Il libro della vita. Questo il titolo del ciclo di incontri che ogni due domeniche, dall’11 gennaio, si svolge presso la Nuovo Auditorium di Scandicci, nato da un’idea di Raffaele Palumbo, giornalista di controradio. Domenica 25 gennaio è toccato al professore di Estetica ed ex assessore di Firenze, Sergio Givone, presentare il suo libro della vita. La scelta del professore è caduta sullo straordinario romanzo breve di Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Ma, tende a sottolineare Givone, più che il suo libro della vita, è il libro della vita dell’autore stesso. Dostoevskij, continua il professore, è lo scrittore che forse più di chiunque altro è in grado di farci capire chi siamo, nonostante ci separino circa due secoli tra lui e noi che lo leggiamo, e che ogni volta riscopriamo la nostra più profonda essenza di esseri umani. Nel 2001, dopo i terribili fatti di New York, lo scrittore francese Gluksmann, nel suo Dostoevskij a Manhattan elaborò la tesi secondo cui per poter comprendere i fatti e le dietrologie degli attentati al World Trade Center occorreva leggere il geniale autore russo.
Ma arriviamo al libro. Memorie dal sottosuolo esce nel 1864. Dostoevskij era già famoso. Aveva dedicato diversi suoi lavori agli ultimi della società, ai disgraziati, gli umiliati, i disperati, ma a un certo punto cominciò a guardare ai suoi stessi scritti con un certo sospetto. La grandezza di quei romanzi era soprattutto riconosciuta soprattutto per la capacità dell’autore di scandagliare e parlare degli ultimi, dei relitti della società, dei “miserabili”, capendo la loro disperazione, che spesso è irriducibile, senza speranza di riscatto o di salvezza. Dostoevskij, a differenza degli scrittori progressisti, idealisti, della sua epoca, aveva saputo dare voce a questa disperazione. Eppure, lo scrittore non era soddisfatto. Si era chiesto che cosa significasse guardare alle ingiustizie, alla miseria, alla sofferenza, al male, questo motore nero che muove e agita il mondo in ogni suo più recondito angolo, e la sua risposta era che questo gettare il proprio sguardo sul male e il dolore significava porsi dal punto di vista di chi non guarda solo a sé stesso, ma di chi si compiace nel guardare alla sofferenza che dilaga nel mondo. Costui è “l’anima bella”, colui che è consapevole del male presente nel mondo ma che è spinto a guardarlo, ad osservarlo con compiacimento. Sa versare lacrime su questo male, sa commuoversi, ma nello stesso tempo mantiene bene in mente sé stesso. Da ciò nasce il sospetto di Dostoevskij, che avverte che in questo atteggiamento, qualcosa non torna, non funziona. L’anima bella deve essere smascherata. È troppo facile darsi ai buoni sentimenti. Ed ecco che allora, scusatemi il gioco di parole, “emerge” l’uomo del sottosuolo, l’unico che osa porre questa domanda: “chi siamo veramente noi?”. Il protagonista del romanzo breve dostoevskiano, quest’uomo del sottosuolo, se la pone perché è malato, perché è incapace di uscire dalla sua coscienza ipertrofica, dal circolo vizioso del proprio eterno rimuginare, dal suo sottosuolo fisico e della propria anima.
Nelle prime pagine della prefazione si legge che Dostoevskij ha voluto parlare di un uomo del suo tempo, che però non appartenesse a quella corrente di romantici, idealisti, ma che muovesse un sospetto profondo verso tutto, anche verso questi fermenti entusiastici e romanticheggianti. Questi uomini del sottosuolo sono studenti squattrinati, sradicati venuti dalla campagna che abitano proprio in reali e concreti sottosuoli: retrobotteghe, scantinati. Il titolo russo, che forse noi facciamo slittare su un piano più metaforico, contiene invece la materialità e la concretezza dei termini implicati, i quali, prima di avere il significato traslato e allegorico o simbolico che gli diamo noi, sono parole comuni, quasi brutalmente realistiche.
