Affrontare queste tematiche in un momento politico e sociale in cui forze di estrema destra e xenofobe ottengono sempre più ampi consensi e le forze che si dicono più moderate assecondano una visione securitaria ed estremamente rigida (si guardi al decreto Minniti-Orlando) non è stato affatto scontato. Infatti, durante la conferenza Confini e orizzonti: la nuova geopolitica del Mediterraneo abbiamo assistito al’ennesima provocazione di stampo razzista e fascista da parte di un gruppetto di rappresentanti del Movimento Nazionale e Gioventù identitaria che hanno fatto irruzione nella sala col grido di “ONG scafiste!”. Fortunatamente si è trattato di un episodio singolo, per quanto simbolicamente allarmante, che non ha compromesso lo svolgimento e la numerosa partecipazione al festival.
Tra le varie iniziative vogliamo porre un focus sulla conferenza Siria: essere scrittore tra guerre e violazioni umane, tenuta nella Biblioteca Lazzerini, un tema caldo del momento per quanto riguarda la cronaca internazionale. A parlarcene lo scrittore Khaled Khalifa, nato ad Aleppo ma impossibilitato, per il momento, a tornarvi a causa dell’interdizione del governo siriano, intervistato dalla giornalista del Corriere della Sera Viviana Mazza.
L’autore ha parlato della sua città, ricca di tesori archeologici, cultura e storia, e famosa per i suoi tessuti (“è la capitale del tessuto nel mondo”). Nonostante la distruzione e la devastazione, questa città è riuscita a resistere grazie alla forza e alla fede dei suoi cittadini. “Siamo costretti a costruire la speranza giorno dopo giorno perché abbiamo il dovere di proteggerla e immaginare un futuro”. Una volta superate le mura che la circondano Aleppo si manifesta come una città aperta e ospitale, nonostante abbia subito più volte saccheggiamenti e incursioni esterne. Vedere oggi questa città, in cui scorrevano la storia e il futuro,così martoriata dalla guerra e macchiata dal sangue delle numerosissime sue vittime, è insopportabile, continua Khaled. Tutta la sua famiglia proviene da lì.
Nei romanzi dell’autore la situazione socio-politica siriana degli ultimi cinquanta anni rappresenta lo sfondo narrativo in cui si svolgono gli episodi di vita e le storie dei personaggi che si intrecciano con la tragicità e la violenza di conflitti e tensioni. Non ci sono coltelli in queste cucine, il penultimo libro dell’autore che precede Elogio dell’odio, narra ad esempio la vicenda di una famiglia che si sforza di sopravvivere all’indomani del colpo di stato baathista del 1963. “La profonda analisi sulle violenze psicologiche e fisiche inflitte sulla popolazione siriana a seguito del colpo di stato è legata all’attivismo contro il regime di Assad che contraddistingue Khalifa. Il romanzo non raggiunge mai il momento in cui scoppia la rivoluzione sebbene gran parte sia stato scritto durante la rivolta siriana”1. Il senso della morte e della nostalgia albergano preponderanti nei romanzi di Khalifa, che però non si stanca mai di “vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, trovando ogni occasione, anche la più semplice, per poter sorridere”. La speranza che nutre l’autore è condivisa anche dalla maggior parte dei siriani che vive all’interno della città, perché è impossibile, prosegue Khaled, vivere sotto i bombardamenti senza coltivare alcuna speranza nel cuore.
