Il nostro primo cittadino, dopo aver lodato la densità e l’acutezza dell’analisi con cui l’autore affronta una tematica difficile e fortemente attuale, come quella dei rapporti intergenerazionali, e gli abissali cambiamenti che la nostra epoca ha scavato in essi, ha sottolineato che proprio tutte le trasformazioni che la nostra società sta vivendo – l’avvento del potere tecnologico, il fascino che la scienza sempre di più esercita, la trasformazione del mondo del lavoro, l’allungamento della media di vita, la precarietà dilagante, la disaffezione dalla politica, la voracità di un’economia così subordinata alle leggi di un mercato sempre più globale e autonomo in cui ciò che conta non sono gli individui ma soltanto il profitto che non guarda in faccia a nessuno, il dominio della finanza e del potere delle banche ecc.. – abbiano operato un enorme sconvolgimento anche nei rapporti tra le generazioni, che hanno iniziato a modificarsi anche dall’entrata del welfare state, che in qualche modo ha spezzato quei legami di solidarietà tra individui e mutua assistenza che potevano svilupparsi tra persone di diverse generazioni. Oltre a questo assistiamo inoltre a un maggior restringimento della fase della maturità, provocato dal fatto che ormai ci si può considerare giovani fin quasi a 50 anni, dopodiché si entra in quella dimensione di senilità che più o meno tutti ormai fanno estrema fatica ad accettare. Non facciamo più i conti con l’oggettività della nostra età: il giovane non vuole diventare maturo, non vuole assumersi su di sé quella responsabilizzazione che appartiene appunto alla fase della maturità, spostando il confine della propria giovinezza sempre un passo più in là, così che quando si trova a “cadere”, a “piombare” nella vecchiaia non riesce ad accettarla, cercando magari di smascherarla, di camuffarla attraverso qui magici ma fasulli e illusori espedienti offerti dal progresso della chirurgia estetica, che danno l’illusione di rimanere sempre giovani e belli. Insomma, continua il sindaco, non ci sentiamo mai bene nella condizione in cui siamo e questa è una delle malattie più pericolose della nostra società contemporanea, dato che non accettare sé stessi per quello che si è, porta anche a non riuscire a sostenere o instaurare delle sane e serene relazioni con gli altri soggetti, relazioni interpersonali e intergenerazionali.
Non viviamo appieno, con intensità, con serenità la condizione in cui siamo. Una della cause è la globalizzazione, che ci rende forse più forti e liberi ma nello stesso tempo ci pone il problema del debito generazionale, economico innanzitutto: il debito pubblico accumulato ha portato a indebolire il welfare, e ha innescato uno scontro tra generazioni, che si colpevolizzano a vicenda e che diventano l’epicentro di tensioni e conflitti sempre più insolubili. Oltre al fattore economico e al conseguente egoismo generazionale anche le relazioni interculturali e sociali sono maggiormente improntate sulla paura, il pregiudizio, la diffidenza, il sospetto, l’intolleranza, l’egoismo sociale, l’estremo individualismo..a tutto ciò segue una solitudine avvertita un po’in ogni fase della nostra esistenza: gli anziani si sentono soli ma anche i giovani e si arriva a un ribaltamento dei loro ruoli: mentre prima erano i figli, i nipoti che si prendevano cura dei loro nonni o dei loro padri una volta che questi diventavano vecchi, adesso, molto spesso accade che il giovane riesca a sopravvivere proprio perché sostenuto da nonni o genitori. Tutto questo è uno sconvolgimento epocale, rispetto a un modello, che da Aristotele in poi è andato avanti per secoli. Dobbiamo allora recuperare, afferma Nardella, un nuovo legame tra le diverse generazioni, un nuovo modo di stare insieme. Come possiamo però, chiede il sindaco al filosofo, trovare un nuovo modello di relazioni generazionali dato che quello che è durato per moltissimi secoli oggi non è più riproponibile, non è più realizzabile? Forse, conclude il primo cittadino, una speranza o una piccola risposta è data dalla riscoperta della maturità resa possibile dal fatto di diventare padri o madri con la conseguente assunzione di responsabilità, soprattutto verso i propri figli, e di maggior presa di consapevolezza di sé stessi e del mondo circostante, che sarà quello che a loro lasceremo. Forse nella paternità e nella maternità è dato ritrovare un momento di riequilibrio, di recupero di consapevolezza e responsabilizzazione, di riscoperta del valore di quel rapporto tra generazioni che sembra sempre più affievolirsi, impallidire da un insieme di fattori (economico, tecnologico, biologico ecc..) che lo soffocano e lo schiacciano. E la riscoperta di questi rapporti è fondamentale, perché prima di tutto, la felicità va ricercata proprio nelle relazioni tra persone.
