Sabato 8 novembre è iniziato il ciclo di incontri all’Istituto Stensen, che, quest’anno, hanno come tema le tre forme d’amore più note: Eros, Filia e Agape. Gli ospiti che per primi ce ne hanno parlato, sotto la coordinazione di Sergio Givone, professore ordinario di Estetica presso l’Unifi, sono stati Aldo Stella, professore di Psicologia dei processi cognitivi e di Psicologia del pensiero presso l’Università per Stranieri di Perugia, e Don Gianni Colzani, professore ordinario di Missiologia presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma, nonché esperto di Mariologia (la teologia di Maria), rivelazione e autore di numerosi e importanti libri. In questa parte ci concentreremo sull’intervento di Aldo Stella.
Il professore esordisce citando, inevitabilmente, il Simposio, il famosissimo dialogo platonico che ha come argomento proprio quello dell’amore erotico. Eros, ci dice Socrate, riportando al resto dei convitati, le parole riferitegli dalla sacerdotessa Diotima, non è un Dio né un umano, ma si colloca “a metà strada”. Eros non può essere un Dio, perché Dio non ha bisogno di niente, mentre amore esprime sempre un bisogno, una mancanza da colmare, da saziare, né è un uomo, bensì è ciò che sta in mezzo tra i due, tra il divino e l’umano, è un daimon, un demone, lo chiama Platone: “Eros è un gran Dèmone, o Socrate: infatti tutto ciò che è demonico è intermedio fra Dio e mortale. Ha il potere di interpretare e di portare agli Dèi le cose che vengono dagli uomini e agli uomini le cose che vengono dagli Dèi: degli uomini le preghiere e i sacrifici, degli Dèi, invece, i comandi e le ricompense dei sacrifici. E stando in mezzo fra gli uni e gli altri, opera un completamento, in modo che il tutto sia ben collegato con sé medesimo.” (Simposio). Amore, continua Stella ha due genitori particolari da cui deriva la propria natura; egli è infatti figlio di Poros , che non significa soltanto ricchezza o abbondanza ma anche espediente, e di Penia, che significa mancanza. In quanto figlio di quest’ultima, Eros è mancante, ha bisogno di riempire qualcosa che gli manca e mancandogli lo strugge di nostalgia, di anelito desiderante ed irrequieto, proprio come colui che ama, chi ama manca di qualcosa, ha un vuoto e questo è un vuoto ontologico che scava abissalmente il proprio essere, un vuoto che desidera, irrimediabilmente, estenuantemente, riempire, colmare. Ed ecco che qui entra in gioco Poros, perché in quanto anche figlio di quest’ultimo Eros è disposto ad usare qualsiasi mezzo, qualsiasi espediente pur di ottenere l’oggetto amato, per raggiungere ciò di cui sente la mancanza: “Poiché, dunque, è figlio di Poro e di Penìa, ad Amore è toccata la sorte seguente. In primo luogo è sempre povero e ben lontano dall'essere delicato e bello, come credono i più, anzi è duro e lercio e scalzo e senza tetto, abituato a coricarsi in terra e senza coperte, dormendo all'aperto sulle porte e per le strade e, avendo la natura di sua madre, è sempre di casa col bisogno. Per parte di padre, invece, è insidiatore dei belli e dei buoni, coraggioso, audace e teso, cacciatore terribile, sempre a tramare stratagemmi, avido di intelligenza e ingegnoso, dedito a filosofare per tutta la vita, terribile stregone, fattucchiere e sofista. E per natura non è né immortale né mortale, ma ora fiorisce e vive nello stesso giorno, quando gli va in porto, ora invece muore e poi rinasce nuovamente in virtù della natura del padre.”(Simposio).
