Mercoledì, 18 Febbraio 2015 00:00

Eros, Agape e Philia: dio e amore

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“Un’impazienza d’ali, dentro di me, improvvisa. / È l’impulso del volo, se non ancora / La direzione del volo. Qualcosa / Mi ha chiamata, qualcosa in me risponde. / Io che rispondo sono sconosciuta / A me stessa come la voce che mi chiama”
Cristina Campo

Proprio nel giorno dedicato agli innamorati si conclude il ciclo di incontri filosofico-spirituali organizzato dall’Istituto Stensen, che hanno per tema l’amore. O meglio le sue tre coordinate: eros philia agape.

“C’è molto bisogno di interculturalità e interreligiosità”, esordisce il direttore della fondazione, Ennio Brovedani, e, continua, “è proprio l’intento delle iniziative dello Stensen seguire questi due parametri, cercando di portare fuori quella cultura, che, citando Bernard Shaw è “la conoscenza acquisita quando si è dimenticato tutto”. Per conoscere bisogna fare piazza pulita di certi bagagli troppo pesanti che ci portiamo dentro, gonfiati di preconcetti, pregiudizi, luoghi comuni, nozionismi, saccenteria spesso vuota di cui fare mero sfoggio e in qualche modo ripartire da zero, farsi ricettacolo aperto ad accogliere i barlumi di una conoscenza nuova, da approfondire, da scandagliare, diventare un po’ più vergini per sperare di trovare gli strumenti necessari a una riflessione che sia profonda e incisiva, riuscendo a coniugare tematiche che potrebbero apparire remote o vetuste con la nostra attualità, con quel periodo di transizione che stiamo vivendo, quel nostro essere, prendendo in prestito una metafora di Ernst Bloch “ai piedi del faro”. E ai piedi del faro non c’è luce. Per questo c’è bisogno di “illuminare e illuminarci”, anche attraverso questi incontri.
Terminata la presentazione, Brovedani lascia la parola agli illustri relatori, Federico Squarcini, professore e studioso di storia delle religioni e di lingua e letteratura sanscrita all’Università degli Studi di Ca’Foscari, e Armido Rizzi, eminente teologo e filosofo.

Squarcini si sofferma su quelle (apparentemente) banali articolazioni lessicali – quali possono essere i semplici articoli – che hanno la forza di mostrare delle significative variazioni attorno all’incognita, la x che è stata protagonista di questo ciclo, il territorio dell’amore e le sue coordinate. Ed è un terreno talmente scivoloso, questo, che spesso il retaggio delle parole sembra insufficiente per poterne parlare. Un nome come amore, sembra autonomo di per sé, ma nel nostro parlare comune facciamo affidamento a quegli articoli che lo precedono, sebbene molte volte finiamo di cadere nella tautologia imbarazzante e lapalissiana che semplicemente si limita a spiegare che l’amore è l’amore. Tautologia che ci serve per nasconderci un po’ dietro un cerino, per evitare di ammettere che in realtà non sappiamo cosa sia esattamente l’amore. Un po’, aggiungerei io, come Agostino quando provava a interrogarsi sul tempo: “io so cos’è il tempo ma quando me lo chiedono non so spiegarlo”. il professore, sempre puntando il dito sull’importanza degli articoli, arriva dunque al tema centrale (nonché titolo) della sua esposizione: l’amore di Dio e il Dio dell’amore, o meglio, il passaggio dall’uno all’altro. Per arrivare a questo delicato passaggio occorre fare un salto nel tempo e nello spazio e prendere in esame le fonti, che offrono un patrimonio testuale tanto cospicuo da far comprendere, come fin dagli inizi della sua storia, l’uomo sia stato e continui ad essere sempre all’affannosa ricerca di Dio. Una delle domande forse più viscerali e lancinanti, quasi tragiche, oserei dire, che l’essere umano si pone di fronte a ciò che chiama Dio è: “Ma Dio (dando per assodato, in tal caso, che c’è) mi ama?” e questa domanda non ricorre solo nel testo biblico, ma anche in altre tradizioni religiose sedimentate nel tempo. Ciò che emerge da questo interrogarsi sull’amore di Dio per me, dove io vorrei essere oggetto del suo amore, e non tanto il contrario, è una disposizione dell’animo, ma non solo, una disposizione anche fisica, del corpo, che in qualche modo sembra sottomettersi, ripiegarsi in sé stesso di fronte a qualcosa che ci scava nell’intimo di noi stessi ma a cui non possiamo che affidarci senza certezza definitiva, senza risposta veramente dichiarata. Io mi affido o mi fido del tuo silenzio, non posso che affidarmi a una risposta che non ho e solo attraverso questa fede senza evidenza alcuna posso credere che tu mi ami. Mi viene un po’in mente il bellissimo saggio di Jean Luc Nancy, Noli me tangere, “la fede si lascia indirizzare dall’altro un appello sconcertante, rivolto a un ascolto che io stesso non conosco (…) L’amore e la verità toccano respingendo: fanno arretrare colei o colui che colpiscono perché questo stesso contatto rivelano che sono fuori portata. È con l’essere inattingibili che ci toccano e ci feriscono. Ciò che ci avvicina è il loro allontanarsi: ce lo fanno sentire, e questo sentimento è appunto il loro senso. (…) Bisogna trattenersi nel luogo dell’impossibile, senza renderlo possibile, senza convertire la sua necessità in una risorsa speculativa o mistica”. Questo luogo dell’impossibile e pur necessario, inattingibile eppure infinitamente cercato è l’amore che Dio nutre per me, amore che è un appello sconcertante, perché privo di vera voce. “chi ha orecchie per intendere inteda”, è vero, ma a volte non basta per sopprimere quel bisogno abissale e inesausto di sapere se Dio mi ami davvero. E tale disposizione d’animo della ricerca di questo amore è totalmente diversa, continua Squarcini, dall’atteggiamento di colui che si pone nello stato d’animo di conquistare Dio, sottoponendolo a una meccanica, una dinamica rituale. In questo caso il preoccuparsi del fatto che Dio mi ami o meno è irrilevante, perché è sufficiente la tecnica rituale per “ottenere” Dio. Rispettando la credenza del rituale ottengo quei risultati che mi aspetto e quindi non ho bisogno di chiedere a Dio se mi ami.

