Giovedì, 04 Ottobre 2018 00:00

Comunicazione in rete: riflessioni a piede libero - parte I

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Nell’ambito della manifestazione “Firenze Libro aperto 2018”, festival dell’editoria che si è svolto da venerdì 28 settembre a domenica 30 settembre presso gli spazi della Fortezza da Basso e che ha visto la presenza di illustri ospiti come Stefano Benni, Nanni Moretti, Marco Vichi, Fabrizio Gifuni, Daniele Vicari, Roberto Vecchioni e molti altri ancora, ho avuto l’occasione di assistere alla presentazione di due volumi, “Social linguistica” della sociolinguista e ricercatrice presso l’Accademia della Crusca Vera Gheno e “Disputa Felice”, del filosofo Bruno Mastroianni, entrambi editi dalla Franco Cesati Editori. Questo pezzo prende spunto, ma senza riportare nel dettaglio da questa presentazione per allargarsi a una più ampia e probabilmente troppo vaga e generica, riflessione sul nostro modo di comunicare, in particolare sulla rete.

In un momento storico in cui la comunicazione di massa, e in particolar modo la comunicazione digitale sui social media riveste un ruolo preponderante nel fare politica, appare urgente e necessaria una riflessione sugli strumenti attraverso cui ci esprimiamo ogni giorno e attraverso cui ci interfacciamo in maniera quasi esclusiva col mondo, quasi che gli schermi dei nostri computer o dei nostri smartphone e tablet fossero le uniche finestre attraverso cui lasciamo filtrare la realtà, le uniche finestre attraverso cui riusciamo a viverla e a interpretarla questa realtà, seppure forse, in maniera troppo parziale. La stessa res publica, sembra ormai non essere più, non avere valore ontologico se non appare sui social; sembra non riuscire più a ottenere un grado ontologico di realtà se non si rende sempre più, ostentatamente, visibile sui social media. La sostanza scompare dietro la forma e la forma è rappresentata da slogan veloci e post su Facebook, da brevi e fulminei tweet che non lasciano neanche tempo al pensiero di essere tale prima di farsi parola, prima di farsi risposta o invettiva violenta. Parole spesso vuote, superficiali, senza essere accompagnate da concetti, da pensieri più profondi, da ragionamenti complessi; parole che evocano, senza darne adeguata verificabilità, verità parallele al dato reale, ma che finiscono per diventare realtà nel senso forte del termine, perché la narrazione stessa che campeggia sui vari social o che viene sbraitata attraverso giornali e televisioni, diventa un sistema di pensiero unico che va a sostituirsi alle “razionalità del reale”, alla verità storica che viviamo. Diviene sovra-struttura del reale che a sua volta viene de-strutturato, frantumato in mille pezzi che vengono ricomposti seguendo logiche di mero consenso elettorale, di mero annuncio verbale. E sebbene oggi più che mai si tratti di una narrazione fittizia, falsa, ingannevole o iperbolica, emotiva ed esuberantemente metaforica, essa risulta pericolosamente efficace, riuscendo a sedurre masse di persone che sembrano non avere adeguati strumenti cognitivi per smontare questa retorica, forse perché ne sono irretite o forse perché rispecchiano e condividono ampiamente questa narrazione prendendola come ovvia e ostensiva di verità. Metafore che cavalcano quelli che Searle chiama frame, ovvero sistemi pregiudiziali delle persone, pre-concetti, pre-giudizi che una grossa fetta delle persone possiede in partenza. Metafore che giocano sull’emotività della gente, sui suoi istinti più “bassi” e che la rete amplifica in maniera esponenziale restituendo un’eco ridondante e martellante.