Anche solo restare nella propria casa è una forma di resistenza, per quanto disperata. “Io non voglio lasciare la mia terra, la mia casa; non voglio vivere in un altro paese, prendere un’altra cittadinanza. Poter vivere nel luogo in cui si è nati e che si ama è uno dei diritti fondamentali e la guerra ce lo ha strappato. Sto difendendo la mia casa, l’ulivo che ha piantato mio nonno”. Khaled proviene infatti dalle campagne intorno ad Aleppo in cui da generazioni remote si usa piantare alberi che vedranno crescere le generazioni successive. Anche Khaled era un coltivatore di ulivi e da qui è nata la sua passione per l’olio d’oliva e la cucina che ritrova anche in Italia e in particolare in Toscana, la regione che lo ha ospitato. “Noi avevamo un frantoio” ricorda Khaled “e conosco tutti i segreti del settore. Ho questa magia tra le mani, è qualcosa di grandioso quello che ho ereditato dalla mia famiglia”. C’è un rapporto stretto tra cucina, scrittura e amore, che sono le cose più belle di un’esistenza, senza i quali sarebbe come una vita non vissuta.
Alla domanda della giornalista su come sia cambiata la sua scrittura e se questa sia diventata una scrittura più violenta dopo lo scoppio della guerra civile, l’autore risponde che tutte le volte si chiede come mai scriva: “Mi sono sempre chiesto quale sia la motivazione che mi spinge a scrivere, ma non voglio e non posso fare altro. Io adoro scrivere. Quando un mio libro viene pubblicato, sono triste, mi sento quasi impazzire, e mi chiedo, ‘Cosa faccio? Cosa devo fare?’ A differenza dei miei lettori, io odio i miei libri stampati, non ce la faccio a rileggerli. Invece sedermi al mio tavolo per scrivere di nuovo è il momento più piacevole. Non so se la mia scrittura è cambiata, ma ogni volta mi chiedo se sarà migliore. Siamo in un’epoca in cui sono finiti gli eroi buoni e viviamo una vita senza illusioni: il dovere dello scrittore è di ripensare al suo modo di scrivere e vivere la scrittura, che deve essere reale e libera da ogni costrutto ipocrita”.
L’ipocrisia si ritrova in tutti coloro che ragionano astrattamente della Siria, parlando di geopolitica e di diplomazia, pensando di risolvere i problemi seguendo però i loro interessi, senza preoccuparsi di chi vive e muore davvero in quella realtà. “Anche Damasco, città fortemente controllata dal regime, a prima vista”, dice l’autore, “può dar l’idea di una strana quotidianità, come se l’odio e la guerra fossero diventate abitudini. Ma, in realtà però, questa apparente normalità è una patina superficiale di ciò che accade realmente ogni giorno: arresti, check-point in ogni angolo, giovani attivisti imprigionati nelle proprie case per la paura di venir catturati o uccisi. Bisogna esser figli della città per dire di conoscerla davvero, poiché il mero fatto di respirare non significa vivere una vita normale”. Khaled ricorda i giorni in cui si cantava e si festeggiava, in cui amava preparare abbondanti piatti da condividere con parenti e amici. Oggi si continua a festeggiare, ma con violenza, perché ormai la violenza fa indissolubilmente parte della quotidianità. Come il canto che è la più dolce e poetica forma di resistenza. Ora però si canta molto meno e lo si fa con violenza. Ma non bisogna smettere di farlo.
Lo scrittore sa che un giorno tornerà nella sua città natale, ma, dice “sto rimandando l’incontro con Aleppo perché è difficile. Però ho bisogno di questo luogo e questo luogo ha bisogno di me”. Khaled ha preso anche delle posizioni politiche chiare per quanto riguarda la situazione siriana, chiamando sul banco degli imputati l’Occidente e gli altri paesi arabi, che a suo dire, hanno lasciato la rivoluzione siriana da sola per interessi egoistici.
“C’è un mondo che è contro la rivoluzione. Non pensavamo che ci avrebbero lasciati soli sotto le bombe mentre intanto parlavano di diplomazia e burocrazia. Sono sicuro che questo regime, quando non farà più comodo, verrà liquidato come è avvenuto con quello di Saddam”. Per quanto riguarda l’Isis l’autore, rispondendo a una domanda dal pubblico, è andato subito al punto mettendo in risalto l’assurdità e l’impossibilità della nascita di un movimento così forte senza la connivenza più o meno indiretta delle potenze occidentali e del Medio Oriente quali Usa, Russia, Turchia, Arabia Saudita e Iran.