Dunque, l’amore erotico è un progetto volto ad esercitare un potere sull’oggetto amato, ha la volontà di inglobarlo, possederlo, attraverso qualsiasi espediente. Nel Fedro, altro bellissimo dialogo di Platone, invece non si parla di Eros, bensì di Philia, che traduciamo tradizionalmente con amicizia, significa però qualcosa di molto profondo. Nel Fedro essa è usata per esprimere l’amore per la verità, un amore che però non è volto a possedere, a inglobare l’oggetto verso cui si rivolge entro di sé, non è l’amore totalizzante che vuole far suo l’altro a tutti i costi, fin quasi ad annullarlo entro se stesso, non è un pre-tendere, ma piuttosto un in-tendere, un tendere verso. L’amore erotico pretende l’oggetto che ama, per poterne disporre a suo piacimento, mentre la Filia non è una pretesa di verità, ma una tensione verso di essa, una protensione, un’intenzione verso ciò che ama, in questo caso, appunto, la verità. Però ciò che entrambi condividono è il fatto che sono suscitati dalla bellezza. Bellezza che è una forma di armonia, e l’armonia non è che l’espressione visibile di quella verità che in quanto assoluta permane invisibile e indeterminata. Le due forme d’amore, perciò, non sono l’una in contrasto o in contraddizione con l’altra, anzi! Semmai sono in una scala gerarchica, come se la prima fosse una forma ancora immatura e particolaristica di amore, mentre l’altra una più completa e saggia (non a caso il termine filosofia, ha la sua radice proprio in Philos, ovvero amico, colui che ama nel senso profondo e puro del termine e sophia che è la sapienza, la saggezza.) È come se l’anima si trovasse a dover percorrere un itinerario, un percorso formativo e perfettivo che parte dall’amore erotico suscitato dalla bellezza di un corpo materiale, particolare: “L'anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e fuor di sé non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre, anela là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. E appena l'ha riguardato, invasa dall'onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere. [...] Perché, oltre a venerare colui che possiede la bellezza, ha scoperto in lui l'unico medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell'anima, mio bell'amico a cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore” (Fedro). Poi però, attraverso un processo di anamnesi, l’anima mentre contempla la bellezza dell’oggetto amato si ricorda della forma pura e universale della bellezza e quindi si eleva a un gradino più alto, all’amore per la bellezza universale, fino a scoprire che essa non è che il riflesso della verità, che si può amare solo per sé stessa e non perché ci è utile, perché ci interessa possederla per farne l’uso che vogliamo. Più che desiderio di possesso questo amore è animato dal desiderio di esser posseduto dalla verità, di perdersi in essa, non di controllarla, non di esercitarvi un potere totalizzante e asfissiante. “Poiché dunque il pensiero di un dio si nutre di intelletto e di scienza pura, anche quello di ogni anima che abbia a cuore di accogliere quanto le si addice, quando col tempo abbia scorto l'essere, ne gioisce e, contemplando la verità, se ne nutre e si trova in buona condizione, finché la rotazione circolare non riconduca allo stesso punto. Durante l'evoluzione esso vede la giustizia in sé, vede la saggezza, vede la scienza, non quella alla quale è connesso il divenire, né quella che è diversa perché è nei diversi oggetti che noi ora chiamiamo enti, ma quella che è realmente scienza nell'oggetto che è realmente essere. E dopo aver contemplato allo stesso modo le altre entità reali ed essersene saziata, si immerge nuovamente nell'interno del cielo e torna a casa. E una volta arrivata, l'auriga, arrestati i cavalli davanti alla mangiatoia, li foraggia di ambrosia e dopo questa li abbevera di nettare” (Fedro).
È un amore, una filia scevra da utile e interesse, dal desiderio bramoso del possesso e dell’afferramento inglobante dell’oggetto amato. Nell’amore erotico quando amo te, perché ho bisogno di te, in realtà non è te che amo, ma me stesso: amo te in quanto servi a me, a riempire il mio vuoto, il mio anelito straziante, la mia lacuna penosa, è un amore strumentale si potrebbe dire in quanto io ti strumentalizzo per colmare, risolvere un mio bisogno. Tant’è che Pascal ha parlato di “amor sui” e già i greci parlavano di philoautia, cioè di amore per sé stessi. Si inserisce a questo punto la distinzione tra l’io e l’ego. Il primo è il naturale slancio che pervade l’identità di ciascuno di noi e lo spinge verso l’alto, verso qualcosa che costituisce un valore autentico, la