L’introduzione del giornalista ruota molto intorno al fatto che non deve esserci radicale contrapposizione bensì scambio e relazione. E la relazione è possibile solo se c’è condivisione, dialogo e confronto, ma non netta frattura e unilateralità delle posizioni e dei propri punti di vista che tendono a sopprimersi o schiacciarsi reciprocamente, inghiottendo l’altro nella propria ovatta autoreferenzialità. Hegel stesso, aggiungerei, notava come anche Antigone, nella sublime omonima tragedia sofoclea, per quanto sia sempre stata rappresentata come il polo positivo, umano, pietoso a fronte della cecità arrogante e intollerante di Creonte, rimane prigioniera del suo solo punto di vista, della sua idea essenzialmente unilaterale, incapace anch’essa di venire incontro all’altro, di accogliere l’altro dentro di sé, e rendendo in tal modo incolmabile e insuperabile la distanza abissale che la separa dal “rivale”. Questo varco insormontabile sembra spalancarsi anche tra fede e ragione, tra le quali, invece, per Ruffini è pensabile e anzi, deve essere realizzabile un dialogo che non le mantenga nelle proprie rigide e “dogmatiche” fortezze. Ad esempio, continua il direttore di TV2000, pur essendo due pensatori totalmente diversi, uno teologo e l’altro filosofo, Vito Mancuso e Sergio Givone probabilmente si pongono le stesse domande, pur arrivando, in molti casi, a risposte diverse ma che comunque possono confrontarsi tra loro e si radicano su una base comune che è proprio l’anelito ad andare oltre, è proprio quel senso di irrequietezza, di incompleto appagamento, di insaziabile desiderio che ci spinge a interrogarci sul senso del mondo, delle cose, della vita e a gettare lo sguardo al di là della semplice immanenza alla ricerca di un qualsiasi orizzonte ulteriore, spirituale o filosofico che sia.
Proprio questa irrequietudine, questo vago e spesso inappellabile desiderio di infinito, di “strabordamento” fuori dai limiti contingenti, di oltrepassa mento dei confini materiali danno il senso dell’oltre del titolo del festival. Anche il rapporto tra fede e ragione potrebbe essere identificato da questa parola, di cui maggiormente oggi c’è bisogno, in un’epoca di vertiginoso progresso soprattutto tecnologico ma anche di sempre più pericolosa regressione verso la paura delle diversità, la regressione, l’intolleranza, i fanatismi, gli scontri in nome della religione. Non deve instaurasi l’eterna lotta tra le armi della ragione e quelle impugnate dalla fede in un combattimento all’ultimo sangue che non porta che a sopraffazione dell’una sull’altra, senza però poter mai avere, in fondo, l’ultima parola, senza mai poter alla fine dichiarare una completa vittoria dell’una o dell’altra. Perché questo non possibile. I due schieramenti dall’inizio alla fine della battaglia manterranno gli stessi schieramenti, senza aver ottenuto nulla di fatto. Il senso di questo oltre sta nel fatto che tale termine, per Ruffini, significa prosecuzione dall’un punto di vista verso quello dell’altro, come due fiumi che si incontrano e alla fine confluiscono, pur rimanendo diversi e sé stessi, in “uno stesso mare”, per dirla col titolo di un bel libro di Amos Oz. L’oltre non è una cesura ma una prosecuzione appunto, non è un salto ma un’incommensurabilità che trascende e comprende insieme le distanze e le dicotomie nette e apparentemente inconciliabili. Ci vuole un dialogo costante e non una reciproca autoesclusione tra fede e ragione che devono comunque rimanere ben consapevoli, entrambe, dei limiti. Il creato, continua il giornalista non è una proprietà da spadroneggiare, né tantomeno di cui impadronirsi con violenza e usurpazione a scapito del resto del creato, ma è un dono di cui avere cura, per noi stessi e per tutte le altre creature e di questo deve tener conto la fede come la ragione. La presenza divina si manifesta in questo creato costantemente, e non necessariamente come il Dio cristiano, ma come scintilla inesauribile di bellezza, armonia, amore, cura, perdono, rispetto di ciò che riempie il nostro mondo, dal primo all’ultimo essere che vi abita.