Dopo i ringraziamenti d’obbligo Bodei inizia la sua coinvolgente dissertazione, partendo molto da lontano, ovvero dalla divisione delle tre età operata da Aristotele nel II libro della Retorica e che dal III secolo a. C. è rimasta un modello più o meno indiscusso fin verso il nostro 1600. Lo stagirita divideva le età della vita in tre parti sulla base del ciclo solare, così che la giovinezza corrispondeva all’alba o all’aurora, la maturità allo splendore avvolgente del sole di mezzogiorno e la vecchiaia al tramonto. A caratterizzare la giovinezza è la grande speranza dato che questi hanno poco passato alle spalle e molto futuro davanti; dei vecchi, il filosofo greco dice che sono “umiliati dalla vita”, hanno molto passato ma poco futuro, sono alla fine di un’esistenza ormai consumata, trascorsa e si sentono come dentro l’anticamera della morte; infine della maturità dice che è la fase più perfetta, rappresenta la luminosità del giorno, il momento di pieno splendore della vita, in cui si raggiunge il massimo equilibrio tra le proprie forze ed energie, che sono attive e vivaci e la saggezza. Shakespearianamente la maturità “è tutto”. Oggi, con buona pace di Aristotele, è cambiata soprattutto l’idea che i giovani siano animati da una potente speranza, anzi, a caratterizzarli è piuttosto un vuoto senso di rassegnazione, delusione, impotenza e apatia che contrasta nettamente con quello slancio entusiasta, quell’animazione vitale che un’energica speranza, un’avida e famelica voglia di buttarsi a piena faccia dentro l’incommensurabile mare dell’avvenire, che davanti ai loro occhi colmi di sogni pareva spalancarsi all’infinito, essendo pieno di possibilità e aspettative da realizzare, suscitava loro. Da “frecce lanciate nel futuro”, per dirla con Deleuze, pronte a schizzare a velocità impazzita nell’enorme mistero di una vita dilatata al massimo, i giovani oggi più che frecce sono degli scudi che dalle frecce di un mondo che dà loro sempre meno fiducia sembrano volersi riparare. Accade ai giovani quello che l’economista indiano premio Nobel Amartya Sen ha scritto, parlando della propria patria, a proposito dei 3/400 milioni di Paria (gli intoccabili) e altri poveri, i quali “non desiderano più nulla perché sanno di non poter ottenere più niente”. Anche i nostri giovani sembrano non aspettarsi più niente, vivono nella precarietà, non hanno un posto fisso e hanno perso la speranza di poterlo mai ottenere. Altro cambiamento, rispetto al modello aristotelico è che non è più vero che i vecchi sono “umiliati dalla vita”perché sono quelli che detengono il potere: viviamo in società gerontocratiche in cui manca il cambio generazionale. Per quanto riguarda la maturità, infinte, essa non è certo più considerata come “la perfezione”, come diceva Oscar Wilde! Quando diventiamo maturi, avvertiamo anzi sempre di più la sensazione di non esser mai giunti alla meta, di non aver concluso niente, di non esser approdati a nulla né aver costruito qualcosa di solido e questo spesso porta a un’inaccettazione della maturità, che viene così erosa da una volontà di restar perennemente giovani spostata così oltre da invadere il campo della maturità. E la vecchiaia, essendosi molto allungata l’età della vita, diviene una specie di inutile prolungamento. Più che elisir della vita eterna vorremmo l’elisir della lunga giovinezza, in quanto siamo nel periodo di green old age come dicono gli inglesi. Allo stesso tempo la vecchiaia non è più vista come pozzo, fonte di saggezza (come volevano gli antichi, uno su tutti Seneca), o come scriveva Machiavelli, quando la ruota della fortuna comincia a girare più velocemente le persone anziane non riescono ad essere in sincronia sui tempi, e perdono la capacità di analisi di una realtà e di un tempo che si trasforma a una rapidità frastornante, finendo per non avere più strumenti per comprendere questa realtà mutata, questo tempo che gira più veloce di loro. “Occorre perciò una virtù” che solo i giovani possono avere per comprendere la nuova realtà e per poter agire su di essa, intervenire, incidendo sui suoi processi.