verità; il secondo invece, è un arroccamento difensivo, una chiusura verso il mondo e gli altri, dettata molto spesso dalla paura, è la nostra corazza per difenderci dalla presunta aggressione del mondo e degli altri e che finisce alla fine per schiacciarci, facendo sì che è proprio questo ego ingabbiante a sferzare su di noi i colpi più duri, essendo la radice della nostra sofferenza e della nostra dannazione, dice Stella. Eros è una pretesa egoica, di inglobamento dell’altro, è un ego che non accetta la differenza e che manifesta un’incapacità di comprendere che ogni identità determinata, è, come evoca lo stesso termine de- terminata: terminata perché circoscritta, conchiusa entro se stessa e perciò limitata, finita. Ma senza l’altro l’io non potrebbe porsi affatto in maniera determinata (Io diverso da Non io, senza il non io, l’io non potrebbe definirsi), quindi amare l’altro (senza la volontà di annullarlo entro di sé) è un atto non solo eticamente apprezzabile, ma anche teoreticamente e logicamente corretto e intelligente. Invece la volontà di inglobare l’altro è un progetto infantile: il bambino, nell’utero è Kaipan, è un uno-tutto, un’unità indifferenziata. Soltanto dopo si produce la frattura (trauma) e dall’uno si arriva alla diade composta dal bimbo e la amdre, ma il desiderio dell’infante è ancora quello di tornare alla sua unità originaria, di inglobare il tutto con cui vorrebbe sentirsi ancora indistinto, ha nostalgia dell’agnos, di questa unità primigenia da cui proviene e a cui desidera tornare. Non a caso Freud parla a tal proposito di fase orale: il neonato mette in bocca le cose proprio perché animato dal desiderio, non solo di nutrimento, ma anche di amore, di inglobare tutto, perché se io inglobo l’altro posso sperare di ricostituire quell’unità perduta indifferenziata. Questa difficoltà ad accettare la differenza rappresentata dall’altro da me, dal mondo e dagli altri è chiamata da Freud principio di realtà: il bambino che incontra l’urto della realtà è costretto a reagire (fase secondaria).
Il bambino che vuole a tutti i costi un giocattolo, una volta che lo ottiene smette di giocarci, si accorge che una volta posseduto esso perde tutto il suo interesse e il suo fascino, che vengono riaccesi soltanto quando magari arriva un altro bambino che gli chiede se può giocarci e la risposta, il più delle volte è “no perché è mio”. Se nessuno vuole un mio oggetto io posso predisporne come mi pare e piace, anzi, ne fruisco persino poco, ma se è insidiato da un altro possibile possessore ecco che allora lo voglio a tutti i costi, di nuovo. Questo è il classico fenomeno della gelosia, la quale è una componente fondamentale dell’amore erotico, volto al possesso, all’esercizio del potere e qualora l’amante riuscisse ad esercitare pienamente questo desiderio di inglobare l’altro, presto si accorgerebbe che questo altro non gli susciterebbe più alcun interesse, alcun desiderio, perché sarebbe già totalmente suo. Non bisogna, continua Stella, né farci inglobare né inglobare, perché l’amore è relazione, e una relazione, per essere tale, richiede che siano presenti e sussistenti entrambi i termini. Semmai l’unità raggiunta nella relazione è un’unità che trascende entrambi i termini, che va oltre gli unati stessi ed è a questa nuova unità che ci si deve poter affidare, distaccandosi dal nostro centro. Tornando di nuovo a Freud, costui parla di fase genitale e fallica, ovvero la fase piena della maturazione psico-affettiva. Se nella fase orale c’è un processo di interiorizzazione della differenza e nella fase anale un processo di esteriorizzazione dell’identità, è solo nella fase genitale e fallica che si accetta l’alterità in quanto tale. La stessa parola coito viene da coire, cioè andare insieme. l’orgasmo, fa notare il professore, viene anche chiamato petit mort non casualmente ma perché può provare davvero un orgasmo solo chi è disposto a perdersi, ad abbandonarsi all’altro, a “morire dolcemente” nelle braccia dell’altro, solo chi non è spasmodicamente attaccato a sé stesso, in modo così forte da non esser disposto a perdersi nell’altro può provarlo, è un amore obliativo che richiede una certa dimenticanza di sé e un totale abbandono, un inerme affidarsi all’altro. Perciò nell’amore è necessaria una certa dose di distacco. Tema che già i filosofi stoici e scettici avevano indicato per evitare di essere travolti dal mondo, dalle preoccupazioni del mondo. Ancora una volta l’etimologia delle parole è rivelatrice suprema del loro significato: pre-occupazioni, una mente che è già occupata non può occuparsi, chi si pre-occupa non si occupa. Anche Maister