una rinnovata visione del mondo”. Lo scopo degli interventi, come esplica la vice sindaca Cristina Giacchi, venuta a portare i saluti da parte del Comune, è quello di affrontare la questione del pensiero femminile non nell’ottica di una eventuale rivendicazione di una prospettiva, ma con l’obiettivo di illustrare una ricchezza qualitativa, che vada ad ampliare una certa visione del mondo; riscoprire l’opportunità di questa prospettiva per dare respiro alle azioni e al pensiero del mondo, uscendo dal proprio piccolo cerchio di azione quotidiana. Il pensiero femminista, lontano dal doversi chiudere in un ulteriore punto di vista parziale e settario potrebbe diventare una ricchezza e un’apertura al nostro modo di agire e di pensare. Si tratta infatti di proporre strade nuove del pensiero, nuove possibilità di considerare la nostra realtà.
Uno degli interventi più pregnanti della giornata è stato quello di Elena Pulcini, professore ordinario di Filosofia Sociale presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze, e i cui maggiori studi e interessi si concentrano sul tema delle passioni, dell’individualismo, delle patologie proprie dell’età moderna e delle trasformazioni antropologiche dell’età contemporanea, proponendo una sorta di “filosofia della cura”(intesa quest’ultima in molteplici aspetti) per una fase globale che ne ha sempre maggiormente bisogno.
La questione del soggetto, esordisce Pulcini, è una questione interminabile e il pensiero della differenza ha cercato di ripensare quest’ultima in una prospettiva che scardinasse il soggetto dalla sua rappresentazione più tradizionale. Il soggetto infatti, soprattutto da Cartesio in poi, è pensato come un soggetto sovrano, che si pensa come autonomo, autosufficiente, “disangaged” (come lo hanno chiamato i comunitaristi britannici). Un pensiero filosofico che intende il soggetto in questi termini, ovvero come un soggetto cartesiano, quasi onnipotente, è stato oggetto di critica da parte del pensiero femminile. Secondo Pulcini però l’idea di soggetto è da mantenere, sebbene da ripensare, e non di cui sbarazzarsi del tutto. Nella tradizione del Collège de Sociologie francese (in particolare in autori quali Maurice Blanchot e Georges Bataille) il soggetto assume tratti molto diversi rispetto a quelli del “soggetto cartesiano” autonomo e completamente autosufficiente. Prende forza, in questi autori, il concetto di apertura o di ferita (Bataille parla proprio di “blessure”), di taglio, che attraversano costantemente il soggetto, il quale dunque non è più considerato come qualcosa di perfettamente conchiuso e sovrano, del tutto padrone di sé. La sfera soggettiva è intrinsecamente attraversata da una ferita che ne squarcia i confini nettamente definiti, che attraversa il soggetto rendendolo un soggetto aperto, un soggetto ferito. Al soggetto sovrano si sostituisce un soggetto aperto, non solo in sé e a sé ma anche all’altro. Un soggetto attraversato da una ferita costitutiva che lo apre all’esterno, all’altro da sé appunto. La differenza andrebbe pensata infatti in duplice modo: non solo differenza da, ma anche differenza in, prendendo atto dell’intima differenza che attraversa ogni soggetto, differenza che va accolta e accettata, dato che solo così possiamo riconoscere anche la differenza dell’altro e farsi da essa arricchire, anziché temerla, annullarla, o peggio ancora, annientarla. Possiamo esser capaci di riconoscere e valorizzare questa differenza solo se sappiamo riconoscere la differenza in, la differenza interna a ciascuno di noi. Occorre aprire la propria identità pensandosi come soggetti aperti, sfrangiati, mai perfettamente e compitamente auto-costituiti e conchiusi. Je est un autre, diceva Proust, e Deleuze ha parlato di soggetti nomadi, in costante metamorfico divenire, mai circoscrivibile in un’identità pienamente definita e serrata.
Secondo la professoressa l’espressione che forse renderebbe al meglio l’idea di un soggetto pensato come apertura a sé e all’altro, è quella di “soggetto contaminato”, che potrebbe risultare anche migliore di quel concetto di “ibridazione” di cui filosofe che hanno a che fare con il pensiero femminile post-moderno, quali Haraway e Butler hanno fatto ampio uso: noi siamo composti da molteplici ibridazioni. Secondo Pulcini però questa idea di ibridazione fa a meno di quella del soggetto che invece la filosofa tiene a mantenere, tenendo a preferire appunto, il concetto di contaminazione. Quest’ultima si adeguerebbe bene, tra l’altro, anche all’idea di contaminazione tra saperi, in contrapposizione a una certa visione della filosofia nei confronti di se stessa, che si vorrebbe pura e genuina, incontaminata, laddove invece dovrebbe piuttosto aprirsi e mescolarsi con altre discipline, in particolare con sociologia, neuroscienze e psicanalisi. La differenza infatti è sempre arricchente e la filosofia stessa troverebbe un modo per arricchirsi ulteriormente proprio attraverso una contaminazione, un contatto di reciproco scambio con questi saperi. La psicanalisi, ad esempio, è fondamentale proprio perché ha saputo valorizzare le insufficienze del soggetto, scardinando e compromettendo tutta la sua presunta “onnipotenza” e padronanza di sé. La psicanalisi pesca nel torbido, va a indagare le ombre, i luoghi oscuri all’interno del soggetto, facendo a meno di quello sguardo illuministico che tanto ci rassicura. Bisogna fare a meno di questa, seppur confortante e comoda, rassicurazione; occorre spezzare certi codici consolidati da tempo ma che non sono più fecondi, o addirittura sono sbagliati.