Il termine che noi traduciamo con memorie, nel linguaggio russo sta proprio ad indicare una specie di listino della spesa, una serie di appunti che scriviamo su un foglietto e lo stesso sottosuolo, prima di essere quel sottosuolo della propria coscienza, l’abisso del proprio animo, il buco entro cui sprofondiamo, il pozzo dello spirito in cui soccombiamo, è banalmente ciò che sta sotto il livello della strada, dunque uno scantinato, uno sgabuzzino, un retrobottega, luoghi in cui appunto vivevano questi giovani studenti senza quattrini, o impiegati di infimo livello, o dei poveri disgraziati. Certo, poi in questo sottosuolo questi individui trovano la loro anima, che è un’anima malata, ferita, ossessionata da pensieri incontrollabili, un’anima perduta che non si dà possibilità di uscire dal suo vizioso arrovellamento. Il fondo più fondo della tua anima, sembra ammonirci Dostoevskij, è uno scantinato, un retrobottega, un tugurio scavato sotto terra, un sottosuolo appunto, ed è qui che si agitano quei pensieri equivoci che frullano in testa senza darci pace, ma solo se farai i conti con te stesso e accetti la verità di essere ciò che sei, riuscirai a far piazza pulita di tutte quelle illusioni, quei sogni che ti tengono prigioniero, col rischio però, attenzione, di finire in una prigione ancor più soffocante e miserevole. Allora meglio lasciarsi abitare da questo turbinio di pensieri, da questo continuo e inesausto rimuginio che morde l’anima fin quasi a divorarla, da questa ipertrofia della coscienza, da questa sua ulteriorità, eccessività, che la porta a mettere tutto in discussione, a mettere in dubbio e in scacco la sicurezza un po’ipocrita della bella coscienza, colei che guardando al male si sente comunque già da sempre salvata, o pensa che lo sarà proprio perché non ha paura di guardare quel male e in qualche modo crede di sfidarlo soltanto perché osa porre i propri occhi innocenti su di esso. Questo sguardo che sì può essere commosso, compassionevole, lacrimoso ,magari addirittura empatico, non è la verità di noi stessi, questo sguardo (ci)inganna. Non siamo noi questo sguardo salvifico che non ci salverà né noi né tantomeno il mondo dal male. La verità di noi stessi è il sottosuolo, è questa “danza macabra” di pensieri che non toccano le altezze vertiginose, gli spazi paradisiaci, gli abissi e le elevatezze sublimi che albergano nella coscienza romantica. Questi pensieri sono bassi, sgradevoli, infimi come il sottosuolo in cui li scopriamo e il sottosuolo della nostra anima in cui abitano. Questa è la grandezza di Dostoevskij, il quale, in questo romanzo breve, sa mettere in scena un protagonista anonimo, un signor nessuno che non ha neanche un nome. Vive nel sottosuolo appunto, fa i dispetti a coloro che vengono a fare dei certificati, a prendere atto. Quest’uomo sa di essere abitato da pensieri che vengono al di fuori di lui e che lui controlla e riconosce fino a un certo punto, di cui si sente il proprietario fino a un certo punto.
In russo, di nuovo per sottolineare, prosegue Givone, quanto il linguaggio stesso sia evocativo e prezioso, ci sono due modi per dire la coscienza, il pensare, il riflettere. Riflettere – alla base della coscienza – il capire – l’oggetto della coscienza – o il pensare – senza il quale né coscienza, né riflessione, né pensiero stesso avrebbero senso – si può dire con l’espressione che in italiano tradurremmo con “io penso”, “io rifletto”, “io capisco”. L’occidente ha costruito tutto il suo pensiero sull’io penso, sul cartesiano cogito ergo sum. Tutta la filosofia occidentale fa cadere l’accento infatti sul soggetto, su quell’io, su quell’ego che sa dominare gli oggetti della sua coscienza, e se ne appropria, li fa suoi, è ciò che li fa scaturire, ciò che li partorisce. Il soggetto è il fulcro, il padrone, soggetto capace di dubitare su tutto, un dubbio globale,radicale che si estende a tal punto da far entrare nelle sue maglie il proprio corpo e i propri sensi, fino a metter sotto scacco persino il mondo in il soggetto stesso vive (o almeno, gli sembra di vivere) ma che forse è solo una sua costruzione, una sua immagine, o un’illusione, un’apparenza ingannevole tessuta da qualche genio maligno. Soggetto, insomma, capace di dubitare su tutto, tranne che di sé stesso. Anzi, più il dubbio si dipana fino a inghiottire tutto, più il soggetto mantiene la ferrea certezza di esserci, di esistere. Più il soggetto dubita, più è certo di essere. Cogito ergo sum, per l’appunto. Dubito e dunque sono. Questa è la forma personale della riflessione e del pensiero e il soggetto, l’io, rimane la roccaforte, la fortezza indistruttibile, il fondamento, ciò