Grande Dea dunque, o Grande Madre. Così veniva identificata all’epoca del neolitico o addirittura del paleolitico la Terra – sebbene non solo, dato che questa grande divinità ha assunto diverse identificazioni, soprattutto con la luna. Secondo il mito olimpico della Creazione, riportato sempre da Graves ne I miti greci “All'inizio di tutte le cose, la Madre Terra emerse dal Caos e generò nel sonno suo figlio Urano. Dall'alto delle montagne Urano guardò la dea con occhio amoroso e versò piogge feconde nelle sue pieghe segrete, ed essa generò erba, alberi e fiori, unitamente alle belve e agli uccelli. Quelle stesse piogge fecero poi scorrere i fiumi e colmarono d'acqua i bacini, e così si formarono laghi e mari”. Terra, Luna, Iside, Dea Bianca... In ogni caso essa sarebbe stata una grande divinità femminile, primordiale, ed è proprio la sua femminilità e quindi la fertilità, la potenza generativa a manifestare la possibile mediazione tra il divino e l’umano. Come accennato, con il passare del tempo il culto della Grande Madre ha assunto forme diverse, così che la Dea ctonia è stata individuata sotto personificazioni diverse: per sovrintendere l’amore sensuale (si veda il culto di Ishtar, o di Afrodite pandemia e Venere), la fertilità delle donne (Ecate triforme, come le tre fasi della vita), la fertilità delle messi (Demetra, Cerere, Persefone/Proseripina), la caccia (Kubaba, Cibele, Artemide, Diana). La Grande Madre è connessa al ciclo vita- morte- rinascita, proprio perché nel ciclo delle messi cui spesso viene collegata, il seme deve morire affinché possa risorgere nella nuova stagione, e per questo è a lei che viene rivolta la preghiera dell’uomo di poter rinascere proprio come il seme che riemerge dalla terra. Tema molto caro anche a Gustav Mahler che nel suo Lied von der Erde – il canto della terra (che inizialmente il compositore pensava di intitolare “la desolazione della terra”) dona in maniera sublime e poetica una voce al ciclo naturale di vita-morte e rinascita, con una alternanza tra i toni cupi e rassegnati del primo movimento – Il brindisi al dolore della terra – , del secondo – Il solitario nell’autunno (“Il mio cuore è stanco. La mia piccola lanterna si spegne crepitando. È un invito a dormire. Vengo da te, mio caro rifugio! Sì, dammi pace, ho bisogno di sollievo! Io piango molto nella mia solitudine. L'autunno dura da troppo tempo nel mio cuore.”) – o dell’ultimo – L’addio, sebbene in questo si avverta anche lo spirito di rinascita (“I fiori impallidiscono nell’imbrunire. La terra respira, tutta pace e sonno. Ogni desiderio ora vorrebbe sognare [..] Tace il mio cuore e attende con ansia la sua ora! La cara terra dovunque fiorisce in primavera e verdeggia sempre di nuovo.”) – e quelli invece vitali, che si soffermano sul fiorire esplosivo della primavera, fino ad arrivare all’ebbrezza quasi onirica nel V movimento – L’ubriaco in primavera (“Mi sembra tutto come un sogno. L’uccello cinguetta: Sì, la primavera è qui, forse è arrivata questa notte!” ¬– passando per inni alla giovinezza e alla bellezza (“Il solo d’oro irretisce le figure e le riflette nell’acqua limpida. La più bella delle vergini lo segue con lunghi sguardi di desiderio. Il suo contegno altero è una finzione. Nello scintillio dei suoi grandi occhi, nell'oscurità del suo sguardo di fuoco vibra ancora, come un lamento, l'agitazione del suo cuore”), pur mantenendo però uno sguardo a mio parere amaro sulla consapevolezza del tempo che passa e della vanità del’uomo e delle cose di questo mondo. Come disse Deleuze nell’ Abecedario, alla lettera “O di Opera”, Mahler intesse piccoli ritornelli locali, pastorali, da taverna.. che alla fine confluiscono in un unico grande ritornello cosmico, il ritornello unico e totale del canto della terra che tutti li ingloba in sé stesso e allora è davvero come se “Le stelle si mettessero a cantare un’arietta con dei campanelli da mucca, dei motivetti di pastori, oppure il contrario: i campanelli da mucca innalzati alla condizione di rumore celeste o infernale.”