All’oltre va dato il senso di un orizzonte aperto, che ci animi, ci spinga a cercare, ci metta in moto. Leopardi, che pur non aveva la fede si rivolgeva alla luna, alla ricerca di un senso dell’esistenza e del mondo: “Che fai tu luna in ciel? […] Dimmi o luna: a che vale / Al pastor la sua vita,/ La vostra vita a voi? dimmi: ove tende/
Questo vagar mio breve,/ Il tuo corso immortale?” (da “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”). Certo Leopardi a questo senso darà il nome di nulla, il nulla è il senso della vita terrena, del soffrire e dell’affannarsi, eppure anche quel nulla eterno in cui galleggiano mondo ed esistenza proviene da quella stessa irrequietudine, quello stesso anelito a cercar oltre la contingenza, quell’intuizione che qualcosa di altro possa esserci e che tutto non si esaurisca nel semplice e meccanico ordine delle cose. Che poi questo altro sia un nulla, non ha poi così importanza, perché è comunque mosso da quell’infinito naufragare che per il poeta era comunque dolce. Questo naufragar che lo porta e ci porta a interrogarci sull’universo, che lo porta a parlar della noia come il più terribile dei sentimenti umani e anche il più crudele, perché anch’essa deriva da quel senso di inappagamento costante, di un’insoddisfazione insaziabile, di un irrequietudine appunto che non si potrà mai placare né mettere a tacere. Ecco il senso dell’oltre per Ruffini: “un ragionevole oltre in cui credere e su cui non smettere mai di ragionare”.
Prende poi la parola Vito Mancuso che scandisce il suo intervento per punti schematici. Inizia dandoci la definizione di ragione: l’uso argomentato dell’intelligenza, della volontà e dei sentimenti. Noi siamo infatti intelligenza-volontà-sentimento. L’esercizio può essere consapevole o inconsapevole, motivato o immotivato, argomentato o non argomentato. Laddove si ha il polo positivo di queste alternative entra in gioco la disposizione vitale delle nostre energie che è la ragione, cioè, ripetiamo, l’esercizio argomentato, consapevole, motivato della nostra intelligenza e della nostra volontà che ci porta a dirigere, a “controllare” la nostra cassa di risonanza sentimentale. Il teologo passa allora a definire LE ragioni: queste sono i prodotti della ragione che fanno sì che un’affermazione, una negazione, un’argomentazione ecc..siano consapevoli. Alla ragione e ai suoi ragionamenti occorre arrivare. Quell’oltre del titolo non deve mai significare SENZA ma CON. Significa “ma anche con”: ogni posizione esistenziale, ogni posizionamento della realtà che faccia a meno della ragione, o prescindendone del tutto o facendone un uso strumentalizzato, è inadeguata rispetto alla natura stessa dell’essere umano che una natura responsabile, ovvero potenzialmente e naturalmente capace di rispondere, di saper motivare, rispondere delle proprie azioni, delle proprie scelte. Fin dove la ragione può arrivare il suo dominio è positivo perché porta chiarezza, dialogo tra le diverse “weltanschauungen”, le diverse visioni del mondo. E dalla capacità di dialogo deriva la pace, basata proprio sul riconoscimento delle ragioni altrui e non sulla violenta soprafazione dell’una a scapito di un’altra con la volontà di schiacciarla, annientarla o inglobarla. Senza la ragione si crea intolleranza, cecità, chiusura arrogante e pericolosa. Si pensi, prosegue lo scrittore, alla famosissima incisione di Goya del 1797, “il sonno della ragione genera mostri”, con al centro un uomo dormiente e alle sue spalle animali della notte dagli occhi spiritati, gufi, pipistrelli, civette inquietanti che volano sopra di lui. Bestie macabre, mostri partoriti dalla mente, quando questa non si accompagna all’uso della ragione, che dunque dorme perdendo tutta la sua inesauribile potenzialità. Ragione che conferisce bellezza, armonia, luminosità. Si parla spesso di lume della ragione. In particolare durante l’illuminismo, il secolo dei lumi si è associata la luce alla ragione, al ragionamento, all’intelligenza umana che faceva un giusto esercizio della ragione. La ragione svelava con la sua luce i “segreti” del mondo scoprendo che non erano misteri o segreti imperscrutabile ma cose ancora ignote da conoscere(scoprire, nel senso di togliere la coperta e vedere cosa c’ è sotto, ma già da sempre) gettava chiarore sulle cose del mondo e dell’uomo, in contrapposizione alle tenebre della fede, all’oscurantismo e alla superstizione portati avanti dalla chiesa cattolica e dalla religione in generale.