che già da sempre in salvo. Ebbene, il linguaggio russo, come accennato prima, ha anch’esso questa forma personale (io penso – Ya dumayu – io capisco ecc..) ma più spesso preferisce usare, in riferimento alla coscienza e ai propri oggetti, la forma impersonale del pensiero: “ presso di me qualcuno pensa” (“kto-to dumayet so mnoy”) Questa sarebbe più o meno la traduzione italiana delle espressioni russe. E quel presso di me, a guardarlo bene, diventa una specie di abisso angoscioso, in cui quell’io che sembrava così solido e forte finisce per sprofondare e soccombere. Quell’estraneità del presso di me qualcuno pensa, quell’altro che è in me che pensa qualcosa al posto mio è paralizzante, terrificante. Io non sono più il padrone dei pensieri che penso, c’è qualcos’altro che mi costringe in qualche modo a pensare quei pensieri che entrano in me, ma da fuori, da un oltre sconosciuto. Entrano da una porta ignota e una volta entrati ci sono, non ci posso fare nulla, mi assalgono e io ne sono preda, non padrone, non roccaforte inespugnabile. È un po’l’idea, contenuta nella nostra espressione “mi è saltato in mente”, qualcosa quindi che si controlla fino a un certo punto. Mi è balzato alla testa. Solo che nella lingua russa è proprio il linguaggio stesso a smascherare questo senso di estraneità e ulteriorità che non riusciamo bene a padroneggiare, è il linguaggio stesso che possiede la forma impersonale del verbo per darci questo senso di essere abitati, di essere invasi, quasi posseduti o piuttosto aggrediti, assediati, anche in maniera ossessiva, da pensieri che provengono da un infinito che ci trascende. E noi, che rimuginiamo, noi, che come unico scopo abbiamo quello di vendicarci del mondo, siamo assediati da questi pensieri che si appropriano di noi, che ci invadono da fuori, che ci “colonizzano”, senza che neanche sappiamo perché. Il protagonista del romanzo dostoevskiano, quest’uomo che vive nel retrobottega è lì che viene assediato, assalito da questi pensieri oscuri, bassi; è lì che fa i conti con sé stesso e la prima cosa che scopre è che è pronto a riconosce il male e l’ingiustizia, ma questo suo riconoscerli serve solo a dar benzina, ad alimentare il suo risentimento, il suo bisogno di vendicarsi del mondo, che anima ogni sua azione (bisogno che si esplica appunto anche in quei dispetti che fa contro coloro che vengono ad accertarsi, a certificare).
Quest’uomo viene trattato come un insetto, come un niente. “Ma allora, si dice, “anche io sono in grado si trattare voi come foste tutti degli insetti.” Tale proposito però non riesce, anzi, viene ancora più umiliato, schiacciato e allora si inventa un progetto ancor più grandioso: presenta sé stesso agli altri come fosse un insetto, si dà agli altri come se fosse niente. Ma nello stesso tempo gli viene un altro pensiero che solo apparentemente può sembrare opposto al precedente: gli altri vogliono che io sia un insetto e allora io vorrò che loro siano ai miei occhi ciò che vogliono che io sia, un insetto. Giochiamolo fino in fondo questo gioco dell’insetto”. Ma giocarlo fino in fondo significa usare gli altri, disporre degli altri e piegarli al proprio scopo. Mirabile, paradossale, inquietante rovesciamento: dalle nefandezze infime, dalla degradazione umiliante dell’essere umano fino all’innalzamento al superuomo. Infatti l’idea di poter usare gli altri e disporre di essi a proprio piacimento è propria di superuomini. Similmente accade in un altro capolavoro dostoevskiano, Delitto e castigo: anche qui c’è l’idea dell’insetto. C’è una vecchia usuraia, meschina, sanguisuga, che fa solo del male. Nulla impedisce a Raskolnikov, protagonista del romanzo e anche costui, vero uomo del sottosuolo – vive rimuginando in una stanzuccia cieca di uno scantinato, in cui l’unica luce, debole e fioca che penetra, è quella che proviene da un’altra stanza – di pensare di poter sopprimere questo disgustoso insetto (l’usuraia) e con i suoi soldi compiere una buona azione, come ad esempio costruire un orfanotrofio. Schiacciare il male per fare del bene. Eliminare un insetto, qualcuno di così infimo e insignificante e compiere qualcosa di buono. È un pensiero che risulta vincente in una logica dell’interesse, in un’etica utilitaristica; e allora perché questa logica utilitaristica non dovrebbe giustificare la soppressione di un insetto per costruire un pezzettino un po’migliore di mondo? Logica del superuomo, che nasce dall’idea di ridurre l’altro a niente. A zero. E il luogo di nascita di questa idea è il sottosuolo dell’anima, in cui si macera, in cui si arrovella , in cui rigira impietosamente su sé stessa, rimuginando ossessivamente.