Tuttavia la Terra non è solo Grande Madre e protettrice. La Terra fa paura. Spaventa, atterrisce, letteralmente. A tal proposito è interessante riportare l’etimologia che Mino Vianello dà della parola territorio: “L’etimologia della parola « territorio » risale a una radice indo-germanica ter , di cui uno dei significati è quello di attraversare, di arrivare fino in fondo, da cui le parole «termine» , «determinare» e anche «sterminare» […] La radice di terra è ters, che racchiude l’idea di secco, di duro […]. Territorio pertanto richiama l’idea di spazio da attraversare […] Da notare che, legato al significato suddetto, c’è quello di TERRORE, che pure deriva dalla stessa radice ter, terrore inizialmente ispirato con ogni probabilità dai terremoti, visto che la parola «tremare», che può riferirsi evidentemente sia agli esseri viventi che alle cose inanimate, proviene dalla stessa radice. Al cuore della parola «territorio», pertanto, si annida un senso di terrore, di atterrimento davanti a qualcosa di terribile”. La terra non è il mondo, il mondo è un cosmo, tant’è che la stessa parola “mondo” deriva dal latino mundus che oltre al significato di universo contiene anche quello di ordinato, pulito, chiaro, puro, in quanto deriva dal termine greco kosmos, che designava l’ordine, in opposizione al caos. A differenza del mondo, la terra può invece far esplodere delle potenze anche distruttrici che serba nel suo grembo, non sempre perciò, materno. La terra può risucchiare, può spalancarsi in voragini dentro le quali si può sprofondare e richiudersi sopra di noi, può tremare spaventosamente e frantumarsi in terremoti, può seppellire, diventare la bara muta dei nostri corpi che in essa si disintegrano e imputridiscono lentamente, mangiati dai vermi, fino a diventare soltanto polvere effimera. “[…] finché tornerai alla terra, poiché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!”, si legge nella Genesi [4, 19]. La terra in questa veste di crudele assassina fa paura, ci obbliga a dimenticarla, a rimuoverla, a schiacciarla sotto la coperta confortevole dei nostri mondi, ma di essi rimane il fondamento, rimane il suolo a volte silenzioso, altre volte capace di lanciare grida assordanti; suolo che, per quanto precario, regge tutto: il mondo che innalziamo faticosamente su di esso, le esistenze che su di esso facciamo sfilare, le nostre costruzioni di tempo e spazio, tutte quelle opere che ci affanniamo a erigere ma che da un momento all’altro, inaspettatamente, rischiano di venire inghiottite proprio dalla terra che ne è il fondamento, la quale può decidere di far crollare tutto, inabissandolo dentro di sé, lasciandolo precipitare all’interno delle sue viscere. Il nostro mondo vive nel rischio, poggiato su questo suolo in un sempre fragile equilibrio. E allora ci applichiamo, ci sforziamo, facciamo di tutto, distraendo la vita con mille strategie, per scordarci che essa è sempre troppo vicina al pericolo di esser risucchiata o di esser spazzata via dalla forza incontrollabile della terra. Ci rifugiamo nella certezza solida e stabile dei mondi che sempre costruiamo, perché lì dentro ci sentiamo protetti, sicuri, perché sappiamo che quei mondi, i nostri mondi, frutto dei nostri progetti e delle nostre fatiche, non ci tradiranno: essi sono ammaestrati, addomesticati, umanizzati, li conosciamo e li sappiamo decifrare, non ci nascondono segreti e misteri impenetrabili o oscuri. Siamo sempre indaffarati in un progetto (da pro iectum, gettare in avanti) di mondo, che non ammette l’intromissione di qualcos’altro.
