Nonostante in molti si siano lanciati in paragoni improbabili con mostri del passato, c’è poco di nuovo nel progetto del carismatico ed enigmatico Kevin Parker, se non una onesta riproposizione dei canoni rock più classici e abusati e filtrati attraverso moderne sonorità indie. Il gruppo di Perth con l’esordio Innerspeaker (2010) e soprattutto col successivo Lonerism (2012) ha saputo comunque restituire le sonorità anni sessanta/settanta pop e psichedeliche con rinnovata attrattività, tanto che singoli come Elephant o Feels Like We Only Go Backwards hanno letteralmente spopolato nelle classifiche mondiali, rendendo i Tame Impala una delle formazioni indie mainstream più riconoscibili ma anche più fresche ed eccitanti. Al di là dei milioni di copie vendute e dell’hype enorme che lo circonda, dietro il progetto Tame Impala c’è sempre stato qualcosa di solido. Sotto gli intrecci chitarristici e percussivi, si nascondeva spesso una discreta capacità compositiva e un barlume di ricerca sonora.
Lonerism era del resto un chiaro esempio di pop psichedelico onirico e appassionato, non irrefrenabile ma comunque vibrante, fedele alla linea tanto per quanto riguarda la sua vicinanza alla scena acid rock californiana che di quella pop lisergica britannica (Pink Floyd, i Beatles della maturità) ma sorprendentemente svuotato della sua componente comunitaria e hippie. Parker con apparente rassegnazione e con una certa estetica del declino intona l’inno anti- progresso della già citata Feels Like We Only Go Backwards mentre tutto viene incentrato su una dimensione che espelle la collettività dall’orizzonte musicale. I Tame Impala parlano della nostra epoca: ciò che attrae del gruppo australiano più che i suoi suoni , sono le (molto probabilmente del tutto involontarie) suggestioni di decadenza, vuotezza e superficialità che caratterizzano la nostra vita.
Non c’è dubbio che questo nuovo Currents abbia lasciato tutti un po’ spiazzati: il nuovo corso Tame Impala al posto delle spavalde chitarre psichedeliche, mette in primo piano i synth, al posto dei groove acidi, fa emergere in tutto il suo spessore la musica disco anni ottanta, ricca di raffinate suggestioni electro pop. Il cambiamento formale è sconvolgente, eppure quello sostanziale risulta estremamente blando.
Quel che infatti emerge dalla 13 tracce del nuovo album è che il mondo “post-lonerism” di Kevin Parker non è meno solitario di quello del suo predecessore, Currents anzi si immerge in flussi artistici che sfiorano l’autistico: della club culture anni ottanta, ne resta solo l’involucro, tutto è svuotato ed evanescente. Flebili ricordi di scintillanti luci al neon e di sgargianti vestiti luccicanti si dissolvono e si perdono in contorte correnti calde e impalpabili che un synth pop dolce e distante svuota di ogni consistenza. Siamo in presenza di un album che più che parlare al cuore di folle di giovani discotecari da dancefloor, fa pensare a un nostalgico jukebox di hit dance anni ottanta riprodotte all’infinito in un polveroso e semi- vuoto bar di periferia, frequentato da pochi annoiati clienti di mezza età troppo impegnati a smanettare col proprio smartphone per prestare reale attenzione alla musica.
Ma è proprio questo che sembra essere l’elemento più eccitante e affascinate del nuovo sound Tame Impala: di questo electro-synth pop decostruito e investigato nella sua infinita tristezza e melanconia, non resta che uno scheletro ma uno scheletro addobbato a festa con i fronzoli à la Pet Shop Boys di The Less I Know the Better e lo squallore romantico post-Donna Summer di Cause I’m a Man, uno dei momenti più bassi del disco. Parker sembra portare alle estreme conseguenze la lezione della dream beat (Memory Tapes, Washed Out), dissolvendo in nostalgiche istantanee sbiadite un intera decade. In questo pastrocchio di originale c’è, forse, allora, il continuo contaminarsi fra preziosismi barocchi e patinati e la ricerca maniacale della pulizia di Parker con un atteggiamento in bassa fedeltà e un suono dalle marcate tendenze lo-fi in cui un vetro appannato sembra ergersi impetuosamente fra la musica e l’ascoltatore.
L’epica vuota e straniante dell’iniziale Let it Happen (i cui beat mid-tempo e le tastiere psichedeliche in loop perenne la rendono l’apice indiscusso dell’album) è il manifesto di un tentativo di riscatto esistenziale morto fin dalla nascita: l’illusione languida di Yes I am Changing e Eventually, apici della superficialità contenutistica e della banalità compositiva, lasciano ben presto spazio alla straziante realtà dei fatti che prende il nome di New Person, Same Old mistakes, episodio conclusivo e – a sorpresa - piuttosto riuscito (un r’n’b dilatato e appiccicosissimo) che mette fine a una delle opere più bizzarre dell’anno.
È un disco che vale per le sue suggestioni di dissolvenza più che per i reali contenuti musicali. Al contrario dei Daft Punk e di Jamie xx, che (con esiti alterni e controversi ma a tratti illuminanti) stanno provando a ricostruire un immaginario dance contemporaneo, i Tame Impala, si accontentano di ridurlo a mera sensazione epidermica, a un misterioso reperto archeologico di cui non se ne riesce a ricostruire completamento senso e datazione. Ma dietro questo tentativo non c’è poetica, bensì mera estetizzazione. Currents costruisce una forma bizzarra di parodia senza ironia, di scherzo senza divertimento in cui una certa cultura da discoteca anni ottanta viene volontariamente stereotipata e messa a nudo nella sua inconsistenza ma mai ridicolizzata, anzi di cui se ne sente una certa mancanza. Fosse anche solo per questo, il disco vale un ascolto.
Voto: 6,5