Amore, instabilità, violenza. Famiglie ieri ed oggi
Un convegno emozionate e ricchissimo di riflessioni stimolanti e importanti, quello tenutosi il sei e sette novembre presso la Sala della Resistenza del Palazzo Ducale di Massa. Il ciclo di conferenze, dal titolo “Amore, instabilità, violenza. Famiglie ieri ed oggi”, è stato organizzato dall’Associazione “Scritture femminili, memorie di donne” ed è nato da un’idea di Alessandra F. Cieli, una delle co-fondatrici e vice presidente dell’associazione stessa.
Dopo i saluti delle amministrazioni (il consigliere regionale Giacomo Bugliani e l’assessore Martina Nardi) e di Olga Raffo, co-fondatrce dell’Associazione “Scritture femminili, memorie di donne” si sono alternate moltissime relazioni. Non potendole affrontare tutte, ci soffermeremo su alcune della prima giornata di conferenze, moderate da Alessandra Pescarolo, dirigente dell’IRPET, esperta di sociologia e storia del lavoro e socia fondatrice della Società Italiana delle Storiche.
Daniela Lombardi, professoressa di Storia moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Pisa e una delle massime esperte di storia del matrimonio e della famiglia col suo intervento ha sfatato una visione a volte forse mitologica e un po’superficiale che abbiamo della famiglia di oggi. Si parla infatti molto di crisi della famiglia, con toni molto accalorati e molto spesso si dimentica, quando si affrontano questi temi, di avvicinarsi ad essi con un approccio più storico che permetta di leggere anche la realtà attuale in maniera più lucida ed oggettiva. Se si guarda, ad esempio, ai dati ISTAT risalenti al 2012 sulla situazione delle famiglie italiane, ci si accorge che, nonostante appunto si tenda a denunciare in continuazione l’aumento di divorzi e separazioni, questi ultimi sono in leggera diminuzione. Certo occorrerebbe avere anche i dati degli ultimissimi anni per poter fare una stima completa. Quello che emerge in particolare è però soprattutto un calo dei matrimoni, sia religiosi che civili ma accompagnato da un aumento delle unioni di fatto, delle famiglie ricostituite e delle coppie omosessuali che chiedono con sempre maggior forza, giustamente, un riconoscimento giuridico della loro unione. Quest’ultimo fatto è un chiaro segnale che vi è ancora un urgente bisogno di esser riconosciuti come famiglie e che quindi il desiderio stesso della famiglia non sembra esser scomparso, anche se è quello che negli ultimi anni tendiamo a credere. Certo, che le famiglie o l’idea di famiglia siano cambiate non c’è dubbio, ma certe tendenze che noi consideriamo strettamente contemporanee in realtà non lo sono, per lo meno non tutte. siamo davanti, prosegue la Lombardi, a mutamenti epocali che non sono solamente di oggi, ma che hanno avuto inizio già a partire dagli anni ’70 del ‘900, non solo in Italia ma anche in molti paesi europei e negli Stati Uniti d’America. I cambiamenti più evidenti sono i seguenti: instabilità coniugale, separazioni e divorzi in crescita già dagli anni ‘70 e diffusione della contraccezione (fenomeno caratteristico degli anni ’70 che ha fatto sì che la procreazione non fosse più una fatalità ma una scelta).
Si fanno meno figli. In realtà si parla ancora troppo poco, soprattutto in Italia, di questo calo della natalità, presente anche nel sud e anche tra gli immigrati. Quest’ultimo aspetto significa che non esiste alcun collegamento con il lavoro femminile, tanto che se andiamo a guardare a un paese come la Svezia che detiene il più alto tasso di occupazione femminile, vediamo che lì il tasso di natalità è molto aumentato. Al contrario, sono proprio le difficoltà economiche che provocano un calo delle nascite e non tanto il fatto che ci siano più donne a lavorare.
