1) La prima domanda è d’obbligo: dove hai mosso i primi passi nel mondo del fumetto? Disegnare è sempre stata la tua aspirazione?
Professionalmente parlando ho iniziato a disegnare le mie prime storie a fumetti su una rivista/contenitore di fumetti horror, “Mostri”, intorno al ’90.
È durato poco perché poi la rivista ha chiuso, quindi ho proseguito con maggiore intensità i contatti che avevo già preso con la Disney, e di lì a poco ho iniziato a lavorare per loro. Alla tua seconda domanda rispondo semplicemente: sì. Quantomeno, una delle mie aspirazioni, anche se probabilmente la più grande. Il mio primo fumetto (su canonica pagina di 6 vignette!) l’ho disegnato a 6 anni di età.
2) A soli 19 anni, hai realizzato la tua prima storia su Topolino, "I tre porcellini e la fata del bosco", diventando in assoluto il più giovane disegnatore ad aver pubblicato sul settimanale da quando è nato. Com’è stato entrare a far parte della grande scuderia di Walt Disney?
Incontrare Giovan Battista Carpi, che sarebbe poi diventato il mio maestro, è stata davvero una grande emozione: amavo il suo lavoro, come adoravo Cavazzano e Scarpa, ma lui è stato il primo che ho incontrato in carne e ossa. Quando mi presentai in Disney era – mi pare – il 1989. Portai del mio lavoro e mi ricevette una segretaria, di cui non ricordo il nome, a cui piacque e che mi disse che l’avrebbe mostrato a Carpi per una pre-selezione. Quando tornai, mi fu detto che i lavori erano piaciuti e che mi era stato chiesto di realizzare 6 tavole disneyane di prova. Così feci, e a quanto pare a Carpi piacquero quel tanto che bastò per farci incontrare, nella sede di via Dante a Milano. Esisteva già una “prima versione” della Scuola Disney, iniziata da un annetto a quella parte, e in sede incontrai i primi allievi, che poi erano i primi nuovi disegnatori Disney dopo tanti anni senza “nuova linfa”. Lì incontrai Carpi. Il mio primo pensiero fu: “cavolo, siamo alti uguali! È davvero piccolo!” Ma artisticamente era un gigante. Mi risfogliò il book davanti, complimentandosi, poi passò alle tavole Disney che massacrò amabilmente. Mi disse che c’era un grosso potenziale ma avevo bisogno di lavorarci ancora, perché “fare Disney è molto difficile”. Ora posso dire che aveva più che ragione. In quel periodo lavoravo ancora per Mostri, lui mi propose di frequentare la Scuola – gratuitamente, perché era qualcosa di totalmente “aperto” – ma rifiutai perché dovevo lavorare e avevo delle scadenze con Mostri. Andai avanti per qualche mese così, vedendoci di tanto in tanto, ogni 3-4 mesi, con poche tavole Disney che gli portavo. Ma progredivo poco perché non riuscivo a trovare il tempo necessario per lavorarci bene. Quindi Mostri chiuse, e a vederlo col senno di poi, per me fu una fortuna perché riuscii a dedicarmi completamente a Disney. Passai un due-tre mesi a Scuola con Carpi e feci enormi progressi, tanto che lui venne da me, un giorno, con una sceneggiatura: “Dovevo disegnarla io, ma non ho tempo: ti va di farla tu?”. Che gli potevo rispondere?
3) Nel 2000, un’altra importante casa editrice ha bussato alla tua porta. Com’è nata la tua collaborazione con la Sergio Bonelli Editore? Dylan Dog era un tuo sogno nel cassetto?
