Martedì, 26 Febbraio 2013 00:00

Giustizia e cura in democrazia

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Certamente la giustizia in una società che voglia dirsi democratica è e deve essere una dimensione fondamentale e imprescindibile. Siamo però sicuri che il paradigma della giustizia sia sufficiente a far sì che una comunità di individui, anzi di persone sia veramente giusta e dia vita a forme di cooperazione, partecipazione, solidarietà ed apertura verso gli altri e il mondo circostante? La nostra analisi si propone di individuare i limiti del paradigma di giustizia, che per quanto rimanga ineliminabile, deve forse venire integrato con altre sfere, altrettanto importanti che abbraccino in toto la dignità della persona, in modo da consentirgli di vivere un’esistenza pienamente, in tutti i sensi, umana.

Per fare questo dobbiamo perciò attingere ad un ventaglio di realtà che vanno da quella della cura (che proveremo a delineare in questa prima parte) a quella dell’amore (inteso, come vedremo, in senso lato) e del dono, fino alla tematica dell’altro, del “diverso” e quindi il tema dell’ospitalità, dell’accoglienza che una società giusta dovrebbe favorire. Prima di passare al binomio cura/giustizia, occorre spendere due parole sulla giustizia, partendo da uno sguardo su di essa da un punto di vista storico.

Dal ‘600 in poi, con l’avvento della cosiddetta“modernità”, la teoria contrattualista diventa il paradigma di giustizia per eccellenza. Esso, partendo dalle tesi hobbesiane e passando per quelle di Locke, si snoda fino al neoliberismo (o neo-contrattualismo) di John Rawls, il cui volume “Teoria della giustizia” del 1970, arriva ad affermarsi come modello predominante nelle odierne società occidentali. Il liberismo rawlsiano, si richiama all’analisi condotta da Isaiah Berlin, il quale distingueva le libertà negative – ovvero le “libertà da” – che presuppongono l’autonomia individuale nel perseguire i propri fini e interesse, di darsi kantianamente “la propria legge”, come sciolta da qualsivoglia vincolo e ingerenza da parte dello stato – dalle “libertà positive” – le “libertà di” – , caratterizzanti il modello democratico e che implicano quindi una maggior attenzione verso l’impegno dell’individuo attraverso la relazione, la cooperazione, la condivisione e la partecipazione politica e sociale all’interno della comunità. Si può dunque dire che il normativismo di Rawls privilegia il primo punto di vista, postulando una società perfetta di individui uguali, liberi e indipendenti, nonché pienamente cooperativi.

Sembra chiaro come il soggetto, in un simile quadro, appaia prioritario rispetto ai legami cooperativi e alle relazioni comunitarie che esso potrebbe intrattenere con gli altri. Inoltre si tratta di soggetti pienamente razionali e autonomi, che mirano ai loro interessi con pieno raziocinio e fruttuoso calcolo, cosa che forse lascia aperto il problema del “riconoscimento” di quella parte di umanità non pienamente autonoma. Senza entrare nei dettagli della complessa teoria rawlsiana ciò che maggiormente ci interessa è fare una panoramica dei limiti di tale paradigma tramite le critiche di alcuni autori che hanno cercato di sviluppare dei modelli di giustizia diversi o per lo meno arricchiti anche da altre sfere che abbracciano l’umano.

Un limite che emerge subito, potrebbe essere quello dell’ “idealizzazione” fatta da Rawls della società da lui postulata. Si tratta infatti di una società perfettamente equilibrata e funzionante ma troppo statica, considerando le dinamiche attuali di come gira il mondo. Egli dà un’immagine forse troppo “congelata”, che non si preoccupa di analizzare in maniera più approfondita ed empirica i dinamismi e gli squilibri che imperversano nelle società, soprattutto contemporanee e nella quale gli individui appaiono quasi come “ectoplasmi” o robot automatizzati, che si mettono insieme con lo scopo di arrivare ad un patto che tuteli gli scopi e le libertà di ciascuno imparzialmente, ugualmente ed equamente (d’altronde l’immagine allegorica del piatto della bilancia rende bene l’idea di giustizia che è impressa nella mente di tutti noi), i quali perseguono in maniera squisitamente razionale solo il proprio giusto interesse senza recare alcun danno agli altri né sopraffacendo i fini altrui.

Il testo che ha dato avvio a un modello alternativo di cura (il preoccuparsi e l’occuparsi di qualcuno, l’esser solleciti verso qualcosa o qualcuno in maniera attiva e responsabile) è stato “With a different voice” (tradotto in italiano col titolo “ Con voce di donna”, non tenendo troppo conto dell’accento posto sul senso della differenza, intesa come valore aggiuntivo e positivo), dei primissimi anni ’80, ad opera della femminista Carol Gilligan. Secondo la filosofa, è vero che esiste una differenza tra femmine e maschi, ma non certo come un punto a sfavore delle prime, anzi questa differenza deve essere valorizzata. Le donne, secondo l’autrice, non sono caratterizzate tanto da quei valori prettamente maschili, quali l’autonomia, l’individualismo, il pragmatismo, l’indipendenza..bensì la loro attenzione è maggiormente focalizzata sulle dinamiche affettive, sull’attenzione verso l’altro, sulla dimensione delle emozioni e delle relazioni. Esse, a differenza degli uomini, approdano pertanto ad un’etica della cura e della responsabilità, fondata non su principi “astratti” di giustizia, equità ed equilibrio, ma su principi di relazionalità e affettività accompagnati da un concreto calarsi nel contesto reale delle situazioni che di volta in volta si presentano. Non che questo comporti un rifiuto dell’etica dei diritti o della giustizia, ma il riconoscimento della loro unilateralità e la necessità che esse vengano integrate da altre e più ricche prospettive. La Gilligan e le sue seguaci – le toriche della cura appunto – partendo dalla considerazione dell’esistenza di due diverse soggettività, due diverse concezioni del sé sentono l’esigenza di costruire un paradigma alternativo che si apra a questa molteplicità di voci diverse, voci che parlano non solo il linguaggio dei diritti ma anche quello degli affetti, della cura. Tutte le relazioni umane infatti possono essere intese tanto nei termini di eguaglianza e indipendenza quanto in quelli di connessione e attaccamento. L’etica della cura, se non rimane relegata nell’ambito del privato, ma recuperata anche nella sfera pubblica, politica e sociale, si fa carico di tutelare la rete delle relazioni contro tutte quelle potenziali aggressioni o umiliazioni (soprattutto nei confronti delle “minoranze”, di cui fanno parte anche le donne) che da un momento all’altro rischiano di comprometterla. I soggetti di cura – anziani, disabili, malati, soggetti cui manca un pieno riconoscimento e a cui viene perciò negata una totale dignità, animali e ambiente anche – devono diventare soggetti di diritto così come deve essere recuperata la componente del sentimento e delle passioni anche all’interno di un paradigma di giustizia, per evitare che esso rimanga avulso dalla realtà umana intesa in tutte le sue sfumature.

Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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