tenda prossimamente ad allargarsi, se non viene inventato qualcosa che ne cambi in meglio la condizione generale prima di tutto in Turchia.
Infine c'è un terzo motivo: dopo anni di stasi i negoziati tra Unione Europea e Turchia per l'adesione di questo paese si sono sbloccati: prima Germania e Francia (più paesi di minore rilievo) ponevano il veto al loro sviluppo, adesso la Francia (con Hollande) ha cambiato idea, e la Germania è stata così costretta a fare mezzo passo indietro. Ma tra le condizioni dell'entrata della Turchia l'UE ha sempre posto il riconoscimento dei diritti delle minoranze linguistiche (e religiose).
Infine: funzionerà? La parte militare è politicamente più debole di un tempo, ma è tuttora in grado di effettuare operazioni molto pericolose. È in corso il processo ai militari della Gladio turca, Ergenekon, avendo essi progettato un colpo di stato che rovesciasse il governo dell'AKP, e la pubblica accusa ha chiesto condanne pesantissime, alcune addirittura a vita. Tra i processati c'è anche un ex capo di stato maggiore. I motivi di malessere dei militari sono quindi molti. Non possono essere esclusi, quindi, colpi di coda “ellittici”, per così dire. In passato, per esempio, è stato usuale per i comandi militari, ogni qual volta la tensione con i curdi si allentava o qualcuno cominciava a parlare di diritti dei curdi e di negoziati, mandare un po' di soldatini sulle montagne a farsi ammazzare dai miliziani del PKK. Inoltre una parte del MİT è strettamente legata all'eversione militare di estrema destra e al partito dei Lupi Grigi MHP. Non pochi commentatori turchi, dunque, collocano da qualche tempo la strage di Parigi di inizio anno (l'uccisione, rammento, di tre militanti curde), operata da un militante dell'MHP gestito dalla parte deviata del MİT, come atto d'avvio di una serie di pesanti provocazioni, volte a un condizionamento minaccioso del governo o a riprecipitazioni spontanee della guerriglia curda (come già accaduto in passato, dopo l'arresto nel 1999 di Öcalan) o ad ambedue le cose. Un ultimo commento. Sono state espresse riserve, qui e là in Europa, sulla decisione di Öcalan di negoziare. Personalmente non sono per niente d'accordo con queste riserve. La parte curda è una popolazione, prima di tutto, di 25 milioni di persone, che dalla guerra nel sud-est ha subito estreme sofferenze, e che della guerra, pur ribadendo l'appoggio largo a PKK e BDP, sono molto stanche. Inoltre le parti politiche curde hanno sempre dichiarato la loro intenzione di negoziare, e sempre concepito il lato militare della loro azione come funzione del lato politico. Infine si sono aperti spazi, pur ridotti, in Turchia di democrazia, che richiederebbero in ogni caso una forte prevalenza della lotta politica su quella militare.