Ho iniziato a collaborare con Dylan grazie all’interessamento del suo editor Mauro Marcheselli nei confronti di una mia storia di Topolino, dunque direi in maniera piuttosto anomala. Mauro apprezzò l’uso dei miei bianchi e neri in quella storia, pubblicata senza colore in un libro della Einaudi che racchiudeva storie topolinesche noir di Tito Faraci. Fu proprio lui a contattarmi su richiesta di Mauro e mi fu chiesto se ero interessato a fare delle prove per Dylan. Pensai a uno scherzo perché se non me l’avessero chiesto loro, sarei andato io a bussare nel giro di qualche settimana, visto che Dylan era una mia sincera passione da sempre. E’ stata un’incredibile coincidenza, o forse era solo destino, chissà. Insomma feci alcune prove che finirono poco dopo sotto gli occhi di Marcheselli, in maniera imprevista (non le ritenevo sufficientemente buone e non gliele avrei mostrate, ma ci incontrammo casualmente alla presentazione di un libro e non potei fare a meno di aprirgli davanti l’eloquente cartelletta che avevo in mano). Gli piacquero e mi invitò il giorno dopo in redazione, dove con mia grande sorpresa mi diede una sceneggiatura inedita da realizzare per un albo di Dylan Dog. Gli chiesi se era sicuro di cosa stava facendo, perché non mi sentivo all’altezza di partire subito. Lui invece era certo delle mie potenzialità, o forse solo molto sadico, perché la realizzazione di quella prima storia fu un vero travaglio per me. Però andò bene e, da allora la collaborazione è proseguita senza alcun problema in un clima di grande armonia. Soprattutto ho trovato in Mauro un vero amico e una persona speciale.
4) Tra le tante storie “dylaniate” che hai realizzato, ce n’è una a cui sei affezionato in particolare?
In ognuna di quelle che ho disegnato ho lasciato un pezzo di me, però credo che quella a cui sono più legato sia la prima che ho sceneggiato e disegnato, “Il vecchio che legge”, realizzata nel 2005 per un albo regolare ma uscita poi sul Gigante n°18, nel 2009.
5) Ciò che sorprende maggiormente, nell’osservare i tuoi lavori, è la straordinaria facilità con cui ti dedichi alla realizzazione sia di tavole realistiche sia di stampo umoristico e disneyano. Come riesci a gestire questa tua “doppia natura”?
Bè, vorrei averla davvero, questa straordinaria facilità di cui parli, in realtà è una faticaccia saltare da una parte all’altra! La gestione di questa doppia (o tripla) natura mi è però abbastanza naturale, non la avverto come una forzatura.
È solo complesso gestire i diversi stili perché ognuno possiede regole e limiti diversi, e spesso è facile far “debordare” l’uno nell’altro, anche inconsciamente. Sono lingue diverse con cui raccontare una storia: se conosci una lingua straniera te ne puoi rendere conto facilmente, quando inizi involontariamente a pensare in una lingua mentre ne stai utilizzando un’altra. E’ anche una questione di disciplina. Ma essendo il disegno anche indisciplina e libertà, oltre che rigore e schemi, capita che la bilancia penda da una parte o dall’altra. L’equilibrio è una conquista molto ardua da raggiungere. C’è da dire che talvolta il disequilibrio è meraviglioso. E che ciò che si apprende da una parte può tornare utile dall’altra.
6) Quali sono gli autori a cui ti sei ispirato?
Sono moltissimi, se dovessi elencarli tutti non finirei più. Non posso però non citare quello che considero il più importante tra loro, per la potenza con cui ha colpito la mia immaginazione: Alberto Breccia.
7) Dylan Dog non è l’unico personaggio bonelliano su cui ti sei cimentato. A partire dal 2005, hai curato l’ideazione grafica di Brad Barron (su testi di Tito Faraci) e hai realizzato tutte le copertine della miniserie omonima e degli speciali. Qual’ è il tuo rapporto con la fantascienza? È un genere che prediligi o sei più orientato verso altri filoni?
