Questo termine è stato coniato nel 1986 dal biologo E. O. Wilson come contrazione di “diversità biologica” per definire la variabilità biologica presente negli organismi a tutti i livelli di organizzazione, a partire dai geni, fino ad arrivare agli ecosistemi. Non serve essere del settore per rendersi conto che questo concetto, per quanto affascinante, non è granché operativo: per poter dire qualcosa di sensato sulla “biodiversità” dobbiamo specificare di quale ambiente, riguardo quali organismi, e a quale livello stiamo lavorando.
Malauguratamente questo termine gode di un’innegabile simpatia anche da parte dei non addetti ai lavori, probabilmente perché è un termine pulito, elegante, e semanticamente decisamente vago. Il primo settore in cui il termine “biodiversità” è sistematicamente abusato è quello agrario e gastronomico; e se ci pensiamo, abbiamo sentito parlare di biodiversità soprattutto in relazione alle iniziative organizzate da Slow Food e Eataly, spesso in appassionati appelli volti a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’elevata biodiversità che si ritrova sul territorio italiano, e sulla sua salvaguardia. E in effetti, è vero che sul territorio italiano si riscontra una diversità biologica decisamente rilevante, sia in termini di ecosistemi, sia in termini di specie, ed è altrettanto vero che questo patrimonio naturalistico in linea generale è trascurato e danneggiato. Tuttavia questo tipo di discorsi è viziato dal fatto che in questo concetto di biodiversità entrano in maniera indiscriminata la fauna selvatica di un’area, la flora spontanea, le qualità di uva, di grano e di altre piante coltivate. Come un recente intervento di Oscar Farinetti mostra, poi, questo discorso assume non di rado un taglio quasi nazionalista, nel decantare una supposta superiorità dell’Italia rispetto a qualsiasi altro paese del mondo in termini di biodiversità. Una superiorità sostenuta sulla base di dati numerici di dubbia provenienza, in gran parte sbagliati, ma soprattutto di nessun significato per chi lavora realmente per la protezione dell’ambiente in Italia.
È opportuno, a questo livello, chiarire che sì, l’Italia è caratterizzata da un’elevata diversità biologica, e sì, numerose specie animali e vegetali sono endemiche del territorio italiano. Tuttavia il non addetto ai lavori rischia di rimanere profondamente deluso, andando ad esaminare più nel dettaglio in cosa consistano questi endemismi: si tratta principalmente di insignificanti piantine e poco attraenti insetti; e anche le specie più vistose sono, alla fine della fiera, rettili, anfibi e qualche piccolo mammifero. Al tempo stesso, questa diversità biologica, per quanto alta, non è minimamente comparabile con quella di altre aree geografiche, come la Foresta Amazzonica o l’Africa Equatoriale. Il lettore attento avrà notato che ho parlato di aree geografiche, non di stati. Questo non è legato solo alla mia antipatia nei confronti di qualsiasi nazionalismo, ma anche e soprattutto al fatto che la distribuzione degli organismi segue confini geografici ed ecologici, non i confini politici; è questo il motivo per cui una gestione “nazionalista” del patrimonio naturalistico non può che fallire, soprattutto per quanto riguarda quelle specie di grandi dimensioni che attirano la simpatia generale, i grandi carnivori, i grandi ungulati, gli uccelli. È questo il motivo per cui non ha senso esibirsi in sterili comparazioni tra la “biodiversità” di uno stato rispetto agli altri, mentre è quanto mai necessario programmare politiche conservazionistiche nell’ambito di cooperazioni internazionali. Tanto più nell’Unione Europea, dove alle legislazioni nazionali si aggiungono precise linee guida sulla protezione dell’ambiente; tanto più per uno stato come l’Italia che ha aderito a diverse convenzioni di respiro internazionale sulla conservazione della natura.
In questa ottica, viene da chiedersi quale sia il nesso tra la conservazione della natura e il recupero delle varietà dimenticate di frutta, verdura e cereali promosso da associazioni come Slow Food e aziende come Eataly. In realtà questo tanto decantato nesso è estremamente labile, virtualmente assente. Slow Food parte da una giustificata critica alla monocoltura come sistematico livellatore della diversità degli ecosistemi; e su questo non v’è nulla da obiettare. La diversificazione delle colture, tuttavia, non rappresenta automaticamente una soluzione più rispettosa nei confronti dell’ambiente naturale, e questo perché questo aspetto dipende anche da parametri che non hanno a che vedere con che cosa viene coltivato. Una possibile risposta potrebbe essere che la diversificazione delle colture aumenta la diversità genetica in un’area – e probabilmente è questo che si intende per “biodiversità” in questo ambito. Tuttavia una varietà coltivata, tendenzialmente, è ottenuta selezionando una piccolissima parte della variabilità genetica che è già presente nella pianta selvatica; si tratta, quindi, di una selezione di diversità, non della sua creazione. La pianta coltivata non è altro che una delle varie possibilità già presenti all’interno della pianta selvatica. La vera diversità, quella importante per il funzionamento degli ecosistemi, è quella presente nelle erbacce e negli insetti che il contadino tendenzialmente non desidera accanto alle sue piante d’interesse alimentare; il rispetto nei confronti dell’ecosistema è legato più a “come” si coltiva, che non a “cosa”.
Possiamo quindi riconoscere un indubbio valore edonistico a questo tipo di iniziative, e possiamo spingerci fino a riconoscere loro una valenza culturale. Ma è indebito riconoscere loro, sulla base delle loro caratteristiche, una maggiore attenzione alla salvaguardia dell’ambiente e alla protezione della natura.