I due autori sono rimasti su un livello di riflessione sul mondo della “social comunicazione” abbastanza generico e non si sono soffermati molto sugli aspetti prettamente politici del dibattito sui social o della comunicazione in rete dei politici. Politici che, vale forse la pena sottolineare, si avvalgono di esperti delle strategie comunicative e di marketing affinché i loro interventi possano risultare sempre efficaci e capaci di suscitare una reazione forte da parte dell’elettorato, non più spettatore come nella società dello spettacolo che dà il titolo al noto saggio di Debord, bensì attivamente co-responsabile della stessa retorica di cui è fruitore, in quanto, attraverso i social media può apprezzarla, ridiffonderla, renderla virale o denigrarla in maniera anche violenta e aggressiva. Secondo uno studio svolto dall’American Press Institute e dall’ Associated Press-NORC Center for Public Affairs Research risalente al 2015 e che teneva conto della fascia di ragazzi tra i 18 e i 34 anni, l’88% degli intervistati iscritti su Facebook si informa regolarmente e quasi esclusivamente su questa piattaforma1. Perciò si impone una rincorsa ai likes o ai tweet a effetto, in quanto i contenuti, le informazioni, le notizie (vere o false che siano) circolano in modo preponderante sulle piattaforme digitali e soprattutto sui social media, a dispetto dei media tradizionali, come giornali e televisioni. Per i due autori il fatto che chiunque abbia accesso a un dispositivo informatico (pc, computer, tablet, smartphone) possa inserirsi nel dibattito sulla rete o comunque possa esprimere una sua opinione, dare un suo giudizio, una sua approvazione o una disapprovazione riguardo a un qualsiasi contenuto, rappresenta una sorta di e-democracy, una democrazia 2.0, in quanto spazio aperto a una massa critica, a una pluralità di visioni, idee, parole, giudizi, assensi e dissensi che proprio grazie alla libertà democratica della rete possono trovare libera espressione e visibilità. Chiunque è autorizzato e pertanto si sente legittimato a dire/scrivere tutto ciò che vuole, e, a detta dei due autori, questo è un grande vantaggio per una società che voglia dirsi democratica e plurale. Su questo chi scrive nutre qualche dubbio, ma ci arriveremo più avanti.

Gheno parla di una “lingua della rete”, una “lingua social” che in realtà è lo specchio fedele del nostro modo di parlare e comunicare nella vita di tutti i giorni. Tempo fa la lingua dei social doveva rispettare una determinata forma, dei limiti di spazio e di battute (da qui tutte le tachigrafie, le abbreviazioni, le formule e gli acronimi per tradurre, abbreviandole, alcune delle espressioni più usate), ma oggi questi limiti tecnici e formali sono decaduti e ci siamo “emancipati” da molte di quelle che erano considerate le caratteristiche peculiari della “social linguistica”, come le abbreviazioni o le tachigrafie, che ad ogni modo continuiamo in parte ad utilizzare per abitudine e/o fretta di rispondere. Un’osservazione che spesso viene fatta alla lingua sui social è che essa sia sciatta, rozza, ma secondo Gheno in realtà non sono i social a provocare la sciatteria linguistica, ma semplicemente rendono più visibile, più evidente un modo di parlare già esistente. Sui social media, osserva la sociolinguista, riproduciamo un tipo di scrittura distratta, sciatta come quando ad esempio stiliamo la lista della spesa, pertanto la lingua sui social rappresenta una sorta di cartina di tornasole della lingua che ci circonda e che usiamo nella nostra quotidianità, amplificando, in quanto rende visibili e diffusi i suoi aspetti peggiori. Se siamo persone che parlano in maniera grezza e poco affinata o educata, riprodurremo anche sui social quel modo di comunicare.

Il libro di Mastroianni, Disputa felice si connette in maniera indissolubile a quello di Vera Gheno, come se fosse una sua appendice o un suo naturale approfondimento. La lingua, secondo l’autore, ha lo straordinario potere di unire, ma anche quello di dividere e la rete non fa che amplificare questo aspetto, esasperando in particolar modo la nostra tendenza a isolarci, a ovattarci in bolle di sapone attraverso cui interagiamo e comunichiamo solo con altre bolle simili, affini, omologhe a noi rispetto a un certo tipo di visione, di sistema di pensiero, di valori. Così sia nella nostra vita che sulla rete, che di questa spesso ne è il riflesso, ci chiudiamo in mondi ovattati non comunicanti se non con altri mondi e universi valoriali affini ai nostri. Con gli altri mondi, l’unica interazione, relazione possibile, sembra semmai essere quella dello scontro violento, dell’attacco radicale e sferrato in maniera quasi automatica. Il dibattito sulla rete risulta infatti polarizzato, annientando tutte le possibili sfumature che possono, talvolta, intercorrere tra due sistemi di pensiero abbastanza diversi. Tuttavia, mentre prima dell’avvento dell’era tecnologica l’incontro con la differenza rappresentava momenti precisi, specifici, addirittura ricercati, della nostra esperienza (ad esempio durante dei viaggio, o attraverso la conoscenza di persone, ambienti, contesti diversi), oggi questo incontro avviene costantemente, attraverso una distanza che si fa vicinanza virtuale – vicinanza nel senso che tutto appare a portata di mano, tutto e tutti siamo raggiungibili, potenzialmente connessi gli uni agli altri, le nostre idee si intersecano – spesso scontrandosi – con quelle degli altri, tessendo ragnatele potenzialmente infinite.