Diritto di famiglia in Italia del 197 che ha portato ad alcune innovazioni importanti: la parità dei diritti dei coniugi; la stessa responsabilità, per entrambi i coniugi, nei confronti dei figli (la patria potestà, proveniente dal diritto romano, finalmente nel XX secolo, viene dunque abbattuta); parità dei diritti tra figli nati all’interno del matrimonio (i cosiddetti legittimi) e quelli nati fuori dal matrimonio (i cosiddetti illegittimi) e scomparsa dei termini stessi di legittimità/illegittimità nel riferirsi alla prole.
L’allungamento della vita e il calo delle nascite hanno inoltre portato a un cambiamento all’interno delle relazioni parentali: vi è una riduzione della parentela in senso orizzontale (cugini, fratelli, sorelle..) e un allargamento della parentela in senso verticale (bisnonni, nonni, nipoti..), tanto che alcuni sociologi hanno chiamato il XX secolo, “secolo dei nonni”.
Tutti questi mutamenti, ad ogni modo, contrariamente a quel che si pensa, non hanno portato alla fine della famiglia, nonostante la proliferazione sempre più numerosa di saggi con titoli apocalittici come “la morte della famiglia”, “La fine del matrimonio” e simili. La crisi della famiglia può essere ridimensionata proprio se acquisiamo uno sguardo storico attraverso il quale renderci conto che più che scomparire, la famiglia si è adattata a questi cambiamenti, ed è sopravvissuta per quanto in forme diverse dai secoli precedenti.
Altro mito da sfatare: molti si attaccano tanto all’idea della “famiglia tradizionale”. Ma che cos’è la famiglia tradizionale. Certo, per la Chiesa e per alcune forze politiche, la famiglia tradizionale è quella composta da un uomo e una donna, ma in realtà nel passato non c’è mai stata una “famiglia tradizionale” o un’idea di famiglia tradizionale. Ad esempio, non tutti si sposavano: il fenomeno dei single non è un motivo solamente di oggi; esistevano già fenomeni di convivenza o di concubinati, per quanto non fossero accettati dalle autorità religiose e secolari. Molto spesso ci si univa per solidarietà, soprattutto tra partners provenienti da ceti sociali poveri che dovevano fronteggiare difficoltà economiche, più facili da combattere che stando soli; l’instabilità stessa non è un fenomeno contemporaneo. Piergiorgio Curti (Associazione Lacaniana italiana di psicoanalisi) parla proprio di “instabilità strutturale” (ci sono vari esempi di fughe dal matrimonio, già a fine ‘600, come quella di Nicoletta Grillo). Un altro dato che è rimasto piuttosto costante è che spesso le domande di separazione venivano soprattutto dalle donne, in particolare per violenza maritale. Anche in questo dunque vediamo un parallelismo tra ieri ed oggi e ci rendiamo conto che questo fenomeno non appartiene soltanto alla nostra contemporaneità; altro aspetto di comunanza era l’esistenza di famiglie nucleari, soprattutto tra ceti poveri e un numero contenuto di figli stesso, spiegabile sia per la tarda età del matrimonio (26-27 anni) che per l’esistenza di metodi contraccettivi “naturali” (l’interruzione del coito.)
L’età d’oro del matrimonio, secondo i sociologi, si è avuta tra gli anni ’50 e ’60 del ‘900, quando dopo il secondo dopoguerra si assistette a una fase di ripresa economica accompagnata da una nuova speranza e una nuova euforia generale. Quindi non è facile, andando a ritroso nel tempo della storia, trovare una chiara idea di famiglia tradizionale. Ricordiamo poi che nel passato la reale funzione del matrimonio era quella di stabilire alleanze, politiche, nel caso delle famiglie nobili o regnanti o economiche nel caso di famiglie di ceto popolare (unire due forze lavoro). quindi una “famiglia tradizionale” fondata sul reciproco interesse! È questa la famiglia tradizionale a cui ci si appella?! Sarà nel ‘700 che Rousseau teorizzerà, stabilendo così la cifra della modernità, il matrimonio come sfera intima, privata, fuori dagli interessi o ruoli pubblici, fondato sulla libera scelta degli individui che si uniscono e mirante a realizzare la felicità di ognuno dei suoi membri. La sfera della felicità privata, individuale viene dunque prima di quella pubblica, condivisa, fatta di ruoli e relazioni sociali.
