Salvatore Settis ce la racconta a partire dalla metafora di una Venezia la cui sorte è messa a rischio dal fondamentalismo della monocultura turistica che tende a legittimare le scorribande speculative più spregiudicate e devastanti per una città simbolo, patrimonio del pianeta. Tomaso Montanari, invece, dimostrando, con impressionante e documentata forza argomentativa, come il monoteismo del mercanto stia attaccando ciò che fino a qualche decennio fa era considerato sacro, vale a dire il patrimonio culturale collettivo, l’arte e il paesaggio italiani, che sono a rischio di perdere la funzione pubblica che gli è riconosciuta dalla nostra Costituzione.
È impressionante constatare le analogie fra questo fenomeno, i danni che produce e le modalità con cui si sviluppa - che coinvolgono responsabilità politiche spesso intrecciate con interessi criminali - e quello che accade nelle Sanità pubblica. In quest’ultima, così come nelle province del patrimonio pubblico artistico e paesaggistico, l’eterna querelle pubblico-privato viene risolta a favore di quest’ultimo, con l’affermazione di un sistematico processo di socializzazione delle perdite e privatizzazione degli utili.
Nel settore del patrimonio culturale, come dimostra Montanari, sono le fondazioni e i concessionari che, in concorso o in sostituzione degli amministratori eletti, spremono il limone messo a disposizione dall’enorme patrimonio pubblico, spesso rivendendo ai cittadini – attraverso una perversa partita di giro – ciò che è già loro. In quello della Sanità pubblica i privati, integrali o convenzionati-accreditati, in concorso con la politica ma anche con giganteschi interessi costituiti come quelli che fanno capo alle multinazionali del farmaco e delle apparecchiature diagnostiche, fanno altrettanto realizzando il miracolo rovesciato di un peggioramento del numero e della qualità delle prestazioni e di una spaventosa lievitazione dei costi.
Da un lato sono i beni culturali che diventano merci, dall’altro a diventare merce è la salute pubblica. Come si vede due dei massimi beni comuni. Ma le analogie purtroppo, come spiega benissimo Montanari, non attengono solo ai devastanti risultati economici, normativi e di tutela di diritti e beni collettivi. Esiste infatti un coté culturale se possibile ancora più preoccupante. Quello che ha imposto, a proposito del patrimonio pubblico, l’ambigua equivalenza fra valorizzazione e privatizzazione. La stessa che fece paragonare a un ministro della Repubblica, incappato in un evidente lapsus freudiano, il patrimonio culturale del nostro paese a un giacimento di petrolio che andava estratto e venduto per produrre ricchezza. Dimenticava quel ministro che la ricchezza era già il patrimonio in sé che, in quanto tale, andava tutelato e promosso. In Sanità se possibile è successo qualcosa di ancora più grave: una dottrina unitaria vasta, multidisciplinare, olistica in cui la nostra tradizione clinica primeggiava (Augusto Murri docet) è stata sostituita da uno spezzatino di saperi specialistici e procedure destinati a foraggiare il sistema economico speculativo e spesso criminogeno che infiltra la struttura pubblica.
Non sembri forzato il parallelo beni culturali-salute pubblica. Non c’è dubbio, infatti, come insegnano Albert Camus, James Hillman e tanti altri, che la bellezza non è un semplice orpello decorativo, una specie di vacanza dalla necessaria laboriosità quotidiana, ma un elemento indispensabile per il nostro benessere fisico e intellettuale, essenziale per la salute individuale e pubblica, determinante per il mantenimento in vita e se possibile per lo sviluppo dell’intelligenza critica collettiva. Proprio quella che si vorrebbe cancellare da parte di coloro che hanno interesse a imporre solo e soltanto il dispotismo del mercato.
È di questo dispotismo che Tomaso Montanari svela gli strumenti, i trucchi e i disastri spesso mascherati di nuovismo e di efficienza. Ci racconta di opere d’arte che viaggiano freneticamente e che capita vadano distrutte come il celeberrimo gesso del Canova. Di mostre-eventi vuote e stucchevoli pompate a dismisura dai media che muovono orde di visitatori inconsapevoli, i quali magari passano accanto senza saperlo a capolavori (in)custoditi in chiese o pinacoteche dimenticate. Di fondazioni private, di finti mecenati e sponsor, di quella forma molto particolare di “patriottismo for profit”, di cui non mancano esempi recenti. Dei sistemi di controllo di interi patrimoni, come quello relativo all’opera di Michelangelo, agita da chi con pezzi di pubblico tesoro organizza eventi che producono privatissimo profitto. O ancora dell’Associazione Civita, con la sua “Civita cultura” presieduta da Gianni Letta e delle esternazioni improvvide di Giovanna Melandri che immaginò l’Italia come una bella signora seduta sul suo tesoro, prima di passare dalla politica direttamente al governo del Maxxi.
E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Come pure quello dei precisi rimedi, a partire dalla difesa delle soprintendenze, che Montanari indica per frenare la deriva che ci sta consegnando a un destino tanto più gramo quanto più grande e incommensurabile è la ricchezza del patrimonio che abbiamo ereditato dai nostri avi. Un patrimonio che dobbiamo saper difendere. Ma per farlo, conclude Montanari: «non basta costruire uno Stato efficiente: dobbiamo costruire uno Stato giusto. Uno Stato capace di attuare il progetto della sua Costituzione (…). Se vogliamo costruire un futuro che meriti di essere vissuto non possiamo sperare che i privati facciano l’interesse pubblico, e far finta di non vedere quando è evidente che avviene il contrario: dobbiamo ricordare che lo Stato siamo noi. E agire di conseguenza». Se ci rassegneremo a essere “privati del patrimonio” resteremo vestiti soltanto della nostra vergogna.