Un ulteriore cambiamento, prosegue Bodei, è che mentre secondo il modello aristotelico, ripreso in particolare da Dante, la vita umana, che durava fino a settanta anni, era divisa in due parti (“nel mezzo del cammin di nostra vita”) oggi sembra un unico continuum. Per il filosofo greco la prima metà della nostra vita vedeva i genitori prendersi cura dei figli e nella seconda metà avveniva esattamente il contrario. Oggi non è affatto più così. È vero che anche nell’antichità c’erano forme di “pubblica assistenza”, come ad esempio i sodales e i collegi (una sorta di associazioni di categoria) a Roma, che fornivano anche un contributo per mantenere vecchi e ammalati, ma l’onere maggiore era comunque affidato a figli e nipoti o in generale ai legami familiari. Con l’età moderna lo Stato si è preso su di sé il “peso” del mantenimento degli individui più vulnerabili e fragili, come anziani, ammalati, poverissimi. Si pensi alle “leggi sui poveri”, nate più o meno nel ‘700 in Inghilterra o alla vera svolta determinatasi, quando in Germania il reazionario Otto Von Bismarck, nel 1888, per combattere il socialismo e la lotta di classe istituì (dunque non per animo caritatevole ma per fini strategici e politici) le pensioni di invalidità e vecchiaia. In Italia, nel 1898 si copia Bismarck con le Associazioni di Mutuo Soccorso di ispirazione mazzinianae nel 1900 fu il “chinino di Giolitti”contro la malaria a inaugurare lo Stato Sociale. Il fascismo poi intervenne con forme di welfare “anticipato”: istituti di maternità e infanzia (basti pensare che esisteva persino una tassa sul celibato!); colonie per giovanissimi; dopolavoro ferroviario ecc… opere che miravano principalmente, se non unicamente, a controllare e mantenere compatta la popolazione “biopoliticamente”. Continuando il suo excursus storico Bodei aggiunge che fu poi il New Deal roosveltiano del 1933/34 in America a dar vita al welfare State vero e proprio, benché considerata l’espressione nel suo senso più forte, occorrerebbe sottolineare che la vera forma di welfare l’ha partorita il rapporto Sulla sicurezza sociale e i servizi connessi, del 1942, del sociologo ed economista inglese William Beveridge, servito come base per la riforma dello stato sociale britannico messa in opera dal partito laburista eletto nel 1945. In Italia il nostro welfare state è uno dei migliori al mondo, considerando che offre quasi gratuitamente aiuto, assistenza e cure necessarie, quando invece, ad esempio nella civilissima America, ben 40 milioni di persone non hanno accesso alla sanità.
Detto questo, resta però il fatto allarmante che la politica ha perso di peso, in un mondo sempre più governato dalla finanza e dominato dalle leggi fagocitanti del mercato, in cui le crisi ricorrenti hanno portato a cambiamenti di strategia. Con la crisi petrolifera del ’73 abbiamo assistito al periodo “delle vacche grasse”, a seguito del tentativo di aumentare e gonfiare all’ennesima potenza la spesa pubblica, cosa che ha portato alla crisi del 2007/2008 creando quella forbice tra sovrapproduzione e sottoconsumo (eccesso della produzione ma poche possibilità di acquisto e quindi eccesso di merce invenduta) che ha contribuito a creare la serie di danni che ben conosciamo, e che ha portato a tagli della spesa pubblica, a un aumento del costo della vita non proporzionato ai salari e alle possibilità di acquisto delle persone, a tagli su sanità e scuola, ha accentuato il declino dello Stato sociale e creato sempre più incertezza verso il futuro; di conseguenza anche i rapporti tra generazioni hanno profondamente risentito di tutto questo vortice di circostanze e cambiamenti. Il problema macroscopico è proprio quello economico: la civiltà industriale, caratterizzata appunto dalla sovrapproduzione ha sostituito sempre di più il lavoro umano con quello delle macchine gettando grazie alla loro capacità di produrre più merci in tempi minori, un’enorme quantitativo di prodotti che però non potevano essere di fatto assorbite dalle capacità di consumo e di acquisto delle persone, dalle loro risorse economiche. La contraddizione tra sovrapproduzione e sottoconsumo è stata “risolta” attraverso il capitalismo così che il sistema per un po’ha retto. Ma la capacità di sfornare merci non è sufficiente se non si insiste sul fattore del consumo, perché se questo manca, manca anche la produzione e il Paese non cresce. Insomma il sistema ha mostrato e continua a mostrare tutte le sue fragilità e contraddizioni interne. La politica nel frattempo ha perso parte della sua autonomia, dato che sono le leggi del mercato sovranazionale, anonimo, che inseguono soltanto il profitto, il vantaggio economico. Una delle possibilità di salvezza è data però dal fatto che