Andrea Vignali

Andrea Vignali

Ho 20 anni, sono nato a Massa Marittima (GR) e attualmente vivo e studio storia moderna e contemporanea a Pisa. Suono la batteria, faccio politica e scrivo piccoli romanzi. Quella de il Becco è la mia prima esperienza giornalistica.

Per una brevissima storia delle Fosse Ardeatine

Sono quasi le 4 del pomeriggio quando in via Rasella, il 23 marzo 1944, i Gruppi di Azione Patriottica romani fanno esplodere 4 bombe a mano contro l'11ª compagnia del III battaglione del Polizeiregiment "Bozen", appartenente alla Ordnungspolizei (la polizia d'ordinanza tedesca). Sono 35 le vittime dell’attentato: 33 soldati tedeschi e 2 civili italiani.
Quella di via Rasella è un’azione che segna una cesura mentale nel corpo militare e politico tedesco: è la prima volta che una Resistenza alle forze armate naziste in Italia si manifesta così chiaramente e alla luce del sole, per di più nel centro della capitale, a Roma. È un gesto grave, clamoroso, che non può certo passare senza conseguenze: gestire un secondo fronte nelle retrovie mentre gli alleati avanzano da sud sarebbe uno sforzo impensabile per le truppe del Fuhrer. Bisogna quindi rispondere subito, eliminare il problema prima che si possa espandere e rafforzare. E la soluzione, davanti a una popolazione messa in ginocchio dalla povertà e dalle difficoltà della guerra, è la paura: la rappresaglia.

È la prima volta che avviene nella storia repubblicana e democratica del nostro Paese. Non era mai accaduto negli ultimi 70 anni che a governare una regione fosse uno striminzito 17% degli aventi diritti al voto. Perché è proprio di questo che, aldilà di tutte le possibili considerazioni concernenti la bassa affluenza ai seggi, stiamo parlando: meno di un quinto degli elettori è adesso al governo in Emilia Romagna (mentre in Calabria le cifre sono leggermente, ma non troppo, superiori). 

Al G8 di Genova, 13 anni fa, io non c’ero. Avevo 8 anni, ero in vacanza e l’unico ricordo che ho di quei drammatici giorni è una copertina del “Venerdì” di Repubblica: un poliziotto in tuta antisommossa che guarda l’obbiettivo della fotocamera. Dietro, una macchina in fiamme.

Nella memoria di coloro che l’hanno vissuta sulla propria pelle e nell’immaginario di quelli che non c’erano, Genova 2001 rappresentava, al tempo, la possibilità di riuscire finalmente a scardinare un sistema malato: era un “NO” alla globalizzazione del capitalismo neoliberista, una visione alternativa ad un mondo dove il 20 % della popolazione consumava più di tre quarti delle risorse planetarie.

Diciamocelo francamente: così com’è, l’Europa non funziona. E non si tratta a mio avviso di un giudizio estremistico o totalmente senza senso: perché, di fronte a una crisi economica che sta attraversando il continente intero, come si fa a dire che nell’UE va tutto bene? I media cercano di propinarci la solita storiella che le “grandi decisioni”, quelle che aiuteranno l’Italia a venir fuori da questo tunnel senza fine, vengono prese a Bruxelles e non a Roma. Il motivo lo conosciamo: i politici italiani non sono affidabili. E quindi l’unico organismo che può darci una mano è la somma, suprema e imbattibile Unione Europea: se gli daremo ascolto, tutto filerà liscio. E infatti siamo ancora qui, dopo quasi oramai sei anni dall’inizio della crisi, con più problemi di prima e con meno speranza che mai. Come mai siamo arrivati a questo punto? 

L’Unione Europea, fondata ufficialmente con il trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, fu il risultato di una spinta proveniente da quelle politiche economiche che, partendo dagli USA di Reagan e dalla Gran Bretagna della Thatcher, arrivarono ad inglobare gli Stati del vecchio continente all’interno di un mercato libero marchiato WTO, caratterizzato dall’eliminazione delle barriere doganali (già in atto da diversi anni), da una politica finanziaria e monetaria comune (che portò a un’ulteriore deregulation nel mondo della finanza) così come da un’eguale politica economica. Ma ne è valsa la pena?

Il Serchio

tortuoso sfociando in mezzo alle barriere

di marmo già spaccate a Ripafratta guida

nel terribile abisso le onde che muoiono

di quella morte che amano gli amanti, vivendo

in ciò che sempre cercavano

Percy Bysshe Shelley da “La barca sul Serchio”

Ripafratta è una piccola frazione al confine tra le provincie di Lucca e Pisa, nonché al limite settentrionale del territorio del Comune di San Giuliano Terme. È uno di quei paesini che ti scorrono davanti velocemente quando non hai abbastanza tempo per fermarti e osservarli meglio. Eppure se qualcuno lo facesse, rimarrebbe sorpreso nel vedere le imponenti mura di quella costruzione che domina sul paesino tanto conteso nel corso dei secoli tra Lucca, Pisa e Firenze: la Rocca di Ripafratta.

Sabato 14 dicembre, Arapahoe High School, Centennial, Colorado, USA. È quasi l’ora di pranzo quando uno studente fa incursione nella scuola, apre il fuoco sui suoi compagni con un’arma, poi se la punta addosso e si ammazza. Le squadre speciali (le celebri SWAT) entrano in azione e perquisiscono tutti gli studenti. Oltre all’attentatore non ci sono altri morti. 

Stesse immagini, stesse scene e per di più proprio nel primo anniversario della strage dei 20 bambini e dei 6 adulti della scuola elementare di Newtown. Sono sempre gli stessi titoli quelli che rimbalzano ogni anno nelle nostre televisioni: e noi ci stupiamo, pure. Ci chiediamo magari perché possano accadere certe cose in un paese economicamente e tecnologicamente avanzato come gli Stati Uniti d’America. Un paese il cui presidente ha ricevuto addirittura il premio Nobel per la pace.

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