Oggi, conclude Lombardi, che la speranza di vita per le donne è arrivata a 84, 4 anni per le donne e 79,9 per gli uomini (dati risalenti al 2013), come possiamo stupirci che i matrimoni durino di meno? Non sarà che forse si adeguano anch’essi a un’età della vita diventata troppo lunga?
Un altro dei molti interventi proviene da Elena Pulcini, docente di filosofia sociale presso l’Università degli Studi di Firenze. Nella storia filosofica dei sentimenti, esordisce la professoressa, sicuramente Jean-Jacques Rousseau ha svolto un ruolo significativo, addirittura è stato colui che, come già aveva accennato Lombardi, si può dire abbia dato origine a un archetipo moderno: il matrimonio come una sfera intima, privata, che unisce due soggetti per loro libera scelta e per perseguire la propria felicità individuale. Come, quando e perché nasce la famiglia fondata sull’amore? Chiede Pulcini. Due aspetti fondamentali sono da considerare nell’ambito di un’epoca (il ‘700) come quella in cui scriveva Rousseau: la nascita di un nuovo codice affettivo accompagnata dall’intuizione dell’ambivalenza dell’amore e del soggetto amoroso e la riabilitazione della natura umana che configura un’antropologia positiva e introduce anche una riabilitazione delle passioni e della dimensione corporea. La sensibilità diventa infatti fonte di una nuova identità e fonte stessa della felicità. Il ‘700 è infatti proprio “il secolo della felicità” – tanto che vi è una proliferazione ingente di saggi, romanzi, libelli che hanno come tema proprio la bonheur. La felicità diviene quasi una massima kantiana, quasi un obbligo morale e giuridico, un imperativo antropologico: devi essere felice. È in questo secolo che viene infatti teorizzato e scoperto il diritto alla felicità posta sullo stesso piano degli altri diritti tradizionali quali la vita, l’eguaglianza e la libertà (addirittura nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America ratificata a Filadelfia nel 1776 essa compare come suo articolo iniziale: “Noi riteniamo che […]tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati […] di diritti inalienabili, che tra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della felicità”). Idea inedita di felicità intesa come stato permanente, non come momento o stato d’animo provvisorio e fugace.
Tornando alle passioni, queste ultime sono riconosciute come fattore dinamico della vita psichica delle persone. Tuttavia non manca di notarne la potenziale pericolosità e ambivalenza. Esse devono essere “addomesticate”, ammansite, edulcorate e ridotte a sentimenti, per levigarne il carattere potenzialmente (auto)distruttivo. Da forze caotiche, disordinate, distruttive si trasformano (o devono trasformarsi) in sentimenti pacati, controllati, ordinati, domesticabili. Il sentimento diviene così quella giusta via di mezzo, quella mesotès di aristotelica memoria (In medio stat virtus sarà la traduzione scolastica del concetto greco citato) tra la fredda a calcolante razionalità (quella che caratterizzerà l’ homo oeconomicus), e la troppo calda e (s)travolgente passione. Tale è il nuovo codice degli affetti in cui è possibile rintracciare la cifra della modernità. Charles Taylor (filosofo e sociologo canadese) ha persino identificato il sentimento come “il perno della cultura della modernità” . è sul codice del sentimento che si fonda la visione della famiglia come sfera intima, affettiva, in contrapposizione a una sfera pubblica oggi sempre più dominata dalle leggi del mercato e del consumo, dalla competitività selvaggia e dalla ricerca del profitto a tutti i costi. Ad ogni modo è sul sentimento, nel 700, che viene a fondarsi l’amore e la sfera