non è vero che la gente non partecipa al bene comune. Solo in Italia esistono circa sei milioni e mezzo di volontari. Dobbiamo impedire che la struttura sociale venga schiacciata e gema tra le maglie del sistema capitalistico investendo nella ricerca, trovando altri modi di produrre e cercando di non lasciarci annichilire da quella disaffezione della politica che oggi è così dilagante. Benché probabilmente giustificati, un totale rigetto e un asettico qualunquismo e spirito di rassegnazione, di sfiducia nella politica porta a un enorme autogol e una stagnazione che non innesca alcun tipo di reazione o cambiamento necessario. Politico viene da polis, è la cosa dei cittadini, è la res publica, tutto quello che vivo o quello che faccio è politico e riguarda tutti, riguarda il mio mondo, che inevitabilmente condivido con altri esseri, umani e non. Non dobbiamo semplicemente accettare la realtà così come è, rifugiandoci in un inattivismo dolente e ignavo che non fa stare bene per prima noi stessi. La mancanza di sicurezza e la precarietà che caratterizzano, oggi più che mai, le nostre esistenze, come ha scritto il sociologo Richard Sennett, porta a “una corrosione del carattere”. È vero che questo nostro tempo non è più lineare e appare sempre di più come una linea intermittente, spezzata, piena di buchi, fratture, sbalzi in cui inciampiamo vertiginosamente, una linea in cui il presente si gonfia a dismisura, il passato impallidisce e c’è una desertificazione del futuro. Però ciascuno dovrebbe fare, reagire, per lo meno fare ciò che può e deve per impedire che questa stagnazione svuoti del tutto le nostre vite, i nostri caratteri, la nostra vita sociale e collettiva, inaridisca i nostri rapporti e mortifichi il nostro benessere, interiore ed esteriore. Dice un proverbio minore che “se spazzerai davanti casa tua anche il marciapiede sarà pulito”: ogni azione individuale va a toccare la realtà che la circonda e in questa può incidere, può condizionarne altre, può avere un peso sulla res publica. E, mi verrebbe da aggiungere, visto che tutti vogliamo rimanere giovani, ebbene, come ha scritto Andé Gide, “la mia vecchiaia avrà inizio quando avrò smesso di indignarmi”, per cui indigniamoci e agiamo, anche per sperare di lasciare un mondo migliore a chi ci succederà. Debito generazionale. Bodei spiega che questa espressione corrisponde all’idea di tradere, che significa consegnare. Cosa consegnare alla collettività? A coloro che ci succederanno? Dante , nel De Monarchia, all’inizio, ricordando le parole del maestro Brunetto Latini, autore del Tesoretto (o Tresor, essendo scritto in lingua d’oil), il quale affermò che dobbiamo fare tesoro della cultura perché non ci potrà mai essere tolta, scrive che “chi fa così è simile a una voragine che accumula senza restituire”, mentre lui, Dante, restituì con la sua Commedia, più di quel che ricevette.
Bisogna recuperare un’etica della restituzione, restituire più di quanto si è avuto, come, in Romeo e Giulietta, afferma la protagonista dicendo che “chi più dona più riceve”, citando probabilmente Seneca. Forse non è la soluzione ma sicuramente una possibilità. Per far questo però occorre non ripiegarsi dentro di sé adagiandosi impassibili su una realtà che prendiamo come un fotogramma, così come si presenta, senza speranza di operarvi cambiamenti, ma operare su di essa, agirvi, incidervi. Quando morì Piero de’ Medici (babbo di Lorenzo il Magnifico), nel 1494, gli optimates presero il potere a Palazzo Vecchio e i popolares, “seduti sulle panchine a discutere”, come scrive Machiavelli, su quanto ogni tipo di male fosse colpa di coloro che in quel momento erano al potere (gli optimates appunto), una volta che furono essi stessi a salire al potere si rendono conto che le condizioni, la realtà effettuale delle cose era molto più complicata, complessa di quanto avevano immaginato. Perciò, sempre citando Il principe Bodei ci esorta a comportarci in modo da modificare le cose conoscendole, quelle cose particulares di cui parla appunto Machiavelli, le minuziosità che vanno a comporre l’intero quadro. Bisogna introdurre la propria azione e il proprio pensiero per cercar di cambiare certe situazioni e non far sì che queste ci sommergano assistendo alla nostra disfatta passivamente. E infine, per quanto il cambio generazionale, Bodei ritiene che sia certamente necessario ma non come slogan del tipo “tutti i vecchi a casa”: bisogna sì, fare spazio a chi viene dopo mettendosi da parte, ma prima di tutto bisogna valutare la qualità, non soltanto all’età anagrafica e, citando le parole di Plutarco il professore conclude: “In riposo non dovremmo mandare i vecchi, ma gli incapaci. E in aiuto non dovremmo chiamare i giovani, ma i valenti.”