Con questa domanda si apre la conferenza di inaugurazione della mostra tenuta da Gianluca Garelli, professore di storia dell'estetica all'università degli Studi di Firenze.
Nell'opinione comune e nell'ordinarietà della nostra quotidianità,l'esperienza delle bellezza, comincia Garelli, sembra del tutto accessibile e “pacifica”, priva di problemi o dubbi. Pare insomma, che l'esperienza del bello non sia preclusa a nessuno. Cosa succede però quando vogliamo provare a darne una definizione? Agostino si chiedeva: “che cos'è il tempo? Se nessuno me lo chiede lo so bene, ma se ne volessi dare spiegazione a chi me ne chiede, ecco che non lo so più”. Potremmo applicare questa stessa frase anche al bello. Lo conosciamo, ne facciamo esperienza, sappiamo riconoscerlo, ma se ci chiedono, o ci chiediamo cosa esso sia, ecco che precipitiamo in una afasia ineluttabile, le nostre risposte risulterebbero mute, sarebbe un perplesso silenzio a prevalere. Non ci chiediamo cosa sia la bellezza perché non sappiamo spiegarla, essa sfugge alla nostra capacità cognitiva e verbale, non riusciamo ad ingabbiarla in un concetto ben delineato, i suoi contorni sfumano, rimangono ambigui e indiscernibili. Oppure i tentativi di dare una risposta alla domanda sulla sostanza del bello si diramano in una polisemia di definizioni, che la filosofia raramente ha saputo racchiudere in un significato unitario. A conferma di questa imprendibilità, questa inafferrabilità del concetto di bellezza, Garelli cita uno dei più grandi storici dell'estetica contemporanei, Wladyslaw Tatarkievicz (Varsavia 1886 - 1980), che nel suo scritto “Storia dell'estetica” fornisce ben 39 definizioni del bello. Garelli ci invita allora a ripercorrere andando a ritroso le tappe più significative di questo termine apparentemente innocuo e che invece, una volta che proviamo a “stringerlo”, a trattenerlo nella nostra testa e nelle nostre parole, spalanca davanti a sé una vertigine abissale di indefinibilità.
Per i greci antichi il termine Kalòn racchiudeva in sé non solo l'accezione di bello ma aveva anche un significato morale, indicando ciò che buono. Il tò kalon è ciò che è bello perché buono e viceversa – gli eroi greci non potevano essere che belli oltre che valorosi, così come invece all'opposto i vari “tersite” dell'epica classica non potevano che essere individui dall'aspetto orrendamente sgradevole, oltre che moralmente ingobili - bello ha quindi un senso etico, non solamente estetico. Ma la ricchezza del termine non si limita solo a questo fruttuoso connubio. Infatti la radice del verbo kalein (da cui deriva), significa chiamare. Da ciò, si intuisce quindi, prosegue Garelli, che il bello deve avere in qualche modo a che fare con una chiamata, un invito, forse, qualcosa che lancia verso di noi un appello alla quale inevitabilmente ci sentiamo tenuti a rispondere, ad accogliere e raccogliere. Se ci pensiamo, anche nella nostra esperienza quotidiana accade che qualcosa – un'opera d'arte, un paesaggio, un tramonto, un volto di un uomo o di una donna.. - ci parla, ci trascina nel suo appello calamitante e noi rispondiamo, con il nostro sguardo, il nostro struggimento, la nostra ammirazione, il nostro sbigottimento commosso, ed entriamo a far parte di quella chiamata che ci cattura sconvolgendoci meravigliosamente.
Esistono due dialoghi platonici in cui si affronta specificamente la questione del bello.
Uno è l'Ippia maggiore (o Sul bello), nel quale l'argomentazione si snoda tutta intorno alla domanda su cosa sia to kalòn, l'altro è il Simposio, nel quale il tema dell'amore (di cui tratta il dialogo) va a intersecarsi con quello della bellezza.