Maurice Blanchot, ne “La comunità inconfessabile”, splendido libriccino, ha coniato l’idea di “principio di contestazione interna”: noi siamo tutti potenzialmente contestabili, c’è sempre qualcosa che sfugge a una pretesa compattezza, a una confortante ma impossibile integrità del nostro essere. La nostra identità, la nostra soggettività è sempre provvisoria e soprattutto contingente. Essa è frutto del caso, della contingenza, e dobbiamo essere sempre ben coscienti che potenzialmente potremmo o saremmo potuti essere qualsiasi altra persona. Io sono così perché sono nata in un certo luogo in un certo tempo, ma avrei potuto nascere in qualsiasi altro posto, avere la pelle di un colore diverso etc. All’interno di ognuno di noi c’è una “ragnatela” infinita di possibilità non autorizzate, non realizzate, ma potenziali. Io sono sempre potenzialmente qualcun altro, sono potenzialmente un altro. Vi è quindi un nesso indissolubile tra io e altro, tra identità e alterità o differenza. In una prospettiva che libera il soggetto dalla sua pretesa auto-costitutiva, che valorizzi alterità e differenza (interne prima di tutto e che poi si aprono al riconoscimento dell’altro esterno), trova un luogo privilegiato l’idea di passione. La dimensione della passione, del pathos, dell’emozione (non potendo soffermarsi qui sulla distinzione che comunque esiste tra emozioni e passioni e che dunque prenderemo come un unico blocco), è il luogo per eccellenza in cui si produce quella fenditura, quella ferita, quell’apertura nel soggetto di cui abbiamo parlato prima.
Martha Nussbaum dice che le passioni sono il luogo della nostra vulnerabilità, della nostra possibilità di apertura all’altro. Quando infatti viviamo emotivamente siamo indiscutibilmente fragili, messi a rischio, ma siamo anche, immediatamente, proprio attraverso questa fragilità, presso l’altro, in relazione con lui. L’altro è oggetto della nostra passione, ma di quest’ultima sono io il soggetto. Ci troviamo dunque di fronte al massimo dell’apertura verso l’altro ma quasi paradossalmente anche al culmine della soggettività. Bisogna infatti, prosegue Pulcini, liberare l’idea di relazione dall’idea di altruismo. La relazione, e in particolare la passione, non ha niente di altruistico, non ha a che fare con un atteggiamento conciliatorio, pacifico. C’è una spinta anche molto egoistica nella passione. Quest’ultima è fondata sulla consapevolezza della propria fragilità e della propria passione per l’altro. Quell’altro che per Sartre è l’inferno o che per Lévinas è colui che mi interroga, che mi interpella, che mi mette in discussione scardinando ogni mia certezza. C’è perciò una dimensione dinamica e soprattutto conflittuale nella sfera delle passioni. Conflittualità e dinamismo che spesso le donne si sono viste negare in nome di un’immagine pacificata della donna, a cui sono stati attribuiti solo aspetti di confortante emotività, di cura, di maternità – caratteristiche comunque ritenute più inutili rispetto alla razionalità e al pragmatismo attribuiti all’uomo. In questa rappresentazione “candida”, emotiva, del femminile non si tiene presente l’elemento della conflittualità: anche il materno può essere luogo di passioni estremamente violente, conflittuali. Questa immagine conciliante, altruistica, assistenziale o ecumenica della donna ha finito per influenzare persino l’idea che le donne hanno di se stesse, dimenticando appunto che certe passioni che ad esse vengono affibbiate sono esse stesse dimensioni conflittuali. Possiamo recuperare una prospettiva diversa solo però se riconosciamo innanzitutto la positività e la necessità del conflitto, del confronto. Il soggetto in relazione, il soggetto contaminato è quello capace di riconoscere e vivere il confronto e persino il conflitto. Conflitto che ovviamente non deve annientare l’altro ma riconoscerlo, in modo da confrontarvisi e possibilmente lasciarsi arricchire da lui. L’altro è dimensione costitutiva del proprio sé. Non è una specie di “optional” da riconoscere o meno, perché noi siamo attraversati dall’alterità e solo se accettiamo e riconosciamo questo possiamo accedere anche all’altro fuori di noi e riconoscerlo pienamente.