“Come è stato possibile che 90 Toyota nere siano potute entrare a Mosul e occupare una città così grande, senza che nessuno se ne sia accorto e abbia fatto nulla per impedirlo, in un momento storico in cui gli apparati tecnologici e di spionaggio hanno la possibilità di individuare in qualsiasi momento dove ti trovi? Come è possibile che Daesh riesca a passare da un confine all’altro, come ad esempio dalla Turchia, in maniera tranquilla e inosservata? Com’è successo per al-Qaida, i cui segreti sono emersi soltanto alla fine della guerra, anche la scomoda verità che si cela dietro l’auto-proclamato Stato Islamico verrà a galla smascherando l’omertà e gli interessi di chi ci guadagna da tutto questo”.
Se questo punto di vista -rispetto quindi alla connivenza internazionale nella destabilizzazione di un’area geopoliticamente rilevante - può essere condivisibile, altrettanto non si può dire rispetto alla narrazione che l’autore e il traduttore italo-siriano danno del quadro politico interno, semplificandolo eccessivamente e in maniera netta a favore dei cosiddetti “ribelli siriani”.
Rimangono infatti molti punti interrogativi sul piano dell’approfondimento politico: la “rivoluzione siriana” è davvero tutta per l’instaurazione di una reale libertà democratica? Quante e chi sono invece le frange fondamentaliste? Quanto peso hanno nella popolazione? Se è difficile per chi vive la crisi siriana direttamente e sulla propria pelle, poter avere una posizione non condizionata dall’esperienza soggettiva che rivendica democrazia e libertà contro un regime ritenuto sanguinario, forse era necessaria una controparte che mettesse in luce l’impossibilità di demarcare una linea così netta tra chi sostiene questo regime e tra coloro che lo combattono.
Infatti ci sono evidenti contraddizioni anche tra l’opposizione, che non è composta solo da chi difende la democrazia, ma anche da chi, volendo sfruttare la crisi siriana, agisce nell’interesse del terrorismo islamico o per schiacciare le minoranze in un contesto a maggioranza sunnita. Ricordiamo infatti che il gruppo al potere rappresentato da Assad appartiene agli alawiti, un ramo della religione sciita. Pertanto, l’intervento finale che ha addirittura paragonato questa rivoluzione alla lotta dei partigiani contro il fascismo, dichiarando che esser di sinistra significa appoggiare senza se e senza ma chi combatte contro un regime dittatoriale, ci è sembrato riduttivo e retorico vista la complessità della situazione e il variegato mosaico politico e religioso che compone questa rivoluzione.
Nonostante l’empatia e il dolore umano che si prova alle notizie di stragi e bombardamenti, e pur solidarizzando con chi è direttamente coinvolto nella situazione siriana, e sicuramente ha buoni motivi per odiare il regime, il quadro non è così netto e chiaro come nel caso della lotta al fascismo durante la Resistenza. Se lottare contro un regime è sacrosanto e legittimo, da parte di un osservatore esterno è altrettanto importante capire quali siano le reali forze che lo fronteggiano, affinché l’alternativa possa davvero essere la conquista di libertà democratiche – decise dal popolo stesso e non in mano a strategie e interessi di potenze esterne – nella consapevolezza che da combattere siano però anche quelle forze nemiche alla dittatura che però di democrazia non hanno niente.
Per noi osservatori esterni, senza la presunzione di possedere informazioni adeguate rispetto a una situazione così delicata e drammatica, temiamo che una instabilità prolungata per anni rischi di sfociare in una condizione simile a quella libica. Sicuramente le informazioni che ci arrivano dalla Siria, anche in questo caso, sono parziali, se non pilotate, e molte volte di parte.
L’incontro con l’autore è stato ad ogni modo significativo e toccante e fa sempre bene poter ascoltare chi può fornirti uno sguardo soggettivo riguardo a una realtà di cui sentiamo parlare molto spesso, ma in maniera vuota e impersonale.