L'Ippia vede protagonisti del dialogo l'immancabile , un interlocutore di difficile identificazione (forse una sorta di doppio di Socrate) e il filosofo sofista Ippia di Elide (vissuto nella seconda metà del V sec. a.C.). Alla domanda che gli pone Socrate, “che cos'è il bello”, Ippia, vanitoso e saccente credendo di sapere benissimo che cosa sia il bello in generale e che cosa lo distingua dal brutto, si cimenta in un lungo elenchos, una lista di esempi particolari di cose belle (“bella è una fanciulla, un cavallo, l'oro...), ma questa lista di cose belle non soddisfa lo stagirita: la ragazza, il cavallo ecc..hanno la caratteristica di essere belle, ma non sono il bello, partecipano dell'idea di bellezza, ma non lo sono in sé. Dopo che Ippia continua a dare varie altre risposte, ogni volta confutate da Socrate, è quest'ultimo che prova a darne alcune definizioni: il bello è ciò che è conveniente; il bello è ciò che è utile; è ciò che è gradevole alla vista o all'udito..ma anche tutte queste definizioni concettuali e più astratte possono venire contraddette e quindi non appagano l'incontentabile Socrate. La conclusione del dialogo lascia aperta un'aporia : “le cose belle sono diffficili” dice Socrate, che sembra accettare la relatività del bello. Sembra che la ricerca di un'idea universale del bello (dato che gli oggetti sensibili propriamente considerati belli incorrono a mutamento, al divenire e alla corruzione e quindi alla precarietà fuggevole del tempo che tutto consuma e tutto deteriora), approdi in un relativismo in cui ciascun singolo ha una sua idea di bello, è una tendenza interiore del tutto soggettiva e che per questo può persino mutare nel corso stesso della vita di ciascun individuo.
Nel Simposio Socrate, che parla per ultimo, riporta il discorso che gli aveva fatto una sacerdotessa di Mantinea, Diotima, secondo la quale Eros, in quanto figlio di Penia (povertà) e Poros (espediente), è un essere a metà strada, è un demone, una sorta di ibrido tra il bello e il brutto, il buono e il cattivo e di conseguenza intermedio tra il divino e l'umano. La molla che spinge l'amante verso l'amato è l'attrazione verso la bellezza. Questa però ha una scala. La bellezza particolare per i corpi terreni e contingenti deve essere superata passando ad un gradino superiore, che si innalza al di là di quella concreta materialità corporea per elevarsi all'amore verso l'universalità dell'idea di bellezza che trascende la particolarità del corpo. Quindi di nuovo siamo di fronte ad un'aporia incolmabile, se mettiamo a confronto i due dialoghi: da una parte abbiamo un relativismo, dall'altra un'universalità della nozione di bellezza.
Passando all'età moderna, Garelli cita la kantiana "Critica del giudizio” (del 1790), la quale, per così dire, fonda l'estetica moderna. É infatti grazie a Kant e alla sua opera che viene sancita la legittimità di un discorso filosofico intorno al giudizio estetico, intorno al giudizio di gusto. Contro l'Ippia platonico, Kant sostiene che il bello non sia solo una questione meramente soggestivistica. Il gusto è anche qualcosa di condiviso, che pretende un assenso comune (oggi questo è vero più che mai, e anzi, è scivolato nel puro conformismo: ciò che viene considerato bello è ciò che viene considerato tale da tutti, dal mondo, dalla moda, dalla società). Attraverso tale nozione di gusto ciò che è bello non è più relegato in una dimensione esclusivamente individuale, non è più confinato nell'intimo del nostro sentire, nello struggersi del nostro spirito, nelle vibrazioni del nostro corpo, nei brividi che scendono lungo le nostre schiene, nella meraviglia sorridente o attonita dei nostri sguardi, nelle palpitazioni dei nostri cuori, ma diventa una questione di condivisione, di “esser d'accordo su”. Nello stesso tempo però, il giudizio di gusto non è il giudizio determinante proprio di un giudizio di conoscenza. La mente non proietta cioè una “categoria del bello” sulle cose, come accade negli oggetti di scienza. Quest'apparente “conquista dell'orizzonte del bello” ha perciò un suo prezzo: questo giudizio, che non è determinante, non è epistemico, deve però essere puro. Ciò significa che il mio modo di relazionarmi all'oggetto di gusto deve essere epurato dalla prassi, deve essere incontaminato, non inquinato dai miei scopi personali, dal mio desiderio di consumazione o fruizione di quell'oggetto. Non devo rivolgermi all'oggetto pensandolo in relazione ai miei interessi pratici, al possibile modo in cui potrei servirmi di esso per qualche mio scopo, ma devo poter godere della sua sola rappresentazione, astratta da qualsiasi finalità pratica o comunque eteronoma. L'oggetto mi si deve stagliare nella bellezza del suo puro esserci, del suo essere lì davanti a me, nella sua piena “libertà senza scopo”. Il giudizio di gusto non deve avere a che fare con la consumazione o l'utilità dell'oggetto cui si rivolge, ma ha a che fare con il godimento disinteressato della sua pura contemplazione, che ad esso si offre gratuitamente e immensamente, in una totale libertà. É questo che può suscitare un sentimento di armonia, che deriva da questa fruizione della pura forma, che mi si dona nella libertà della sua “sola” esistenza. Anche se questa analisi ha aperto le porte per una vera trattazione estetica lascia fuori un elemento, che parlando di bellezza, risulta fondamentale: il desiderio. In questo puro cotemplare, in questa “casta e innocente”, per così dire, fruizione disinteressata dell'esistenza dell'oggetto, sembra che qualsiasi pathos, qualsiasi desiderio venga miracolosamente annientato, messo fuori gioco, mentre sappiamo che da sempre, qualcosa che appare veramente bella, ci insinua dentro un desiderio insopprimibile di qualcosa, anche qualora non fosse possibile realizzarlo concretamente. Rimane insomma un'inquietudine deisderante di fronte a qualcosa che ci colpisce e ci attrae violentemente quasi, verso di sé, che ci rapisce in maniera dolce e crudele allo stesso tempo. Che fine fa questo desiderio nella trattazione che dà Kant?