La terra non è una creatura domabile, la terra non è il noto, non è l’ovvio, non è domestica, familiare, non è la nostra casa, la nostra economia, nel senso letterale della parola, non viene presa in considerazione dai nostri business; la terra sfugge a qualsiasi presa, materiale ma anche mentale. Non sappiamo infatti come pensarla, dove pensarla precisamente, è ovunque eppure spesso rimane invisibile, pulsa silenziosamente sotto di noi, intorno a noi, dentro l’agitarsi disordinato del mare, dentro il respiro di una foresta, dentro quelle erbacce che continuano a spuntare e a turbare un giardino all’italiana ben curato. È il nonostante tutto, è il nonostante l’ordine e la calma. Nonostante non sia mondo e crediamo non ne faccia parte essa c’è, sempre, ci viene incontro inaspettatamente. Nonostante tutto spunta, cerca di farsi sentire, di farsi intravedere. Cerca di sorprenderci. Ma ogni volta che emerge noi la rigettiamo via, la cancelliamo o mettiamo da parte, non vogliamo che venga a disturbare l’ordine meticoloso e perfetto, così rassicurante del nostro cosmo. Fin da Aristotele la terra non è stata vista di buon occhio, tanto che lo Stagirita la considera qualcosa di poco spirituale, notando, ne De anima, che mentre tutti gli altri elementi – acqua, aria, fuoco – hanno trovato i loro sostenitori, rispettivamente in Talete, Anassimene ed Eraclito, la terra non è stata “difesa” da nessuno (“πλεν την γης”, si legge nel testo). Il primo filosofo a voler distinguere il mondo dalla terra è stato Kant, che, nel corso delle lezioni di geografia fisica scrive che tutte le cose della natura, in quanto compongono un tutto, formano necessariamente il mondo, tutte le cose che stabiliscono dei rapporti fanno emergere il tutto, il quale allora viene prima delle singole parti: il mondo richiede dunque che le parti individuali vengano bandite, confinate al margine. Se io voglio costruire una casa, ad esempio, continua Kant, così come parlando di un bosco o di un prato, dice che io vedo il bosco ma non i singoli alberi, o vedo il prato ma non i singoli steli d’erba. Questo è il mondo: è il bosco, il prato, non gli alberi o gli steli chiusi nella loro singolarità, nella loro “ecceità”, come la chiamerebbe Deleuze.
Il mondo è perciò composto di quelle cose su cui noi possiamo operare, con cui possiamo stabilire una comunicazione, allo stesso modo in cui quelle cose comunicano con noi, ci parlano, ci significano qualcosa. E la terra? La terra compone il mondo, a detta del filosofo tedesco. Kant considera quindi il mondo come un ricavato della terra, emerge a partire da essa, che lo precede: “il fondamento è il suolo di tutte le nostre cognizioni, sul quale raccogliamo tutti i fenomeni sensibili, sul quale facciamo tutte le nostre esperienze, il posto dove facciamo pratica di tutto ciò che abbiamo imparato. Questa terra ci rimarrà ignota e indifferente”. Allora la terra,che è il suolo che regge tutto è anche qualcosa che rimane ignoto – altrimenti, se non lo fosse, diventerebbe mondo, qualcosa che conosciamo bene e con cui siamo in reciproca comunicazione – , e indifferente, ai nostri piani, ai nostri progetti, alle nostre azioni, al nostro agire e patire. Come ha detto Ernest Bloch, “la terra non è per noi”. Ma è in Heidegger che la terra troverà un proprio difensore soprattutto nel saggio del 1935, L’origine dell’opera d’arte, una cui parte si intitola “sentieri interrotti”. Per il filosofo del dasein l’andamento del sentiero e quello del pensiero si confondono. I sentieri sono interrotti, perché ci impediscono di arrivare alla meta, fanno resistenza al suo raggiungimento, ci costringono a deviare, a tornare indietro e ripartire. Solo la terra è fatta di sentieri interrotti, non il mondo. Per Heidegger, mentre quest’ultimo può essere paragonato ad un tempio greco che nel suo ergersi e innalzarsi oltre a rappresentare un tutto armonico, si apre a noi, si staglia dinnanzi ai