Esisteva però anche un altro illuminismo, quello tedesco di Lessing, Goethe, Kant, che non voleva separare nettamente la ragione dalla religione. Kant in particolare, è stato il critico per eccellenza della ragione: della ragion pura (1781) e della ragion pratica (1788). È stato colui che ha mostrato la potenza e l’impotenza della ragione, le possibilità e le impossibilità della conoscenza umana. Ha dimostrato come i ragionamenti debbano avere la loro base sensibile, fisica materiale ma devono però fondersi nelle catogorie a priori dell’intelletto. Unione di sensibilità e intelletto dunque, l’una non meno necessaria dell’altra: “i pensieri senza contenuto sono vuote, le intuizioni senza concetto sono cieche”. Oltre all’ambito della conoscenza razionale/scientifica la ragione non può andare. Il suo ambito è quello del finito, e al di là di esso subentra la metafisica che indaga quegli oggetti inconoscibili dalle facoltà umane, come l’anima o Dio. Questa concezione dell’impossibilità della ragione a trascendere i limiti del finito si può chiamare dogmatismo metafisico, che è più o meno il contrario del dogmatismo fisico secondo il quale non si può andare oltre quei limiti perché al di là di quei limiti non c’è proprio nulla, l’unico ambito in cui la ragione può e deve muoversi è quello fisico, perché al di fuori di quell’ambito non esiste niente che sia interesse della razionalità. La morte dell’anima, il peccato originale, la vita eterna..non sono entità verificabili e quindi, pur se ritenute in qualche modo ragionevoli non possono essere definite come conoscenze. Il dogmatismo fisico esclude ogni mistero dell’esistenza. Le cose che non si conoscono non sono enigmi ma cose su cui prima o poi getteremo luce, le scandaglieremo attraverso l’esercizio della ragione fino a un disvelamento pieno del mondo. Prima o poi la conoscenza arriverà a penetrare tutto, attraverso l’esercizio della ragione. Mancuso cita poi le parole di Bobbio: “non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo DI RAGIONE, non di fede, so di essere immerso nel mistero”. Ecco, questo disvelamento totale del mondo probabilmente non è possibile, perché insopprimibile è la sensazione di essere immersi, a volte addirittura sommersi nel e dal mistero. Così la pensava anche Wittgenstein, il più grande filosofo del linguaggio: “la soluzione dell’enigma della vita nello spazio e tempo è al di fuori dallo spazio e dal tempo”, scriveva nel Tractatus logico-philosophicus, proprio lui, che non era certo uno che spiegava il mondo con Dio o con la trascendenza! Così anche diversi fisici, come Max Plank ad esempio, Ugo Amaldi, tutti concordi nel dire che la ragione ci fa comprendere che il senso della vita non è tale da esser compreso dalla ragione ma resta al di là di essa. Gli elementi stessi che provengono dalla ragione, i prodotti di essa portano altrettanti e contrastanti visioni del mondo e nessuna potrà mai prevalere sull’altra. Sapere ha la stessa radice di sapore e questo è significativo: sapere ma anche avere un sapore.