I romanzi di Dostoevskij sono tutti costruiti su idee nate nel sottosuolo, ma quelle idee miserabili, ripugnanti, che a sentirle e a pensarle ci fanno così orrore, si rivelano poi le stesse idee che hanno insanguinato i decenni a venire. Che altro anima le idee del nazismo, del fascismo, dei totalitarismi se non la nullificazione dell’altro, che viene annullato, ridotto a insetto, nientificato, annientato? Proprio come Raskolnikov, vero uomo del sottosuolo, che immagina sé stesso come il superuomo nietzschiano, il quale a sua volta nasce anch’esso dall’idea di ridurre l’altro a niente, a insetto. Quella putrefazione che germina nel sottosuolo partorisce quelle idee che troviamo nella nostra realtà. L’uomo nazista ad esempio: il suo presupposto è la denigrazione, l’esecrazione, la possibilità di considerare l’altro come un niente, un insetto da schiacciare, da eliminare. Raskolnikov dice di non vedere dove possa stare l’errore nel suo pensiero: quella donna, l’usuraia, è un insetto, da solo del male agli altri, succhia loro il sangue e dunque lui è legittimato a sopprimerla e far qualcosa di migliore. L’uomo del sottosuolo considera la sua idea logicamente incontrovertibile, eppure, tuttavia, rimane un’idea ripugnante, che fa orrore. Questa idea,dice Raskolnikov, non solo mi è venuta in mente ma addirittura mi è parsa così inconfutabile da prendere un’ascia, andare dalla vecchia e fare quello che ho pensato nel sottosuolo. Quelle idee ripugnanti vengono in mente e dimostrano una resistenza straordinaria. Si pensi anche all’insetto del capolavoro kafkiano, la metamorfosi: una mattina Gregor Samsa si svegliò e si accorse di esser diventato un insetto. L’uomo può scoprire di ridursi o esser ridotto dagli altri un insetto. Gregor si scopre insetto e quando i parenti se ne accorgono lo trovano perfettamente normale. Questo è lo “scandalo dello scandaloso”: ciò che dovrebbe destare orrore, ciò che appunto dovrebbe fare scandalo, viene accettato come normale. Scandalo dell’ (a)normalità! La vicenda di Gregor Samsa è quasi l’anticipata allegoria di quegli eventi che di lì a poco dall’uscita de La metamorfosi – 1915 – hanno insanguinato il novecento, quando dei “superuomini” hanno tentato di ridurre buona parte dell’umanità a insetti, da rinchiudere nei campi di concentramento o far sparire nei forni crematori. Tu sei ebreo, dunque sei un insetto; tu sei zingaro, omosessuale, dunque un insetto. E il resto dell’umanità, come nel racconto kafkiano, trovava ciò normale: “certo che sei un insetto, cosa credevi di fare?”.
Questo accade anche nei romanzi successivi di Dostoevskij, accade nei romanzi di Kafka. Accade nella realtà, questo considerare normale qualcosa che è assolutamente scandaloso,ovvero che coloro che riteniamo insetti vengano trattati come tali, così come è normale che i superuomini agiscano da superuomini, con la loro logica ferrea, che verrà espressa prima in Dostoevskij, e poi in Nietzsche, grande lettore del romanziere russo, tanto da considerarlo suo fratello (“quest’uomo ha già capito quello che credevo di aver scoperto io per primo”).