nostri sguardi per poter essere accolto, abbracciato. Il suo fondamento però rimane la terra, che ne è l’origine. Quest’ultima a differenza del mondo che è appunto costante apertura e generazione continua di altri mondi, che nel suo concedersi e aprirsi crea continue metamorfosi, continui divenire, è caratterizzata da una costante auto chiusura, ma nel suo coprire, ricoprire, chiudersi e riassorbire, protegge e custodisce. “Questa terra – che cos’è? Ciò che dispiega costante compiutezza e pur tuttavia si riprende sempre indietro e trattiene ciò che è dispiegato. La pietra grava, mostra il suo pesantore e proprio così si ritrae in sé stessa; il colore si accende e resta tuttavia chiuso; il suono risuona e tuttavia non emerge nell’aperto. Ciò che emerge nell’aperto, invece, è esattamente questo chiudersi ed è questa l’ essenza della terra. Tutte le sue cose rifluiscono nel reciproco unisono, eppure: in ognuna delle cose che si chiudono è il reciproco non-conoscersi. […] La terra non può fare a meno del mondo inaugurato, se essa stessa deve risplendere nel pieno impeto del chiudersi e del trattenere tutte le cose. E il mondo, daccapo, non può distaccarsi dalla terra […] Il mondo è contro la terra e la terra è contro il mondo. Essi sono nella contesa. Nondimeno, questa contesa è l’intimità del loro controverso coappartenersi.” La terra è terra perché si confronta con il mondo e questo è mondo perché lotta con la prima. In ogni caso essi non si confondono, restano distinti e ricavano il loro essere da questo loro perenne dissidio. Il mondo, proprio in quanto “autoaprentesi” non tollera niente di chiuso, e perciò aspira alla dominazione della terra, mentre quest’ultima, in quanto coprente e “autochiudentesi”, tende a riassorbire in sé il mondo, a riaccorparlo a sé, a risolverlo entro di sé.
Nei suoi Seminari, nel II volume intitolato La bestia e il sovrano Jacques Derrida analizza minuziosamente questa angoscia paralizzante dell’eventualità di essere sepolti vivi nelle viscere della terra, prendendo come emblema di tale paura il naufrago Robinson Crusoe di Defoe. L’analisi del personaggio è interessante anche da un punto di vista, per così dire politico-sociale, nel senso che tale figura incarna perfettamente o comunque ne è precursore l’atteggiamento dell’uomo occidentale che piega la terra e qualsiasi sua creatura ai propri fini, ai propri scopi utilitaristici, sentendosene il padrone legittimo e assoluto. Robinson, fin dal primo istante in cui scampa al naufragio e si ritrova gettato sull’isola deserta si lancia in un’assidua costruzione di mondo, eclissando da questo progetto ogni traccia di terra. Concentrerà ogni suo sforzo nell’addomesticamento di quell’isola, la esplorerà minuziosamente, ne prenderà le misure, la coltiverà, vi praticherà l’allevamento, sottometterà ai suoi scopi ogni residuo selvaggio, selvatico, anarchico. La razionalizzerà, ne diventerà il padrone e il sovrano incontrastato, della terra, degli animali e soprattutto del povero Venerdì, spogliato della propria individualità, del proprio linguaggio, della propria essenza, della propria libertà e reso uno schiavetto convertito alla religione cristiana. Come scrive Joyce, riportato sempre dal Derrida dei Seminari, “Il vero simbolo della conquista britannica è Robinson Crusoe, il quale, naufragato su un’isola solitaria, con in tasca un coltello ed una pipa, diventa architetto, falegname, arrotino, astronomo […] e chierico. Egli è il vero prototipo del colonizzatore britannico […] Tutta l’anima anglosassone è in Crusoe: l’indipendenza virile, la crudeltà inconscia, la persistenza, l’intelligenza […], la religiosità pratica, la taciturnità calcolatrice...” e citando Rousseau, il filosofo francese continua dicendo: “˂Adamo è stato il re del mondo come Robinson della sua isola, dal momento che egli ne fu abitante unico˃”. Il naufrago diventa signore e padrone della sua isola – “Eccomi Maestà, Principe, Signore