Si passa poi all’altro versante del titolo: Il Dio dell’amore. E non si deve intendere, prosegue il relatore, il Cupido biondo e riccioluto, munito di arco e frecce così ben raffigurato nelle rappresentazioni pittoriche e letterarie di fine ‘700 soprattutto. Qui piuttosto, il Dio dell’amore è colui che viene evocato continuamente da ogni cibernauta moderno, da tutti coloro che si mettono su una strada e sperano di essere investiti, travolti, tramortiti dall’amore, quell’evento, squisitamente traumatico, dolcemente o crudelmente catastrofico (Katastrophé in greco significa “capovolgimento”, qualcosa dunque capace di sovvertire o addirittura ribaltare l’ordinario corso degli eventi) che potenzia e aumenta il sapore del nostro vivere quotidiano. Sono dunque due disposizioni dell’animo molto diverse quelle implicate dall’amore di Dio e dal Dio dell’amore, tuttavia entrambe condividono alla base la stessa struttura di fragilità, comune terreno in cui si radicano, stesso sfondo su cui si

stagliano.
Certo, il Dio dell’amore è ormai oggi lo “yogurt Muller”, la pubblicità che è diventata la cifra della nostra disposizione d’animo, perché ci ricorda cosa dobbiamo fare (“fate l’amore con il sapore”), che ci sta dicendo appunto di fare l’amore con un artificio, un eccipiente che di per sé il prodotto sponsorizzato non avrebbe. Il suo sapore è dato solo dal nostro dover fare l’amore con esso. Alla base c’è il fatto che quel Dio dell’amore è il Dio dell’amore per sé. È cioè qualcosa che non posso generare autonomamente, da me. In tal senso la fragilità propria della prima disposizione d’animo (l’interrogarsi quasi sottomesso sull’amore di Dio di cui ho bisogno perché mi sento fragile e perduto senza quell’amore) si proietta anche sulla seconda, che apparentemente sembra più sapvalda e “arrogante”. Questa fragilità si rispecchia anche nella casualità di quell’essere trafitti dall’amore, evocata dall’immagine del Cupido che prima accennavamo: quel dio dell’amore scaglia le sue saette a totale suo piacimento ed è la sorte a far sì che da esse siamo colpiti e feriti o meno. Di fronte alla causalità di amore siamo inermi, impotenti, fragili appunto. Proprio come lo siamo quando ci si inginocchia chiedendo a Dio se ci ama. La differenza è che in questo caso, protagonista è il ricercante, nell’altro il ricercato ma il comune sentimento di fragilità deriva dalla stessa indispobnibilità di quell’amore. Indisponibilità che è data dal fatto che io non mi basto, che devo compiere un salto che da solo non potrò mai compiere, perché devo entrare in un diverso status che ospiti l’altro. Quel salto implica che ci sia un altro, che sia Dio o una persona