Che sapore voglio che abbia la mia vita? Che sapore voglio avere io? Queste domande conducono a orientamenti diversi e a volte contraddittori. Il mistero non deriva dall’ignoranza ma dal fatto che i dati forniti dalla ragione, quando vengono sintetizzati dal pensiero, quando vengono pensati, danno visioni diverse. Solo il razionalismo estremo ritiene che la ragione verrà a capo del senso ultimo della vita. Adorno e Horkheimer, nella Dialettica dell’illuminismo in cui si interrogavano su di esso sottolineandone la sua caratteristica ambiguità scrivevano, nel 1944: “L'illuminismo nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l'obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all'insegna di trionfale sventura.” Non c’è possibilità che esista un unico trasporto interiore per tutti, che tutti ci faccia convergere su una medesima Weltanschauung e se ciò fosse possibile , come per i filosofi della Scuola di Francoforte è avvenuto con lo sviluppo sfrenato e senza più limiti dell’illuminismo, diventerebbe strumento di dominio , organo di controllo sugli uomini e sul loro pensiero in ogni ambito della loro vita sociale. Il vero statuto della mente di fronte a domande eterne (chi siamo, da dove veniamo, perché il bene è meglio del male, perché la giustizia meglio della furbizia ecc..portano a quelle che Kant chiamava antinomie della ragione: ci sono una tesi e un’antitesi e la ragione ti porta a comprendere le ragioni della prima come anche della seconda ma constatando l’impossibilità di una certezza della dimostrazione, sia della tesi che dell’antitesi. Ciò che fa protendere a favore dell’una o dell’altra non è il principio di contraddizione che nelle antinomie non può essere applicato, non è perciò una scelta motivata dalla capacità ragionativa, da una deduzione incontrovertibile e razionale, ma dettata da qualcosa di altro, da qualcosa che deriva da un personale sentire, dall’aisthesis, qualcosa che sento, avverto, percepisco ma di cui non so, non posso dare spiegazione verificabile. Tre domande: “che cosa posso sapere?; che cosa posso fare? ; che cosa è lecito sperare? Nell’ambito della prima domanda la ragione è sovrana, il suo dominio si dispiega perfettamente perché è il dominio della scienza, della fisica, del contingente. Già nella dimensione che concerne la seconda questione la ragione vacilla, perché siamo nella sfera dell’etica, la dimensione pratica e morale. Infine riguardo all’ultima domanda la ragione non può che porre a terra le proprie armi e dichiarare la propria impotenza perché deve lasciare il campo al sentimento, che va oltre di essa. Però, conclude Mancuso, questo stesso senso dell’oltre, in ultima istanza, è la ragione a porlo, come scriveva Pascal: “L’ultimo passo della ragione è riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la sorpassano”. Ma dunque alla fine è solo alla ragione che spetta di riconoscerlo.
Givone riparte proprio da Pascal citando uno dei suoi pensieri più famosi: “il cuore ha le delle ragioni che la ragione non conosce”. Proviamo, esorta il professore, a leggere questo aforisma come in uno specchio, ovvero rovesciato. Verrebbe fuori una cosa del tipo: “la ragione ha un cuore che la ragione non sa neanche di avere, di essere". Ma che c’è. Il cuore della ragione pulsa in essa. Ed è proprio questo cuore che mi impone, continua Givone, di fare il discorso che stiamo affrontando; è la ragione stessa che si accorge di possedere un cuore ogni volta che è presa da stupore, che si meraviglia di fronte a ciò che essa stessa conosce, mentre contempla ciò che essa indaga. È come se allora avesse un soprassalto, un sussulto perché quando scopre qualcosa che essa stessa ha posto è come se in quel momento non le apparisse più dal di dentro, nelle sue leggi fisiche o matematiche, o scientifiche e in ogni caso oggettive, ma le apparisse dal di fuori in un’altra veste. Non è un caso che Platone avesse definito la verità come quella che appare in un immenso fulgore (“la bellezza è lo splendor del vero”). Allo stesso modo la ragione, come abbacinata dallo splendore del vero, è invasa da meraviglia, thaumazein, è scossa da un brivido di stupore quando contempla un teorema matematico, o le traiettorie delle stelle, o qualche nuovo pianeta..e mentre contempla dolcemente è presa da sgomento, le si spalanca dentro l’immenso. L’immenso e la bellezza di quel suo theorein che la porta a scoprire formule e ordini fisici e geometrici, quel theorein che la spinge inarrestabilmente a conoscere, a interrogarsi, a scandagliare ogni cosa; che le permette di contemplare l’universo nel fulgore della sua verità. È come una trasparenza del pensiero all’essere e dell’essere al pensiero. Identità tra i due poli. Ma da dove viene questo soprassalto, questo sussulto se non dal cuore profondo della ragione? È lui che ci dice che io non posso accontentarmi. È quella spia che ci fa intuire che io non posso limitarmi a prendere atto di come stanno le cose, ma mi impone di interrogarmi sul perché esse stiano così, sul senso di qualcosa che non appartiene forse alla ragione di per sé, ma appartiene ad essa nel momento in cui si pone di fronte allo splendore della verità. In forza di questo scuotimento meraviglioso, di cui indice suprema è la bellezza, in forza di questa emozione, in forza di questo cuore pulsante, la ragione non si adagia sui dati di fatto ma vi scivola e vi si perde dentro, lasciandosi penetrare dalla bellezza misteriosa del mondo e dell’universo che oltrepassa le loro leggi. Il cielo stellato ad esempio, appare infinitamente di più che il semplice suo ordine fisico, ed è proprio quell’infinitamente di più, quell’incommensurabile oltre, che è indizio di un vero che trascende le verità scientifiche. La bellezza e la verità della legge morale, di cui parlava Kant (“il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me riempiono l’animo di commozione”) che è alla base della mia libertà e la mia libertà mi impone di interrogarmi continuamente di nuovo, non su come stanno le cose ma sul senso di quelle cose.