di tutta l’isola. Eccomi avere diritto di vita e di morte su tutti i miei Sudditi […] Eccomi solo a cena, come un Re, circondato dai miei Cortigiani”. Tanto che infatti Dio stesso nella Genesi dice che l’uomo è stato posto nel giardino dell’eden e di questo ne è il signore, tutte le creature sono al suo servizio. Strano che il divino nella sua mente onnisciente non abbia previsto che tale privilegio concesso all’uomo avrebbe portato quest’ultimo a un atteggiamento sempre più barbarico e irrispettoso, distruttivo e autodistruttivo, nei confronti della terra, degli animali, dell’ambiente, del clima e degli altri esseri umani. Quell’eden lo abbiamo reso un inferno, non smettiamo di violentare la terra, di uccidere gli altri esseri viventi sentendoci presuntuosamente in diritto di farlo affermando la nostra forza, il nostro potere senza riuscire a considerare l’ altro non solo come mezzo ma anche come fine. Come l’isola di Robinson, anche la nostra terra ha perso un po’ la sua anima selvaggia e “anarchica” ed è diventata un mondo dominabile e dominato, dotato di ordine ed efficace razionalità calcolatrice, tecnicizzato, cementificato, mediatizzato. Su tutto domina la lucidità razionale, pianificatrice e opportunistica dell’Uomo (occidentale, dato che lo stesso predominio Robinson lo eserciterà anche su Venerdì, “essere inferiore” inglobato alla sua signoria come ulteriore suddito). Ma la dimensione più vera della terra invece, a differenza della dimensione edificata dall’uomo non è il logos, quest’ultimo fa parte del mondo, bensì il melos, il canto. Il logos, la ragione è ciò che ha sempre trionfato nella cultura occidentale, fin dagli esordi. In suo nome ci si apre al progresso, a oltrepassare i limiti del conosciuto e sondare altri lidi, altri approdi, altre regioni fisiche o mentali che ancora non si conoscono e che vogliamo conquistare, colonizzare e prenderne possesso. È insita proprio nel logos questa carica di ampliamento che ci porta a trasformare e a proiettarci nel futuro. Senza di esso non sarebbe possibile il cambiamento, l’allargamento di orizzonti, lo spostamento di confini. Grazie ad esso il mondo non è statico. Nello stesso tempo però il logos racchiude una portata significativa di aggressività, che dà vita a relazioni asimmetriche, sbilanciate, alla sottomissione dell’altro in nome di una presunta superiorità, in nome del fatto che io, soggetto che ti conquisto, posso conquistarti proprio perché ti conosco meglio di quanto tu conosca te stesso.
Stessa cosa per quanto riguarda la relazione soggetto-oggetto: non c’è mai una coincidenza, una fusione, ma sempre uno sbilanciamento, sia nel caso che sia il primo ad avere una posizione sopraelevata rispetto al secondo e quindi la conoscenza da parte del soggetto si risolverebbe in una sorta di fascio di luce che, partendo da lui, rischiara, illumina l’oggetto, sia quando è quest’ultimo che emana da sé la luce della conoscenza sul soggetto, come una sorta di irradiazione che lo investe. Ad ogni modo si tratta sempre di una disparità, una gerarchia tra i due poli, che non si pongono mai sullo stesso piano. La terra però non conosce la dimensione del logos, la sua è quella della musica, del canto erratico e vagabondo. Sì, perché il melos capovolge quel primato della visione, del theorein (contemplare) che fin dai tempi più antichi la filosofia occidentale non ha mai messo in discussione. È il logos ad essere fatto eminentemente per gli occhi, per la vista – basti pensare a tutte le metafore della luce che viene inneggiata a scapito del buio, inteso come male, peccato, abissale malvagità, perdizione, ignoranza – essenziale per la contemplazione della verità, del Bene. Ad esempio Platone nel Teeteto considera “una stessa cosa” la vista e la conoscenza. E prima di lui già Eraclito affermava che gli occhi sono testimoni più precisi delle orecchie. Aristotele poi faceva iniziare la sua Metafisica con le