E la fragilità è insita nella stessa parola amore, a meno che non sia camuffata da una sorta di strategia scientifica come quella portata avanti dalla trovata dei Baci Perugina: si fa credere che prima o poi nelle cartine dei cioccolatini ci sarà la risposta esatta e definitiva alla domanda su cosa sia l’amore. L’amore è puntini puntini, e intanto scartiamo cioccaltino dopo cioccolatino sperando di trovare finalmente quella risposta, quel bigliettino che ci dica, chiaro e tondo “l’amore è questa cosa qui”. Ma finiamo soltanto di riempirci di begli aforismi e parafrasi che girano intorno alla parola amore senza trovare la sua definizione precisa, o nel peggiore dei caso di aumentare semplicemente il colesterolo! Eppure, continuiamo a scartare avidamente quelle cartine, perché abbiamo bisogno di sapere che cosa sia questa fragile parola chiamata amore. Dietro questo profano esempio della strategia aziendale della Perugina si nasconde proprio quel concetto di indisponibilità dell’oggetto ricercato e nello stesso tempo della sua inesauribilità che ci spinge a non smettere di cercarlo, di bramarlo. Detta in termini più colti, è la stessa logica che si ritrova in due termini che trovò il filosofo, psicologo e antropologo Claude Lévi Strauss e che scrisse nell’importante prefazione a un libro dell’amico Marcel Mauss, per descrivere la parola in generale che è “significante fluttuante”. Siamo negli anni ’50, perciò ancora lontani dalla svolta linguistica di fine anni ’60, ma già lo strutturalista Lévi Strauss aveva intuito che sono proprio le parole più diffuse e incestate nel nostro parlar comune, tra le quali anche o soprattutto amore, le più imputabili di sospetto, in quanto nascondo dei significati fluttuanti, inafferrabili, sfuggenti, fluidi. Per questo nei baci Parugina non troveremo mai l’agognato bigliettino che catturi l’amore in quanto tale, delucidandolo in una definitiva frase esplicativa e chiarificante una volta per tutte.

Operando un altro arretramento storico-culturale Squarcini va a “scomodare” Gunther Anders, che negli anni ’50 scrisse “L’uomo antiquato” e “Amare ieri. Annotazioni sulla storia della sensibilità”, in cui si poneva la questione se l’amore (di cui indicava l’imprescindibile legame con la sensibilità appunto) non conosca né tempo né spazio perché è sempre lui. Ma è proprio vero che è sempre lui? È vero che ha/avrebbe una carta d’indentità?
Facendo un salto nel tempo il professore cita un saggio del 2013 di Frédéric Lordon, “La società degli affetti”, che fornisce uno spaccato contemporaneo sull’uso politico ed economico delle passioni: si va a calcare la mano su di esse per avere effetti politici o profitti economici, attraverso forme come la seduzione, l’adescamento, la caapcità di ammaliare, come insegnano le sirene di Ulisse, il cui canto rapisce, obnublilia i sensi. Oggi, scrive Lordon non sarà più quel canto ad adescarci ma esistono simili tecniche dell’amore che producono lo stesso effetto di irretimento.
Altro retroscena e ulteriore salto – stavolta all’indietro – nel tempo: un sonetto di William Shakespeare. Nel sonetto 116 il commediografo, poeta, drammaturgo inlgese nato nel 1564, dà una sua categorica significazione di amore.

