Martedì, 02 Settembre 2014 00:00

Sciopero in Eataly

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Recentissima la notizia del primo sciopero nel punto vendita fiorentino di Eataly, proclamato dai COBAS – si legge – per contestare “il mancato rinnovo dei contratti di somministrazione in scadenza, la mancata stabilizzazione dei contratti a tempo determinato, le condizioni di lavoro, la totale arbitrarietà dell'azienda nell'organizzazione del lavoro, il rifiuto da parte dell'azienda ad un qualsiasi confronto con i lavoratori”.

Durissime le accuse degli scioperanti: prima tra tutte la vera e propria falcidia di posti di lavoro, tagliati addirittura del 50% dall'apertura a oggi (anche se i vertici aziendali tendono a ridimensionare la cifra); moria goffamente giustificata dal management aziendale con le maggiori esigenze della fase di start-up, quindi con una sostanziale rivendicazione di quel modello di lavoro usa-e-getta – “a fisarmonica” per usare le parole di Roberto Ciccarelli – che imposta anche la vita all'interno del punto vendita, tra turni imposti senza preavviso alcuno, mezzo litro di acqua al giorno e uso estensivo di contratti interinali e di apprendistati precarizzati. Uno sciopero quindi con al centro i giovani lavoratori che con ogni probabilità non vedranno il loro contratto rinnovato.

“Contratti precari, licenziamenti, sfruttamento. In pratica, una fotografia del nostro Paese” scrivono i lavoratori in un documento che ha avuto ampia diffusione in rete, “riconoscendo la franchezza” dello slogan della catena: “Eataly è l'Italia”. Ed è difficile negarlo.
È difficile negarlo anche perché Eataly stessa è pensata intorno a una serie di principi politico-aziendali espliciti e impliciti, ostentati e occultati, che uniformano la vita lavorativa dentro le mura dei punti vendita e cui l'autorappresentarsi dell'impero di Farinetti conferisce un'ambizione compiutamente politica; e non stiamo parlando solamente del tanto sbandierato delirio new age del “Manifesto dell'Armonia” – con il suo portato di classismo pseudo-meritocratico e fattuali atteggiamenti paternalistici – bensì di una precisa politica commerciale: la massificazione della “piccola” produzione, ovvero la fruizione di massa di un'enfatizzata “qualità” estetica non propriamente o solamente del cibo, ma attorno ad esso.

Non è casuale ad esempio la scelta dei luoghi: dagli ex teatri alle ex librerie, che il “guru” arriva a riaprire con il cannone tuonante dei quattrini e cui il potere dell'ideale “eatalyano” conferisce lo status di simboli della nuova Italia bella e buona, cancellando proprio quelle storie di incuria pubblica e incapacità imprenditoriale che hanno portato luoghi di autentica cultura a essere trasformati in fast food del cibo lento, nello scrosciare di applausi delle istituzioni e della stampa.

Non importa se le storielle simil-rinascimentali in mostra sulle pareti non sono che rimasticature degne di un'infima guida turistica, se la pizza o il panino non sono migliori – anzi – di quelli del panificio duecento metri più avanti o se le varie etichette del cibo “biologico”, “tradizionale” “locale” non sono che segni che significano solo un vago “meglio”; Eataly vende ideologia: un'Italia essenzialmente “bella” consumabile in massa (sempre a patto di aver “meritato” il denaro, è evidente), un a priori positivo che tutto pacifica.
Un'Italia “Repubblica democratica fondata sulla Bellezza” – così recita la Costituzione secondo Farinetti – in cui non esiste dignità nel lavoro, esiste solo “il nostro dovere” di “tutelare e migliorare la bellezza che abbiamo ereditato dai nostri avi, attraverso il nostro lavoro”.
Ancora dovere, merito, gratitudine.

Quindi lavora, stai zitto, tutela la “bellezza” dell'azienda che “è l'Italia” e ringrazia degli 800 euro che ti meriti.
Un modello di business figlio di quel substrato che costituisce il vero “spirito dei tempi” dell'Italia degli anni '10, sostanzialmente inattaccabile, accettato entusiasticamente dalla destra come da quella sinistra orfana del positivismo produttivista novecentesco; lo stesso substrato che ha inteso l'università di massa e di qualità come l'università della didattica massificata e della qualità dei test a crocette dei numeri chiusi, lo stesso che ha partorito le renziane #scuolebelle, investimenti poco più che cosmetici sulle strutture materiali di un sistema scolastico umiliato.

In questo quadro le lotte del lavoro vivo operano un lavoro politico che deve essere parte di una generale opera di critica cui chiunque non sia disposto ad accettare il presente è chiamato a contribuire. La speranza è che ciò che rimane della sinistra di questo Paese accetti la sfida e si metta finalmente in gioco, nell'autunno e nell'anno che verrà.

Ultima modifica il Lunedì, 01 Settembre 2014 19:56
Niccolò Bassanello

Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all'Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all'Università degli Studi di Torino. Mi interesso di filosofia delle scienze sociali, antropologia culturale, diritti delle minoranze e studi sull'educazione. Intellettualmente sono particolarmente influenzato dai lavori di Polanyi, Geertz, Wittgenstein e Feyerabend, su cui mi sono formato, oltre che dal postoperaismo e dal radicalismo statunitense. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l'animazione, i fumetti ed il vino.

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