seguenti parole: “Tutti gli uomini tendono per natura al sapere. Lo segnala il loro amore per le sensazioni, gradite per se stesse, indipendentemente dall’utilità, preferita tra tutte la vista, non solo in rapporto all’azione, ma anche senza intenzione pratica. Il motivo è che, mostrando la molteplicità delle differenze, la vista fa acquisire più delle altre sensazioni [nuove] conoscenze”. Per lo Stagirita la vista deteneva il primato soprattutto per il suo aspetto pratico, dato che gli appariva il senso più adeguato in rapporto ai bisogni indispensabili, quindi ai fini utili alla vita. Il melos invece ridà voce all’ascolto, ai suoni, alla melodia. La realtà non è muta, non è fatta solo per essere guardata ma anche per essere ascoltata, noi siamo immersi in una fonosfera, un universo sonoro; la meraviglia, l’incanto non emergono soltanto attraverso la vista ma anche attraverso l’apparato uditivo il quale cattura rumori, sussurri, vibrazioni, canti. E il canto non persegue in vista in di un progetto, di un utile, ma ramingo procede ondeggiando, errando, sostandosi ovunque ma non in linea retta, il suo è un continuo indugiare. Il suo è un movimento ondivago, la sua è la dimensione errante dell’iri, quell’ultimo lemma della parola ex-per-iri (da cui esperienza) che a differenza dell’ex (teso verso il passato, a difendere il proprio) e del per (proiettato verso la conquista, l’espansione e quindi verso il futuro), non ha alcuna meta, rimane sospeso nello spazio e assorbito nell’attimo, nell’istante dilatato fino a diventare eterno. “Vagabondare con gusto e filosofia è attendere che la strada ci venga incontro senza orientarci in essa […] Basta ruotare il capo, dopo qualche passo intrapreso in questa disposizione d’animo, per accorgersi che tutt’intorno compaiono cose prima mai viste.” (da Filosofia del camminare, Duccio Demetrio). Il vagare, l’errare senza meta sono processi che comunque permettono di avanzare – sebbene non in vista di una meta precisa – perciò non obbligano la stasi in una posizione definitiva, ma sono anche digressioni perché il procedere non risulta lineare, ma consiste in una dinamica che conosce svolte, anse, anfratti ed affronta le problematiche aperte del “non finito”, comportando il rischio, l’incognita della diversità, il fallimento pure. La dimensione dell’iri è l’ignoto, la perdita di relazioni, di riferimenti, di affetti e legami. L’erranza è smarrimento, abbandono, dimenticanza, oblio di possessi e appartenenze, ma è anche sperimentazione e riscoperta, non solo esteriore ma probabilmente anche interiore, come se in questo esilio erratico dell’esistenza, quando non cerchiamo ostinatamente di direzionarla verso qualcosa, quando non la barrichiamo dentro un percorso, che sia quello nostalgico del ritorno, dell’ex che quello gettato in avanti verso il futuro, verso il per, questo viaggio nei luoghi dell’altrove interno ed esterno al sé, costituisce anche il confronto più profondo e non gerarchico, con l’alterità, con l’altro da sé. Fare esperienza significa mettersi in viaggio, in cammino, “un cammino che noi stessi siamo, nella nostra esperienza essenziale di ciò che chiamiamo mondo […] sin dall’inizio, perché non è che un bel giorno scopriamo un cammino, ma siamo già il cammino in cammino verso tutto ciò che è mondo […] come tutto nel quale, nell’appartenenza del quale siamo già in cammino, avviati, inviati, spinti, messi in movimento, impegnati, trascinati, mandati nel Bewgung del Weg, in viaggio”. Camminare, come sostiene anche David Le Breton significa appunto “aprirsi al mondo”, mondo che è “come ogni isola in esso, il luogo dell’essere-in-cammino che noi siamo, […], è la via sulla quale siamo inviati in viaggio, […] ma un essere-in-cammino nel quale siamo al tempo stesso, indecidibilmente, spinti e trattenuti, l’uno e l’altro, dunque né l’uno né l’altro. E noi siamo questo ˂né l’uno né’altro˃ […], siamo in movimento senza quiete”.
