Il movimento, che aveva le proprie radici nella rivolta zapatista del ’94, era riuscito a fare qualcosa che non si vedeva dagli anni ’60: un grido di protesta internazionale e, quindi, globale. Un’evoluzione in questo senso, però, che era stata possibile solo nel corso e con il passare degli anni: prima le contestazioni al G7-G8 di Birmingham, nel 1998, poi, a maggio dello stesso anno, le proteste al WTO (l’Organizzazione mondiale del commercio) di Ginevra; nel 1999 la catena umana di 35.000 manifestanti attorno alle strutture che ospitavano il G7-G8 a Colonia; infine, 4 mesi dopo, il 30 novembre il risultato più clamoroso: il vertice della WTO a Seattle viene interrotto. I sit-in dei manifestanti e gli scontri in piazza impediscono ai delegati di raggiungere la zona della conferenza: nasce il “popolo di Seattle”, i “No global”. Dalla capitale dello stato di Washington a Genova passano due anni ed è un susseguirsi di Forum internazionali che, unitariamente, si schierano contro le scelte dei governi neoliberisti: la mobilitazione verso il G8 ligure, che segnerà la fine di un movimento capace di riunire realtà differenti ma con uno stesso obiettivo di fondo, è vista come un appuntamento nodale per i “No global”.
Cosa rappresenta oggi, invece, Genova 2001? Innanzitutto una delle pagine più buie della storia italiana post-fascista e quella più tragica degli ultimi 20 anni: una repressione gratuita nei confronti di quelle migliaia di manifestanti che erano giunti nel capoluogo ligure da tutti gli angoli della Terra; un’immagine sgradevole, terrificante e vergognosa delle capacità di tenuta dell’ordine pubblico da parte delle autorità italiane; un ventitreenne ucciso dalla pistola di un carabiniere; centinaia di feriti; un’irruzione dallo stampo pressappoco terroristico e fascista in una scuola che era base e dormitorio per molti manifestanti; un gran numero di persone sottoposte a tortura nelle carceri; un governo di destra e degli alti funzionari di polizia che mai si sono pentiti dei fatti accaduti a Genova e che, anzi, hanno ribadito quanto positiva sia stata la tenuta dell’ordine pubblico: premio, il loro scatto di carriera. Ma, a distanza di tredici anni, Genova 2001 rappresenta l’ultimo vero baluardo di una visione politica e sociale alternativa al mondo nel quale viviamo: come scrivono Agnoletto e Guadagnucci sulla copertina de “L’eclisse della democrazia”, “a Genova si parlava di un prossimo crac della finanza globale, del collasso climatico del pianeta, delle guerre come frutto naturale del sistema neoliberista”. Nei mesi e negli anni successivi al G8 ligure prima l’Afghanistan e poi l’Iraq sono stati invasi dai paesi occidentali. Nel 2009 c’è stata la crisi economica e finanziaria più grave dal 1929. Da quel luglio 2001, lontano ma non troppo, il movimento “No global”, che per qualche anno aveva messo in crisi le istituzioni del capitalismo neoliberista, non è più riuscito a riprendersi: la repressione messa in atto a Genova è stata un colpo troppo duro all’anima e alla base del “popolo di Seattle”.
Ricordare quei 4 giorni, quindi, non dovrebbe semplicemente significare “indignazione”: dopo gli anni dell’austerity, dopo l’epoca d’oro di Berlusconi e con il recente avvento di Renzi è importante elaborare un’analisi politica che, in questi anni è mancata. Da dove partire? Dal fatto che dall’omicidio di Carlo Giuliani, dai fatti della Diaz e della caserma di Bolzaneto nulla, politicamente ed economicamente parlando, è cambiato. Commemorare Genova 2001 non deve e non può limitarsi al ricordo di quel che è successo: è bene, invece, chiedersi perché è successo. Fatta questa domanda allora si, possiamo indignarci.