Sembra di aver fatto un salto indietro nella scala temporale dell’evoluzione democratica del nostro Paese: prima del 2 giugno ‘46, prima ancora del ventennio.
Probabilmente i nostri padri costituenti non si erano neanche minimamente immaginati che la vita politica dello stato italiano potesse trovarsi ad affrontare una situazione simile, dopo aver visto l’89% della massa elettorale andare a votare per decidere tra Repubblica e monarchia. E invece è successo. Chiusi nelle nostre case, felici per una volta di non preoccuparci per il futuro dei nostri giovani, dato che Matteo Renzi esiste veramente e risolverà tutto, lo strumento fondante del nostro sistema politico, culturale e istituzionale è morto. Non che prima fosse particolarmente vegeto, ma il voto di domenica ha messo la parola fine.
È incredibilmente notevole la portata del passaggio storico che è avvenuto qualche giorno fa. Ma per Matteo Renzi non c’è niente di preoccupante: ha vinto, questo è quello che conta. Eppure era stato lo stesso sindaco di Firenze in passato, più di una volta, a ricordare, nei commenti post-elettorali (regionali marzo 2010; regionali ottobre 2012; comunali maggio 2013), quanto preoccupante fosse il dato sulle astensioni dal voto. Con una sostanziale differenza: ora è Presidente del Consiglio.
Il voto di domenica è il segno che la politica democratica italiana ha fallito il suo compito principale: rappresentare il popolo. In un paese normale dovremmo fermarci, riflettere e magari fare qualche passo indietro. Ma Renzi sta 2 a 0. E mentre le minoranze interne al PD si fanno coraggio e sfidano il voto del Jobs Act, Renzi si scopre a sua volta minoranza. Governando.