privata moderna, la famiglia moderna (sia coniugale che genitoriale/filiale). Non dunque la passione fonda la famiglia ma il sentimento, l’ amour-amitié, l’amore amicizia, o l’amore-stima, che risponde ad alcuni dei bisogni più urgenti e forti dell’essere umano: il bisogno di affettività e diritto dell’individuo di scegliere il partner che ritiene più adeguato; il bisogno della durata, della sensazione di avere qualcosa di duraturo e stabile nella propria esistenza; una coesione interiore e una condivisione forte con la dimensione collettiva. Il sentimento però non è qualcosa di innato, ma lo si conquista non senza un a volte dilaniante conflitto interiore che può portare persino alla scissione del sé. La passione infatti rimane comunque, una forza vitale, necessaria per la costituzione stessa dell’identità. Nel romanzo di Rousseau, “La nuova Eloisa” (titolo ispirato dall’amore tra Abelardo ed Eloisa appunto), la protagonista, Julie, si innamora appassionatamente del proprio precettore ma rinuncerà a questa passione, questo “amour fou” per sposare un uomo attempato che le consentirà però di tenere insieme la dimensione soggettiva e la dimensione pubblica. Preferisce una tranquilla serenità a una passione travolgente ma pericolosa e “condannabile”. Sicuramente l’amore-passione può avere delle conseguenze distruttive: isola gli amanti relegandoli in una dimensione un po’ovattata, fuori dal mondo, dalla società, dalla dimensione pubblica, amore focoso, senza misura che vive e si alimenta solo di sé stessa, passione che si riempie solo di sé stessa e si nutre solo di sé; non è duraturo né stabile, è una vertigine, un uragano, una tempesta, un vortice che trascina potentemente i due amanti con sé ma che una volta esaurito rischia di annullarsi del tutto, fuoco che una volta spento diventa solo fumo e cenere; può portare, anch’esso, alla scissione del sé.
Tutto questo, accade comunque soltanto all’interno del soggetto, si tratta di un conflitto tutto interiore, tra l’io e l’io e non in nome di norme imposte o sancite dalla comunità, dalla collettività. È una lotta lacerante tra esigenze e bisogni diversi di uno stesso io, che se da una parte si sente animato da una passione che lo scuote, che lo riempie, lo colma, una passione che innalza la vita ai suoi massimi livelli, dall’altra sente l’esigenza di una pace interiore ed esteriore, di un equilibrio tra la sua dimensione individuale e quella collettiva, che se da una parte sente la vita in maniera più forte del normale quando avverte dentro di sé un desiderio desiderante, il desiderio stesso che si alimenta di se stesso, dall’altra anela una stabilità affettiva ed esistenziale durevole e sicura, una comodità su cui adagiarsi tranquillamente e quietamente. Se da una parte è la passione a tenerlo vivo e ad accendere la miccia del suo sentire, del suo provare sensazione, dall’altra teme la propria distruzione, la propria rovina come soggetto e come persona inserita in un contesto sociale e aspira a una coesione interiore ed esteriore. Altra novità riscontrabile nel testo del filosofo francese è la dignità conferita alla donna, che acquista valore di soggetto. Attenzione però, per quanto apprezzabili potessero essere le intenzioni dell’autore nel delineare questa nuova dignità, suo malgrado essa ha contribuito a far introiettare la figura femminile come quella dedita all’altro e alla cura degli affetti, fuori dalla dimensione pubblica. Per Rousseau infatti la donna è soggetto, sì, ma è soggetto destinato ad essere per l’altro: un soggetto altruistico, dedito appunto alla cura dell’altro, un soggetto oblativo, che annulla la dimensione del sé più proprio e individuale.