Non sarà che all’unione di animi costanti io ponga impedimenti. Non è amore quell’amore che muta quando scopra mutamenti”. Quindi l’amore è, sembra dire Shakespeare, quello che non muta quando scopre mutamenti (per i quali si intendono non soltanto i mutamenti delicati del cangiare del color del viso, il rossore delle guance, il respiro smorzato ecc..ma anche i possibili tradimenti, il termine ha significato materiale e concreto). “Ottende a ritirarsi se l’altro si ritira”: gioco dell’andarsi incontro e del fuggir poi via se non è corrisposto, che denota una differenza antropologica con noi, che molto spesso facciamo nostro il proverbio che in amor vince chi fugge. “Esso è un faro per sempre fisso, che guarda alla tempesta e non rimane scocco. È la stella polare per ogni nave errante (…) Amore non è lo zimbello del tempo, anche se rosee labbra e guance cadono nel compasso della sua lama ricurva. L’amore non muta in poche ore o settimane, ma impavido resiste al giorno estremo del Giudizio. Se questo è errore, e mi sia provato, io non ho mai scritto e nessuno ha mai amato”. Tranchant il finale. Il poeta sarebbe pronto a rinnegare quanto scritto se qualcuno gli provasse di essersi sbagliato, ma allora significherebbe che nessun uomo al mondo avrebbe mai amato, per lo meno in quel senso di amore perfetto, costante e inamovibile descritto d a lui. E non c’è altro modo d’amare che non sia questo, sembra ammonirci Shakespeare. Abissale è la distanza antropologica (Sloerdijk avrebbe parlato di antropotecniche, nel senso che c’è una storia di mutamenti di forme, strutture linguistiche, mentali, sociali, culturali, economiche, scientifiche, tecniche ecc..che ci fa diventare quello che siamo) che ci separa dalla sua visione di amore, così ideale, ferma, solida, pienamente corrisposta. L’amore per noi è incostante, irrequieto, ballerino. Non occorre neanche immaginarlo in preda a una tempesta, dato che molte volte basta un alito di vento a fargli cambiare direzione o intensità. La diamentrale distanza antopotecnica è prima di tutto linguistica. Si pensi al fenomeno del narcisismo. Ai suoi esordi la parola era connotata in maniera drasticamente negativa. Il narcisismo era considerato deprorevole, peccaminoso, una cosa tremenda, mentre in circa duecento anni di storia siamo arrivati oggi agli antipodi di quella connotazione, tanto che ora il narcisismo è elevato a culto sociale. “fatti un regalo”, “tutto gira intorno a te”, recitano alcuni dei più noti sponsor pubblicitari. Tutto è in funzione dell’io, io che si erge a divinità cui tutto è permesso, cui tutto deve essere retribuito, regalato, remunerato; io che arriva persino all’auto-perdono (o giocando con i termini, essendo in ambito di slogan pubblicitari all’auto-per- dono!). Il narcisismo è diventato il motore che fa girare il mondo, la base portante del sistema – meglio, profitto – econocmico. Cambiano gli indicatori semantici di una parola e di conseguenza la mentalità e la socialità della collettività dei parlanti. Per questo è importante indagare il fattore storico, che ci permette di comprendere attraverso la storia della variazione o addirittura del ribaltamento semantico l’annessa mutazione della comunità dei parlanti. Comunque, tornando un attimo al sonetto 116, nonostante la perentorietà della definizione di amore ideale tratteggiata dallo scrittore inglese, anche nelle sue parole traspare un indizio della fragilià e difficoltà di presa e cattura del termine amore, che è infatti declinato quasi sempre, anche nel sonetto preso in considerazione, in forma negativa. L’amore non è questo e non è quello. Lo si definisce per negazione. Indizio dunque di quell’irraggiungibilità della piena dispiegazione e afferrabilità del linguaggio che fluttua da ogni poro senza lasciarsi facilmente ingabbiare, di cui parlava Lévi Strauss.

Avviandosi alla conclusione, continuando questo viaggio spazio-temporale sulla traiettoria dell’amore, Squarcini cita un’intervista alla scrittrice Elena Ferrante (pseudonimo di una scrittrice che non ha mai rivelato la sua vera identità), comparsa sul Corriere della sera, durante l’uscita del libro “Amica geniale”. Il giornalista chiede: “l’amore nei suoi scritti è spesso molesto, traumatico e alla fine ricco di delusioni. Sembra proprio (significante fluttuante!) un sentimento da cui siamo governati – si spera che Cupido ci infilzi, ci trafigga il cuore con le sue frecce ma poi non vogliamo sentirci dominati, posseduti, resi impotenti e schiavi di questa ferita chiamata amore – ma che poco riusciamo a governare.
“Sì, credo di sì” risponde la Ferrante e continua, dicendo più o meno così: “direi che una storia d’amore è sempre una storia di un disquilibrio. Ma non solo una volta che è finito. Non c’è equilibrio che si possa rompere perché nell’amore non c’è mai un equilibrio. In realtà sia le gioie che le pene di ogni amore muovono da uno stato di eccezione in cui l’uomo dà il meglio e il peggio di sé perché la norma è un equilibrio che viene frantumata subito al primo irrompe dell’eccezionalità, dell’ “anormalità” dell’amore. Tutti i discorsi sull’amore, così come mille anni di psicanalisi sono tentativi di acquietare eros, sforzi di riequilibrare il suo connaturato e insito squilibrio, ma tentativi inconcludenti, perché eros o è molesto o non è“.
Altro salto. I vangeli. In 12, 28, 34 , che Marco chiama “Il comandamento più grande”, si legge: “[In quel tempo], si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo”. È un sistema di doppio vincolo che rende solido quello che è un significante fluttuante. Quell’amerai così imperativo sembra addomesticare l’irrequietezza molesta dell’amore. Ma, conclude Squarcini, lo spiachiatra Ronald Laing scrisse che c’è un punto in comune tra i cosiddetti sani o normali e i suoi malati psichiatrici. Entrambi chiedono “amami”, imperativamente. Il confine tra la normalità e l’anormalità sembra proprio inciso in questa indisponibile, inattingibile ma infinitamente inesauribile richiesta imperativa di’essere amati e di amare, che insieme sottostà all’all’amore di Dio per me, ma anche al Dio dell’amore, che è sempre amore per me.

Ultima modifica il Martedì, 17 Febbraio 2015 22:45
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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