Eckhart, uno dei principali teologi, filosofi e mistici tedeschi del Medioevo Cristiano, lodava il distacco: “bisogna lodare il distacco più della morte. Chi non sa distaccarsi da se stesso non saprà distaccarsi neanche dal mondo” e anche in San Giovanni si legge: “solo chi non ha paura di perdersi si salverà”. Hegel più tardi parlerà di “santa indifferenza” (e prima di lui già Ignazio da Loyola usò per primo questa espressione) e Heidegger di gelassenheit, di lasciar essere. Quindi imparare a distaccarsi da sé stessi, dal proprio ego che pretende di controllare tutto e tutti, di fare di tutto e di tutti delle sue proprietà, anche dell’io stesso, dei suoi sentimenti, dei suoi pensieri, del suo spirito... Intesi tutti come possessi da tener ben chiusi dentro al propria fortezza escludente e terrorizzata dall’urto con l’altro. Invece dobbiamo imparare a “lasciarci essere”, ad affidarsi all’altro, come quando si fa il morto in mare, che è il massimo dell’affidarsi all’elemento’altro, tanto da dargli addirittura le spalle: chi ha paura di affidarsi alla danza delle onde sotto di sé, alla corrente misteriosa che ci sospinge, ma che può anche travolgerci e smarrirci, chi teme l’acqua come fonte della propria perdizione comincia ad agitarsi ed è la volta che le onde possono davvero risucchiarmi nel loro vortice tumultuoso; ma se io invece mi affido, mi lascio guidare dalla corrente, dalla culla delle onde, se mi affido confidandovi, quell’acqua diventa la fonte della mia salvezza, la “fede”, l’abbandono fiducioso nell’altro, per dirla di nuovo con Hegel, è capace di “prendere il negativo su di sé e volgerlo in essere”. Ma imparare a distaccarsi, a quale prezzo, a quale condizione è possibile? Soltanto individuando un valore che sia superiore a quello che noi attribuiamo al nostro ego, a noi stessi. Ed ecco che come in circolo virtuoso, torniamo a Platone, alla filo-sophia, all’amore per la saggezza, l’amore per la verità: chi ama davvero la verità, chi la pone al centro dei propri interessi, della propria riceva si dimentica di sé stesso. Ma si tratta di un amore universale, non asfittico, angusto, intossicante. L’amore per il sapere è un in-tendere, non un pre-tendere. E si tratta dell’amore per la verità assoluta perché una verità che sia relativa, determinata sarebbe una non-verità, sarebbe una contraddizione in termini o porterebbe a un regresso infinito: un principio per esser considerato vero dovrebbe appoggiarsi su un altro principio e questo a sua volta su un altro e così via all’infinito…un cattivo infinito, potremmo dire in termini hegeliani. Ma se la verità è assoluta (ab-solutus significa sciolta, libera da tutto), neanche la ragione può avere la pretesa di determinarla, di possederla, di poter affermare: “eccola, è questa”. In ciò sta la grandezza del so di non sapere socratico: esso significa che ciò che io intendo sapere è la verità, mentre ciò che trovo nella mia ricerca sono solo doxai, opinioni, verità relative, contingenti, particolari, non la verità assoluta che intenderei conoscere. Ecco perché l’importanza del dialogo, che andrebbe recuperato soprattutto oggi nel momento in cui assistiamo sempre di più a dialoghi che sono presuntuosi e autoreferenziali monologhi, in cui ciascuno dei due interlocutori pretende solo di affermarsi e affermare il proprio punto di vista sull’altro, di schiacciarlo, di inglobarlo nelle sue ragioni, senza esser disposto ad aprirsi a lui, ad estendere il proprio orizzonte fino ai confini dell’altro. In un dialogo in cui il principio è il sapere di non sapere ciò che si fa non è imporsi sull’altro, ma anzi, cogliere il limite della propria opinione, evadere dal proprio ovattato orizzonte e andare avanti, procedendo nell’intenzione della verità, la quale non è da afferrare, da possedere ma di esser posseduti da essa. Perché la verità è un valore in quanto tale, di per sé stessa, non perché mi serve a qualcosa, la posso amare e basta, perché voglio esserne posseduto, illuminato, guidato. E quel so di non sapere si ritrova in ambito telogico in quelle parole di Agostino che recitano più o meno così: “non ti cercherei se non ti avessi già trovato”(a proposito di Dio, in questo caso). Come per Socrate, che non potrebbe dire “so di non sapere” se la verità non l’avesse già toccato, illuminato. Di nuovo può venirci in aiuto l’etimologia delle parole: falsum – il contrario di ciò che è vero – è il participio passato di fallere quindi è ciò che è stato falsificato, ed è significativo che il presente della verità coincida con il passato dell’errore, ecco perché anche Agostino può dire di esser già stato toccato dalla verità, da Dio.