Insomma, queste idee basse, che bene o male a ciascuno possono venire in mente, accompagnate da un moto di stupore, di sbalordimento – come ha potuto venirmi in mente un’idea cos’ ripugnante!” – fanno tutti noi uomini e donne del sottosuolo. E quel senso di ripugnanza, di rigetto, di turbamento lancinante che proviamo verso noi stessi, quando siamo assaliti da questi pensieri, da certe idee equivoche e oscure, inquietanti che però non possiamo fare a meno di pensare apre le porte all’orrore, al niente al cui fondo c’è qualcosa di orroroso, di terrificante che scuote e annienta. Kurtz, indimenticabile protagonista del meraviglioso Cuore di tenebra di Joseph Conrad e poi del capolavoro di Francis Ford Coppola, Apocalypse now, esploratore del sottosuolo, superuomo che aveva scavato nelle tenebre, negli abissi scuri della foresta inestricabile dell’Africa nera, che aveva risalito la corrente del fiume, per cercare la vera essenza della natura umana che la civiltà aveva sepolto e oscurato e che cosa trova? Questo trova: Orrore. Orrore. Orrore. Parole che oltre a chiudere il bellissimo e angosciante romanzo conradiano concludono anche le ultime pagine di Memorie dal sottosuolo. Ma qui l’idea dell’orrore, che sembra esser la parola definitiva, viene contrastata da un’altra idea. Non è l’orrore la parola finale, conclusiva. Dentro di essa ci trovo qualcos’altro. E questo qualcosa di altro è la parola più semplice e più miracolosa al mondo, la sola degna di essere detta. Questa parola è amore. Ma non l’amore inteso nel senso di amore universale o come realtà metafisica, ma proprio nel senso di innamorarsi di qualcuno, di una persona. Dentro l’orrore, dopo aver smascherato l’uomo, c’è qualcos’altro; per quanto orrendo sia il sottosuolo, per quanto senza fondo sia questa coscienza ipertrofica, c’è comunque la possibilità d’innamorarsi. E questo è un fatto. Accade. Succede che nonostante tutto, ci si innamori. E l’uomo del sottosuolo, lì nel suo stambugio, solo, arrovellato, malato, incontra una giovane prostituta e se ne innamora. Non perché abbia dimenticato l’orrore, il sottosuolo, ma anzi, proprio nel cuore della sua coscienza, proprio dall’eccesso di quella coscienza trova la consapevolezza che quella donna possa esser per lui la sua amata, così come lui, misero insetto, possa esser amato da lei, che infatti ricambia. Qui il romanzo riesca e creare l’impossibile. Porta il suo protagonista sulla soglia da cui tutto potrebbe mutare, per cui potrebbe salvarsi. Basta che dica sì a questo amore, alla bellezza, alla vita. Ma il sottosuolo la vince, proponendogli l’immagine laccata e sentimentale che riduce l’amore a un patinato e romantico quadretto familiare. E questa immagine bella, questa bellezza, alla sua coscienza ipertrofica, eccessiva, incapace di dire sì alle cose buone e belle, lo porta a dire no a tutto questo,a risoccombere alle tenebre, a ripiombare l’anima nel sottosuolo da cui, per un breve barlume, era emersa, affiorando in superficie. L’uomo ricaccia la donna amata, così come ricaccia sé stesso nel proprio sottosuolo. Questo però, sembra dirci Dostoevskij, è solo uno dei possibili esiti. Alla radice c’è la meravigliosa possibilità. La possibilità di soccombere ma anche di salvarsi. Sulla soglia siamo in questo sublime e terribilmente fragile e precario equilibrio, su questa vertiginosa e alternativa tra la vita e la morte, in questa sorta di libo si affaccia la porta del paradiso o dell’inferno, e siamo noi a fare la nostra scelta, siamo noi funamboli che avanzano sul filo sospeso tra la dannazione e la salvezza, da esso si può sprofondare di nuovo nel sottosuolo ma anche innalzarsi all’amore. Tra il sì e il no. Alla radice c’è questo sempre poter essere altro da ciò che si è e il sì, a volte, sebbene non nel caso del nostro uomo del sottosuolo, può anche prevalere sul no. Se prevale l’autodistruzione, il proprio annichilimento, la propria auto sommersione, questo non è una prova contro la possibilità alternativa e il romanzo dostoevskiano ha la capacità di portare il lettore non nel sottosuolo, bensì su quella soglia dove è possibile dannarsi, ma anche salvarsi, dire no ma anche dire sì, disperarsi o amare.
Per concludere il suo intenso, profondo intervento, che apre larghi spazi alla riflessione sul nostro essere e sulla nostra realtà, Givone cita una bella poesia di Jorge Luis Borges, che perfettamente esprime questa possibilità di essere altro da ciò che siamo, perché non siamo destino immutabile ma possibilità sempre aperta, non siamo granitica certezza ma scelta infinita. Lo sprofondamento nelle paludi dell’anima, in queste viscose sabbie mobili della nostra coscienza, racchiude il suo segreto più alto e sublime, la verità più importante: che tutto può essere altrimenti da come era. Il soccombere al nulla non è l’unica possibilità. E da quel nulla si può risalire, dentro il suo stesso cuore può spalancarsi la dolce e almeno un po’ consolante verità che niente è stato scritto per sempre e che io posso scegliere di essere o diventare altro dall’uomo del sottosuolo che sono. Perché sempre, in ogni momento della tua vita, “todo puede ser”, tutto può essere.