La Biblioteca delle Oblate, prosegue Givone, si trova esattamente a metà strada tra la Chiesa di Santa Maria Novella e la basilica di Santa Croce. Ovvero, si trova a metà strada tra due visioni del mondo che si fronteggiano: il razionalismo dei domenicani (Santa Maria Novella) e il volontarismo dei francescani (Santa Croce). Ciò che prevalentemente distingue i due ordini è il fatto che secondo i domenicani quando Dio ha creato l’universo è come se avesse in mente un progetto e la sua creazione riportasse fedelmente ciò che già esisteva nella mente divina. Detto in altri termini: Dio quando ha creato tutto ciò che ha creato disponendolo al meglio, perché esso ricalcherebbe l’ordine e la perfezione che la sua mente aveva già visto e semplicemente avrebbe riprodotto quella visione, quel “progetto”. I francescani obiettavano allora: se le cose stessero così, se tutto riproducesse un perfetto ordine già prestabilito dalla mente divina, come potrei dar ragione del fatto che nell’universo che mi appare nel suo splendore ci sia qualcosa che mi fa sussultare, che mi fa meravigliare, che mi desta stupore? Se tutto fosse frutto di un progetto, sicuramente ammirerei la maestria del “demiurgo”, dell’artigiano che lo ha creato disponendo tutto in maniera perfettamente armonica e ordinata, ma non mi stupirei, non mi emozionerei, come invece mi accade. Se tutto fosse semplicemente così e non altrimenti io non mi commuoverei. Invece quella commozione, quel soprassalto, quel battito cardiaco accelerato di fronte all’universo deriva dal fatto che quell’universo poteva non essere e di conseguenza il fatto che invece esista, ci sia quando anche avrebbe potuto non esserci, mi appare come una grazia, un dono gratuito e sovrabbondante che non ricalca meramente un ordine pre-esistente. Ecco che allora mi accorgo, per dirla con Plotino, che “tutto è pieno di Dei” e questi dei non sono che i logoi, le ragioni plurali. Da qui la domanda sul senso. la frase kantiana già citata, che rispondeva al senso del mondo e dell’universo con una commozione derivante dalla ragione morale dentro di lui è una risposta positiva. Ma chiunque altro, a questo senso potrebbe fornire una risposta negativa, come appunto Leopardi, per il quale la risposta sarebbe un no, un non-senso del tutto, un nulla: "Pur tu, solinga, eterna peregrina,/Che sì pensosa sei, tu forse intendi,/Questo viver terreno,/Il patir nostro, il sospirar, che sia;/Che sia questo morir,/questo supremo/Scolorar del sembiante,/E perir dalla terra, e venir meno/Ad ogni usata, amante compagnia […]”. È un duplice sentire. Due diverse risposte a una stessa domanda, che però parte da quel cuore che batte nella ragione e la spinge a quel soprassalto davanti alla fonte inesauribile di meraviglia ma anche di angoscia, di stupore ma anche di terrore dinnanzi alla contemplazione dell’universo e al senso che vi si cela dietro. E dire sì, c’è qualcosa che mi commuove, o dire no, non c’è nulla sono simili risposte che possono darsi anche allo scandalo del cristianesimo, ovvero credere o meno che un morto sia resuscitato. Rispondere sì, ci credo, significa credere che la morte non sia l’ultima parola sul mondo, mentre non crederci significa pensare il contrario e che cioè con la morte finisca tutto per me. E per entrambe le risposte ci sono buoni argomenti, entrambe sono ragionevoli e nessuna suscettibile di verifica né dimostrazione. Per questo non c’è cesura né frattura tra fede e ragione, tra credere e non credere. Riprendendo Bobbio, egli definisce sé stesso né ateo né agnostico perché un ateo ha già deciso sul nulla, sul fatto che la morte è l’ultima parola e non compie quel salto che lo spinge a chiedersi sul senso delle cose. Bisogna cominciare a partire dal cuore della ragione, dal mistero che sgomenta e meraviglia superando la contrapposizione tra ateismo, agnosticismo, cristianesimo ecc..