La donna è moglie e madre, è colei che gestisce la sfera degli affetti e delle relazioni familiari, dunque colei che deve occuparsi della sfera privata. Tale visione ha lasciato le sue tracce anche nella modernità: la donna ha il potere di unire, di tenere insieme, di gestire i sentimenti e le relazioni, ma finisce così di esser relegata nel chiostro della dimensione privata e l’esclusione dalla sfera pubblica, concessa soltanto all’uomo. Questa costruzione dell’immagine della donna si traduce anche in un’evitabile perdita del diritto al pathos e all’eros: per gli uomini le passioni sono rivendicate come un diritto, una forza, una connotazione positiva, eroica, mentre nella donna tendono spesso a generare sensi di colpa, e ciò si traspone anche nella sfera pubblica e collettiva, in quanto la società borghese condannerà sempre e solo l’adulterio femminile e mai, o di rado quello maschile – basti leggere romanzi come “La lettera scarlatta”, “Madame Bovary” o “La nuova Eloisa” stesso. In quest’ultimo vi è senz’altro una critica, da parte dell’autore all’amore fatale, a favore di un amore amicizia ma in realtà nello stesso tempo Rousseau sembra abbattere il mito della passione distruttiva, che porta alla morte del sé. Infatti il romanzo si conclude con un’emblematica frase pronunciata dalla protagonista, che lascia intendere che forse la scelta di sacrificare questa passione intensa per un quieto sentimento, per una quieta felicità, uno stabile e duraturo affetto non è del tutto fioriera di appagamento profondo. “La felicità mi annoia” dice Julie. Una frase che esprime una sorta di stasi inorganica, un’anestesia dell’io più vero e intimo, un’anestesia di ogni slancio vitale, una condanna a morte, muta e silenziosa della potenza della vita, un’apatia annichilente. Da questa felicità noiosa emerge un incolmabile vuoto dell’essere, che ha abortito una parte profonda di sé, che ha soppresso e ammutolito il desiderio irrequieto ma vitale e con esso ha perso la forza e lo slancio che se gettano l’io oltre o fuori di sé nello stesso tempo lo vivificano e lo fanno essere. L’io è desiderio o non è. È mero involucro di niente. La vita del soggetto desidera e desidera desiderare o muore di una morte lenta. L’io muore dentro perché uccide una parte di sé, la più viva, la più forte, la più vera, la più potente. L’io si adagia sul vuoto svuotandosi di passione e desiderio. La scelta di Julie ha dunque richiesto la rinuncia a una parte autentica del proprio sé e questo tradimento che l’io fa a sé stesso in qualche modo lo annienta. Perché Julie avverte di aver perso qualcosa. Avverte di non sentire. Avverte che la sua felicità l’annoia, non la appaga. Avverte di aver perduto l’io autentico e profondo che la faceva sentire viva. Forse non felice ma di fatto, viva. Il problema di Julie sta nel suo non riuscire a tenere insieme l’amore e la passione, il desiderio e il matrimonio, l’anelito di seguire l’uomo che ama e di cui, anche da sposata torna ad esser l’amante, e l’esigenza di essere rispettata pubblicamente, il desiderio instabile, continuamente in tensione e costantemente eccedente e il bisogno di stabilità ed equilibrio..è possibile, chiede la filosofa, trovare una sintesi virtuosa tra questi due poli così apparentemente inconciliabili? Già nell’800 cominciamo a vedere, che questo è possibile – si leggano ad esempio i romanzi di Jane Austen, in cui quasi sempre il lieto fine sancisce l’unione matrimoniale di un amore sincero e forte. Nel ‘900 poi il processo arriva a compimento, grazie in particolare all’emancipazione femminile, a una relazione tra sessi più libera da gerarchie.
In ogni caso, quel che Rousseau sembra aver voluto suggerirci è di riconoscere l’ambivalenza dell’amore e l’impossibilità di viverla pienamente o in maniera appagante e completa. La sfida, conclude Pulcini, è quella di imparare ad abitare e gestire tale ambivalenza senza fingere che non esista, consapevoli degli aspetti chiaroscurali, delle sfumature infinite, ambigue, perennemente in precario e vertiginoso equilibrio, delle emozioni e delle passioni e cercar di vivere, nella maniera possibilmente più libera e incondizionata, la ricchezza inesauribile di una piena “democrazia delle emozioni”.