La fantascienza mi piace molto, adoro i film girati tra i ’40 e i ’60, pieni di inventiva e fascino, a partire dalle locandine spesso meravigliose e terribilmente evocative. Stessa cosa si può dire del fumetto di fantascienza, o dei libri. Allo stesso modo certo il cinema di fantascienza moderno possiede la stessa forza di attrazione su di me, anche se per motivi diversi. Pellicole che trattano dei rapporti tra la tecnologia e l’uomo, scivolando volentieri in digressioni filosofiche sulla deformazione della realtà percepita, alla Dick per intenderci, cose come Strange Days, L’esercito delle 12 scimmie, Matrix e via dicendo. Poi ovviamente tutti i classiconi del genere, di ogni tempo, da Incontri Ravvicinati a Star Wars a 2001 a Pacific Rim. Ma in realtà non è esatto dire che prediligo la fantascienza, non mi piace parlare di generi (perché come dice la parola poi si rischia di generalizzare) ma di opere singole, di qualsivoglia genere, dal drammatico al fantasy passando per l’horror e via dicendo. Parlo ora di film ma la cosa può essere naturalmente ampliata a letteratura, fumetti e quant’altro.
8) Ultimamente la Sergio Bonelli Editore sta puntando molto sulla pubblicazione di miniserie di breve e media durata e di romanzi a fumetti, spesso affidati a nomi di grande spicco delle testate principali. Credi che sia un buon metodo per arginare la crisi che sta colpendo anche il mercato del fumetto?
Sai come si dice, avendo la ricetta per arginare o risolvere la crisi non si farebbe fatica a cucinare il minestrone ideale. In realtà nessuno sa se possa essere un buon metodo o meno, si va per tentativi, la gente sta abbandonando la lettura (dei fumetti ma allo stesso tempo di libri e quotidiani) per mille motivi, primo tra tutti l’invasione della tecnologia. Diciamo che naturalmente ci speriamo tutti, nella buona riuscita di queste nuove proposte, e che non smetteremo di provarci e di proporre novità fintanto che potremo farlo.
9) Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Molti fumetti, romanzi, quadri, oltre a svariati altri progetti che non rientrano in queste categorie. Non per smargiassa volontà di voler dimostrare poliedricità o altro, ma per sincero bisogno di fare, realizzare ciò che mi pulsa dentro. Il mio bisogno di esprimermi è identico a quello con cui sono partito, 24 anni fa. Forse anche maggiore. Allo stesso modo la mia immaginazione è rimasta quella di Fabio bambino, e la cosa non sempre si rivela positiva. Il mio cruccio infatti è solo quello di non avere il tempo per realizzare tutti i progetti che ho in mente. Probabilmente sarà così. E’ anche, spesso, quello di non riuscire a trovare un Editore adatto a farlo, perché spesso le cose che realizzo per me sono molto poco commerciali, me ne rendo conto. Cerco in ogni caso di lavorare solo a quello che mi piace, a quello in cui credo, sono molto onesto in questo. Anche a costo di lavorare per mesi, o anni, per niente, su miei folli progetti, senza vedere un soldo, come spesso mi è capitato, solo per il desiderio di mettere su carta i miei sogni. Rimarranno in un cassetto? E così sia, se dev’essere. Avrà un senso anche questo, da qualche parte.
10) Negli ultimi due anni sono venuti a mancare tre grandissimi artisti, che con il loro talento hanno sempre smentito chi tendeva a sminuire il fumetto come genere minore, inferiore alle altre forme d’arte. Mi riferisco a Jean Giraud, in arte Moebius, a Sergio Toppi e ovviamente a Sergio Bonelli. Vorresti lasciarci un ricordo su questa grande figura del fumetto italiano?
Non potrei dire più di quanto è già stato detto su questi tre giganti del fumetto. Le loro opere parlano per loro e grazie ad esse non moriranno mai per davvero. Di Sergio, per me è sempre difficile parlare. Posso dirti che prima ancora che il mio Editore, era un amico. Una persona buona e gentile, che mi ha dato tanto. E che mi manca, molto.