Eppure, nonostante questi incontri con mondi differenti, con universi di idee e sistemi di pensiero differenti avvengano costantemente, per lo più, sostiene Mastroianni, questo contatto costituisce sempre un momento traumatico della nostra esperienza. Il trauma deriva proprio dal fatto che l’incontro con ciò che è diverso mette in discussione tutto ciò in cui crediamo, dai nostri valori, la nostra cultura, la nostra visione del mondo, la nostra weltanschauung, e in qualche modo destabilizza tutto questo. L’alternativa alla destabilizzazione apportata dall’incontro con l’altro e dal mondo che questi si porta dietro, l’alternativa all’interrogazione, alla domanda che l’altro mi pone, semplicemente esistendo, semplicemente manifestando quella che appare come una radicale e abissale differenza dal nostro sistema di idee e valori, ecco, l’alternativa è lo scontro estremo, trincerandosi nella propria accomodante bolla che si chiude al dialogo o che, nel peggiore dei casi, prova a uccidere il discorso dell’altro con una violenza verbale e psicologica che le parole sono capaci di deflagrare. Sì, perché l’incontro, sulla rete, non può che essere un incontro fatto di sole parole, di linguaggio, in assenza del linguaggio del corpo, in totale assenza della prossemica, della tonalità vocale, della gestualità, della fisiognomica, persino del respiro. Tutti aspetti che solo una presenza fisica, un corpo in carne e ossa possono avere. E soltanto un corpo con i suoi gesti e le sue espressioni a volte può smorzare la violenza mentale suscitata dalla sola parola e rendere questa meno drammatica; può alleviare l’odio oppure lo può anzi esaltare ancora di più, ma il più delle volte, la comunicazione a distanza, protetti da uno schermo che impedisce l’accesso alla realtà dell’altro, che impedisce la reale venuta dell’altro, l’entrata dell’altro nel mio mondo, nella mia realtà e quindi blocca in partenza il suo interrogarmi, il suo pormi la domanda che mi mette in discussione, diventa un’invettiva violenta che respinge l’altro in partenza, che lo rigetta, eliminando qualsiasi possibilità di contatto, di confronto, di discussione, di disputa felice. Impedendo il filtro dell’empatia spesso innescata anche dal solo sguardo dell’altro nel nostro, dal contatto visivo che già assume i connotati di una comunicazione per quanto non verbale essa sia.

Per questo Mastroianni invita ad allenarsi a sorridere quando si incontra la differenza. Anche perché in realtà, a dispetto di quanto si tende a credere, il tempo dei social è molto più lento e mediato rispetto, ad esempio, a quello dei dibattiti in diretta in televisione nei quali davvero i tempi di risposta sono strettissimi. Quando leggiamo un post, se non fossimo presi dall’urgenza (caratteristica insana del nostro periodo storico, così fagocitato dall’ansia, la fretta, la velocità e dimentico della lentezza), dalla fretta di rispondere o commentare nell’immediato, avremmo tutto il tempo di riflettere prima di scatenare le nostre dita sui tasti, avremmo il tempo di scegliere le parole giuste, le parole più adeguate. Avremmo tempo di evitare di dire cose sgradevoli, di aggredire psicologicamente quello che consideriamo essere “l’avversario politico”, o una vittima scelta per altri motivi. “la stessa risposta proviamo a darla con una specie di sorriso bonario interiore” suggerisce, in maniera forse un po’ naif, Bruno Mastroianni, perché in questo modo si rende possibile un ragionamento, la spiegazione di un pensiero, un’argomentazione, una discussione sana e civile e non uno scontro fatto di parole di odio il cui unico intento è quello di uccidere verbalmente l’interlocutore. La parola sulla rete diventa carica d’odio, si fa sprezzante e provocatoria. Gheno parla di “reazioni da cani di Pavlov”, ovvero reazioni automatiche molto forti che a seguito di un post, un commento, una notizia, una dichiarazione ci spingono a reagire istintivamente, come automi, senza accompagnare ciò che scriviamo in maniera irruenta con un’adeguata riflessione o un più moderato ragionamento. Certo, è umano che ognuno di noi “possieda” dei contenuti, dei valori, delle esperienze, delle ferite o persino dei traumi che quando vediamo messi sotto attacco, ci fanno scattare, ci spingono ad avere reazioni a caldo, immediate che trascurano tutto la dimensione situazionale, circostanziale e contestuale che accompagna e circonda quel dato contenuto che ci ha indotto a reagire in modo così viscerale. Reagiamo come dimenticando di essere in uno spazio aperto, pubblico, esposto agli occhi di tutti o, forse, proprio perché ne siamo ben consapevoli facciamo uscire il peggio di noi, come recitando un ruolo che ci imponiamo di rivestire, come se pensassimo che sulla rete tutto è permesso e tutto è impunito e ci sentissimo legittimati, autorizzati, persino stimolati e incitati a diventare ancor più aggressivi, violenti, offensivi di quanto non lo siamo nella vita reale. Come se avere uno schermo davanti ci facesse sentire invulnerabili, intoccabili, forti e potenti, insensibili nei confronti dell’altro che sta dalla parte opposta di quello schermo. Uno schermo che diventa scudo e barriera contro ogni potenziale moto di empatia e di umanità nei confronti dell’altro.