Per avvicinarci maggiormente ai giorni nostri, Garelli continua la sua dissertazione accennando a un allievo di Hegel, J.K. F. Rosenkranz, che a metà degli anni '50, pubblica “l'estetica del brutto”. Il suo tempo infatti non si lascia più cogliere, catturare dall'idea di bellezza, essa è inadeguata alle brutture della storia e della sua contemporaneità. Citando Machbeth, si potrebbe riassumere dicendo che “il bello è il brutto e il brutto è il bello”: il mondo non obbedisce più ai rigidi canoni classici di bellezza. Il brutto assume ora un ruolo di primo ordine e di eguale dignità. L'arte stessa diviene “bellamente brutta”, è dalla sua bruttezza che acquisisce interesse e fascino. Per Rosenkranz, come ha spiegato anche Bodei, l'arte diventa tanto più bella quanto più riesce ad inglobare il brutto e il negativo entro di sé, l'arte è come – sempre citando Bodei – “un combattimento tra l'arcangelo Gabriele e il diavolo”. L'arte che non si confronto con le patologie, le contraddizioni della realtà, non potrà ambire ad alcuna grandezza. Hegelianamente parlandolo spirito (in qesto caso, prendendoci una licenza poetica potremmo pensare allo spirito dell'arte, sebbene per Hegel questa dimensione debba essere superata per accedere al puro concetto) “guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell'assoluta devastazione (…) esso è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell'essere. (…) Vivere tenendo fermo il mortuum”.
Nel XXI secolo l'ideale della bellezza sembra ancor più irraggiungibile, umiliato, vituperato, mortificato negli idoli del consumo, devastato dalla violenza del mondo e dalla tragedia della storia. Rovesciando la frase di Socrate potremo dire che “le cose belle sono fragili”, oltre che difficili. E questa fragilità è sempre in bilico, sempre pronta a frantumarsi e a smarrirsi nell'oscurità, nelle ombre, nella nebbia del nostro presente, sempre più tacito di bellezza, sempre più silente e carente di possibilità di meraviglia. Già Adorno si era chiesto: come continuare a parlare di bellezza dopo Aushwitz, senza che questa non diventi una magra consolazione, una sorta di fictio, di maschera che cela l'orrore del reale? Senza che questa non divenga un comodo rifugio in cui rintanarsi per obliare il dramma della morte, della crudeltà umana, della devastazione, dello sterminio, della guerra più efferata. Come è possibile un'estetica dopo le leggi razziali e i campi di concentramento, che abbia al suo centro qualcosa come il bello, che difficilmente sembra poter aspirare ad una sua legittimità di esistenza? Oggi, e anche al suo tempo, la bellezza pare solo riuscire a nascondere ciò che è insopportabile, insostenibile, inammissibile, come se essa servisse a mettere un velo su quelle fratture innominabili che hanno ferito la nostra umanità e dilaniato la nostra esistenza, che hanno lacerato la nostra storia e che ancora rimangono aperte e che ancora, in modi diversi e vari, continuano a perpetrarsi e a far sanguinare il nostro mondo, in un'emorragia che non riusciamo a frenare. Dostoevskij nei “Fratelli Karamazov” aveva scritto che “sarà la bellezza a salvare il mondo”, ma ad ora sembra che ci sia più bisogno di salvare la bellezza dalle storture del mondo. Sicuramente, operando una litote, il mondo non sarà salvato senza le bellezza (dice Garelli), non perché essa sia un carattere dell'essere, ma perché senza la possibilità di concepire l'esperienza della bellezza, nella quale riusciamo a trovare una traccia, un segno di libertà, di scelta, allora sì, non è concepibile una “salvazione” del mondo (intesa forse anche in senso escatologico) senza di essa.