Dotoevskij diceva che “solo il credente sa essere ateo; è proprio la lezione del no, della disperazione che mi ha fatto capire cos’è la fede”, perché solo chi ha sperimentato a fondo le ragioni del no alla vita e al mondo è capace di avere fede. Le ragioni del sì o del no sono validissime. Mancuso dice sì perché dice di sentire che quella logica che lo ha portato all’esistenza e lo mantiene in essa è la logica relazionale, dell’aggregazione (atomi, particelle…), per quanto comunque affermi che dentro di sé “c’è un credente che lotta ogni giorno con il non credente e viceversa”, ma poi dichiara : “io vedo – ammette il teologo – “ che la mia natura si completa e si potenzia quando agisco in funzione di questa logica relazionale dell’armonia, che è una logica del sì. Io vedo che il mio essere uomo si eleva, si perfeziona, mi accorgo che la vita dentro di me e fuori di me sta meglio.” A sua volta Givone spiega le proprie ragioni per dire no: “spesso dico no, perché il no tante volte più viene portato a fondo, tanto più porta acqua al mulino al sì. Ad esempio, dico no a Dio perché c’è il male. Ma riconoscere che c’è il male fa scandalo. Il male scandalizza in rapporto a Dio. Mi scatta il no perentorio al male, non ci deve essere. Questa perentorietà però paradossalmente deriva da una radice che è in Dio stesso, il quale nel momento stesso in cui ha posto il bene, inevitabilmente ha evocato, rifiutandola ma lasciandola essere, l’ombra del male. se tutto è come deve essere, se tutto fosse così e basta, anche glie venti tragici della vita, anche il male, perché allora questo mi appare scandaloso, intollerabile? se tutto risponde a delle mere ragioni e cause naturali perché mi viene da dire “no il male non deve essere”?
Dunque ragionando sul male che mi porta a dire no, alla fine questo stesso perentorio “no” mi fa pensare che la radice prima sia Dio”. In ogni caso, conclude il professore, ciò che risplende è la verità, e qui non si voglia intendere la verità astratta, oggettiva, la verità dei fatti, ma ciò che è vero per me, la mia verità. Solo questa verità, solo quando diventa verità per me, mi suscita quell’emozione indescrivibile, improvabile che mi fa sentire il cuore pulsante della mia ragione.
“[…] Ho vissuto tanto che un giorno
dovrete per forza dimenticarmi,
cancellandomi dalla lavagna:
il mio cuore è stato interminabile.
Ma perché chiedo silenzio
non crediate che io muoia:
mi accade tutto il contrario:
accade che sto per vivere.
Accade che sono e che continuo.
Non sarà dunque che dentro
di me cresceran cereali,
prima i garni che rompono
la terra per vedere la luce,
ma la madre terra è oscura:
e dentro di me sono oscuro:
sono come un pozzo nelle cui acque
la notte lascia le sue stelle
e sola prosegue per i campi.
E' che son vissuto tanto
e che altrettanto voglio vivere.
Mai mi son sentito sé sonoro,
mai ho avuto tanti baci.
Ora, come sempre, è presto.
La luce vola con le sue api.
Lasciatemi solo con il giorno.
Chiedo il permesso di nascere.”
Chiedo silenzio, Pablo Neruda