Gheno cita il caso, recente, della dichiarazione, che appare alquanto provocatoria, di Nadia Toffa, la quale ha parlato del cancro come un dono. Di fronte a un ambito così delicato come quello della malattia, non stupisce che il popolo della rete si sia scatenato dando vita a un’ondata di rabbia, di insulti, di odio che ha investito la Toffa. Questo perché nessuno degli utenti in questione si è preoccupato di andare a leggere e valutare il perché la conduttrice abbia pronunciato quelle parole o si sia posto il dubbio che forse una simile dichiarazione, a meno che non volesse creare appositamente scandalo, magari non intendeva essere un’apologia del cancro ma magari nascondeva qualcosa di ulteriore e nell’utilizzo del termine dono intendeva una gamma di significati che andavano al di là della sofferenza data dalla malattia che la Toffa stessa ha subito. Purtroppo è anche la forma dei social media che costringe ad essere sintetici e spesso anche a cadere nella semplificazione e nella banalizzazione estreme, così che spesso le nostre parole possono essere fraintese, fuorviate, estrapolate da un più ampio contesto o un più dettagliato discorso e diventano oggetto di facile avversione e polemica. Ma se la critica è più che legittima, soprattutto perché chi pubblica, rendendo, scusate il gioco di parole, pubblico e accessibile a tutti ciò che scrive e dice, è consapevole del suo esporsi a critiche e giudizi sfavorevoli, quello che non è in alcun modo giustificabile sono l’insulto, la gogna mediatica, la violenza verbale, l’aggressione personale. Per Mastroianni, pur senza giustificare l’odio verbale, è un grande privilegio la possibilità della disputa, del dissenso in rete perché spinge la “vittima” di tale dissenso a fornire ulteriore spiegazione alle sue parole, alla propria dichiarazione, portando un elemento in più di discussione, arricchendo il discorso e la propria riflessione. “bisogna stare dalla parte del dissenso perché nel dissenso c’è sempre qualcosa da spiegare”, ha detto Mastroianni, “perché solitamente una reazione di dissenso ci costringe a riconoscere che nel nostro ragionamento, nel nostro discorso probabilmente mancava un pezzo, mancava qualcosa che ha avuto bisogno di ulteriore chiarimento e spiegazione”. E infatti la stessa Toffa ha chiarito successivamente cosa intendesse con la frase pronunciata che aveva destato così tanto scalpore. Chi scrive non è pienamente d’accordo con quanto affermato dal filosofo. O meglio, sarebbe tutto bello se non vivessimo in una società in cui pare inappropriato parlare anche di disputa o dibattito. Se davvero fossimo capaci di “stabilirci nella differenza”, per citare la bella espressione dell’autore di Disputa felice, e quindi essere realmente in grado di un confronto, un incontro con l’altro da sé, che miri a discutere con l’altro e non ad annullarlo, allora davvero la pluralità di visioni e di idee potrebbe costituire una risorsa necessaria e un arricchimento per la società: “nessuna regola e nessuna comunicazione potrebbero definirsi democratici senza la circolazione delle opinioni, la loro discussione critica e la progressiva realizzazione di un ragionamento comune. […] Senza il dibattito, la procedura democratica perderebbe la sua legittimità sostanziale e dunque la sua sostanziale ragion d’essere”2, ma “la qualità di una democrazia dipende, in grande misura, dalla qualità delle discussioni che la animano”3.

Oggi la qualità di questa circolazione di opinioni tanto nella vita reale, quanto in quella virtuale della rete, sembra limitarsi a slogan e retorica privi di contenuti complessi che danno l’impressione di assistere a una costante campagna elettorale o improntate a edificare ed esaltare sempre di più la figura del leader di turno, così come la qualità del dibattito pubblico, della discussione politica (sui vecchi e nuovi media) sembra limitarsi all’affondamento dell’avversario politico, alla denigrazione dell’altro, al discredito dell’interlocutore o all’attacco feroce di intere categorie, di blocchi di individui umani che compongono la nostra società o che magari giungono da altre sponde. E la rete non fa che potenziare e rendere visibile questa deficienza della discussione pubblica.

1 https://www.lepoint.fr/presidentielle/reseaux-sociaux-le-nouveau-combat-des-politiques-20-12-2016-2091756_3121.php. 
2 G. Carofiglio, Con parole precise. Breviario di scrittura civile, Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 44.
3 Ibidem.


Immagine tratta liberamente da www.pixabay.com

Ultima modifica il Mercoledì, 03 Ottobre 2018 23:05
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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