Restando sul piano della contemporaneità Garelli illustra che oggi, un tentativo scientifico di definire la bellezza è stato apportato in campo delle neuroscienze, dalla cosiddetta neuroestetica. Tutto viene riportato a meccanismi neuronali e a livello di corteccia cerebrale che provoca degli impulsi di fronte a determinate cose. La neuroestetica dunque spalanca le porte a una conoscenza scientifica della nostra esperienza estetica. I neuroscienziati cercano di obliterare quella distinzione kantiana tra giudizio determinante (oggettivo, scientifico, di conoscenza) e quello di giudizio estetico (che come abbiamo detto non viene proiettato sulla realtà, è un modo di sentire che la nostra soggettività ritrova, riflette dentro di sé quando una rappresentazione gli appare “liberamente armonica”). Però come in Kant si perdeva la componente del desiderio, dello struggimento desiderante e a volte passionale che si accende di fronte alle “cose belle”, nella neuroestetica, che riduce tutto a cellule e neuroni, si perde la dimensione della libertà. Tutto è ricondotto a meccanismi determinati, fisiologici, meccanici che si possono studiare scientificamente, ma che ne è della nostra libera emotività, della libertà dei nostri giudizi e delle nostre sensazioni? Parlare di bellezza in ogni caso significa parlare di libertà, proprio perchè non esiste (almeno per ora) un'idea unitaria di essa. Ognuno ama a modo suo e ognuno giudica bello secondo il proprio sentire. La nostra contemporaneità ci profila surrogati bellezza, che sembra debba omologarsi a canoni o desideri consumistici oggettivi, ma quella non è la bellezza nel suo senso più alto. Quella è la bellezza da vendere e da comprare, la bellezza per sentirsi uguali a tutti gli altri, per sentirsi parte di un gruppo sociale che purtroppo, oggi, non riesce ad accettare e a integrare ciò che è diverso e per questo considerato brutto, inferiore o pericoloso. Ma la bellezza non può essere l'idea di bellezza, al massimo, si può dire, che ognuno di noi può avere o farsi un'idea di essa, ma che non può in alcun modo pretendere di erigersi a principio universale, che deve valere per tutti e che diventa discrimine per essere benvoluti o meno dal mondo, per affermarsi entro una società che sempre più tende a voler fare di ogni goccia un oceano indistinguibile, a creare una folla anonima in cui ogni io è identico al tu o all'egli, per fare solo degli indistinti “noi”. Il bello non è un principio metafisico. Si potrebbe forse dire che il bello è, punto e basta. Non si sa come, non si sa perché ma esso si manifesta e noi gli diciamo “sì”, come direbbe Sergio Givone. É con quel “sì” che noi aderiamo alla bellezza e rispondiamo al suo appello, ma senza sapere che cosa sia realmente, essenzialmente quella cosa lì a cui diamo il nostro totale e a volte inconscio o involontario consenso.
Dunque, alla fine, sembra proprio che non ci sia possibilità di racchiudere il bello in un concetto, in una definizione stretta. Forse l'unica cosa che possiamo fare è continuare ad emozionarci, a commuoverci quando qualcosa ci afferra e ci riempie lo sguardo e l'anima. Quando la bellezza, che forse non sappiamo cosa sia, si spalanca davanti a noi, ci basta sapere riconoscerla, ci basta amarla, senza conoscenza, senza scienza, senza parole, in un ammutolimento estatico, in un'estasi muta che non ha bisogno, forse di esser spiegata, di esser saputa, ma va solo stretta dentro di noi. In fondo, conclude Garelli, la vera ultima parola del Simposio, non è quella con cui Socrate termina il suo discorso razionale sull'universalità concettuale del bello, ma è un'altra, che non è Socrate a pronunciare. L'ultima parola del simposio è l'avverbio “all'improvviso (ekfhaines)”. “All' improvviso”, quando Socrate finisce di parlare, arriva, in tutta la sua fulminante bellezza il giovane Alcibiade, di cui Socrate era innamorato pur non osando esserlo del tutto (sebbene fosse corrisposto: Alciiade ama anche “la bellezza di una ruga” del maestro Socrate), che fa irrompere l'elemento simposiaco, che diventa forma vivente e concreta di quell'eros e di quella bellezza che tanto era stata disputata e discussa. L'ultima parola dunque non è quella della ragione ma quella dell'amore, dell'elemento erotico che irrompe. All'improvviso. Ed è proprio in quest'avverbio che forse è contenuto il significato più vero del bello, che è qualcosa che d'un tratto fa la sua apparizione, scuotendoci nel profondo, e quando appare illumina in maniera lancinante. A quel punto noi non possiamo che lasciarci puerilmente ammaliare, conquistare, come fossimo stati stregati da un incantesimo; non possiamo che lasciarci sprofondare, come assorti e immersi dentro un magnifico e strano sogno, incomprensibile e inesprimibile. Così il nostro pensiero smette in qualche modo di essere pensiero raziocinante e calcolante, e comincia a essere pensiero che gode “solo” della sua stessa libertà e che si può rappresentare, prendendo a prestito una citazione di Marx, nello “sguardo innocente di un bambino”. Che cos'è la bellezza? Se me lo chiedi non lo so, ma eccola. All'improvviso.