Siamo cammino, ci apriamo al mondo che è luogo del nostro essere in viaggio, ci apriamo all’altro da noi, che sia l’altro assoluto che incontriamo durante il nostro cammino, ma anche l’altro che è dentro ciascuno di noi, e tale apertura è forse racchiusa proprio nell’ iri, poiché colui che arricchisce la propria storia di molte deviazioni, di molti passaggi, conosce più sentieri, più territori, rispetto a colui che prosegue lungo un percorso diritto. Scrive Michel Serres, filosofo e scrittore francese: “Errante, dimissionario, disperato di non poter mai trovare pace, chiunque passi per lo spazio inventa dei luoghi. Il cammino s'imbatte imprevedibile su dei siti d'osservazione, umili o gloriosi [...]. Il nostro mondo si raccoglie in luoghi essenziali, sacche, pieghe, cime, fondi di crateri, porte per un altro mondo, apertura sulle cose.[...]. Una porta apre o chiude una soglia ritenuta tale perché in quel luogo una legge si capovolge [...]. Così lo spazio e il tempo si aprono grazie a qualche porta che si spalanca o incombe su ciò che la lingua chiama in uno stesso modo: l'esperienza. Porta esperta, stesso termine, ossia aperta su un'esteriore. La porta è una specie di porto. Il mondo e la vita conducono a una soglia che sbarra un altrove [...]: si tratta di forare un pertugio per accedervi. Esperienza: buco verso il fuori[...]. Ecco l'apertura fondamentale dell'esperienza". Apertura, senso che esplodono in ciascun passo del nostro cammino, e così come è proprio in ognuno di questi passi che risiede la meta, anche il senso di una melodia si sprigiona da ogni nota e ciascuna di esse dà valore e bellezza al tutto. “Così finalmente comincia a risuonare l’attimo vissuto, raccolto in se stesso, sbocciato, rimasto in sospeso per la camera più segreta […]”, scrive Ernst Bloch ne “Il principio di speranza” interpreta la musica come ciò che riesce a colmare una mancanza: “Qualcosa manca, e almeno questa mancanza il suono la esprime chiaramente. Esso ha in sé qualcosa di oscuro e di assetato, esso vola via, non sta fermo in un posto come il colore”. Il canto dà voce all’ineffabile, all’afasico, a ciò che non può essere espresso semplicemente attraverso le parole, a ciò che non può essere ingabbiato dalla razionalità logica e semantica, dischiude l’ orizzonte dell’ “utopia di noi stessi”, perché capace di metterci in contatto con le parti più profonde del nostro spirito, con quelle zone “oscure” di noi, non perfettamente stigmatizzabili nelle forme irrigidite del pensiero logico e discorsivo. “La tensione tra il suono come espressione immediata dell’interiorità e come apertura infinita alla mediazione dell’incontro con il Sé costituisce la radice profonda del carattere utopico dell’espressione musicale. [...] La musica è profetica ed utopica nella sua essenza perché noi la comprendiamo, non possiamo fare a meno di essa che è il non radicalmente creativo, ma non sappiamo ancora che cosa essa veramente significhi”. La musica, il canto, apre le porte a quell’invisibile dell’esperienza che non ha a che fare con la progettualità, con il linguaggio, con le leggi e gli scopi del mondo ben delineati e ci spalanca a una dimensione temporale ritmica, condensata, come abbiamo detto in quell’attimo divenuto infinito. “Il melos è una parola non riducibile a determinazione logica o tecnica. È l’arte stessa, la vita dell’arte nel suo attuarsi secondo la sua più profonda essenza. Il melos non è solo il canto, la melodia pienamente cantata, ma anche il tempo, il ritmo, l’accento e via enumerando, senza che mai si possa esaurirne verbalmente il pieno e integrale significato” (R. Wagner, L’ideale di Bayreuth).
Il Sole, focolare di tenerezza e di vita,
versa l’amore ardente sulla terra rapita,
e, quando mi sdraio sulla valle, sento
che la terra è nubile e straripa di sangue;
che il suo immenso seno, sollevato da un’anima,
è dell’amore come Dio, della carne come la donna,
e che rinserra, gravido di linfa e di raggi,
il grande formicolio di tutti gli embrioni!
E tutto cresce, e tutto sale!
[Arthur Rimbaud, Sole e carne]