Dagli anni ’70 - ’80 in poi il pensiero femminista si è particolarmente interessato all’importanza del desiderio femminile, mettendo in secondo piano l’idea di passione. Secondo Pulcini in diverse filosofe del pensiero femminista si avverte una marcata e quasi euforica visione del desiderio e una altrettanto enfatica retorica dei diritti. Certo, tutto questo è pienamente legittimo. Tutto giusto. Ma al contempo questi accenti così forti su desiderio e diritti, hanno oscurato un altro tema, che è quello della relazione e che anche (o soprattutto) oggi andrebbe invece recuperato (si pensi a tutta la questione dell’inseminazione artificiale o a quella oggi molto attuale della gestazione per altri, la polemica su chi deve decidere etc..che sono espresse in maniera spesso troppo tranchant, nell’ottica di netti aut aut che non colgono la complessità del dibattito e finiscono per fornire contrapposizioni spesso vuote e superficiali delle problematiche stesse).
A questa visione euforica del desiderio (si veda ad esempio Rosi Braidotti), Pulcini, attraverso una deviazione verso la psicanalisi, propone una visione che ponga l’accento piuttosto sul limite del desiderio. L’idea di limite è fondamentale (recentemente Remo Bodei vi ha dedicato un libro), ma essa non ha a che fare con un limite inteso in senso moralistico, che la tradizione cattolica ripropone ogni qualvolta lo veda messo a rischio. Il limite al contrario è dato proprio dalla passione per l’altro: dal momento in cui non mi penso più come solo, sovrano, onnipotente, ma come sempre in situazione, in relazione, scatta l’idea che le mie scelte hanno sempre a che fare con l’altro. Il limite è il limite che do a me stesso, all’idea di onnipotenza e sovranità, di auto-centralità, nel mio relazionarmi con l’altro, ma che deriva dalla passione che emerge e deve emergere proprio per quest’ultimo. L’altro mi de-centra, mi spodesta ma io divengo soggetto di relazione, soggetto in relazione.
Un altro concetto che a Pulcini sta molto a cuore è quello di cura. Anche quest’ultima va liberata dall’idea altruistica, ecumenica, assistenziale che ad essa è stata attribuita. Chi è davvero capace di cura non è il soggetto altruistico; non è la figura canonica della moglie-madre, ma è il soggetto che si riconosce fragile. Io sono capace di cura solo se riconosco la mia fragilità, se so a priori che in qualsiasi momento io stesso potrei aver bisogno di cura. Non intesa, di nuovo, nei termini di assistenzialismo, ma cura nel senso di presenza dell’altro. Io posso sempre trovarmi ad aver bisogno della presenza dell’altro perché appunto sono un soggetto fragile, vulnerabile. Ho bisogno della sua presenza e di una reciprocità, proprio perché non sono il soggetto cartesiano pienamente autosufficiente. Prendersi cura dell’altro è infatti un atto che si inserisce in una dimensione di reciprocità.
Simone Weil ha posto molto l’accento sul concetto di attenzione, che tutt’oggi sarebbe urgente recuperare. La cura richiede attenzione, cosa che invece stiamo sempre più perdendo: siamo sempre più inclini alla disattenzione, alla distrazione, all’indifferenza, all’apatia.
La cura ha un doppio significato etimologico. Avere cura significa infatti anche avere preoccupazione. Cura come preoccupazione e sollecitudine. Ma la cura non implica solamente il preoccuparsi dell’altro, ma anche occuparsi, attivamente, capillarmente, con sollecitudine appunto, di esso. Il concetto di Altro è nozione fortemente dilatata: non si intende solo l’altro vicino (il mio amico, il mio parente) ma anche l’altro distante, molto lontano dalla nostra sfera affettiva e contingente, e persino l’altro non umano inteso come ambiente, come natura. Natura che è la nostra dimora di cui dobbiamo appunto prenderci cura, così come faremmo della nostra casa. Il soggetto di cura è quello che partendo dalla consapevolezza delle proprie fragilità si fa attento all’altro (inteso in tutte queste accezioni) e se ne fa attivamente carico, si pre-occupa dell’altro. La cura non si deve limitare infatti a quello che Nussbaum riassorbe nel verbo “to concerne”, ma deve spingersi oltre la sola preoccupazione, oltre la pura emotività, oltre quella che potremmo chiamare empatia, o compassione; nel concetto di cura c’è anche il versante, non solo emotivo, ma anche quello della sollecitudine che evoca parole come impegno, azione, capillarità, pratica quotidiana.
Attraverso il pensiero della donne, attraverso la rivalutazione di concetti rimossi dalla cultura occidentale, dobbiamo recuperare una tonalità più giusta di certe prospettive e certe rappresentazioni (anche della donna stessa, così come dell’idea di cura, di passione, di conflitto), che siano all’altezza dei tempi. In tal modo potremmo anche riscoprire la potenza di un soggetto diversamente inteso da come è stato raffigurato tradizionalmente, laddove potenza ha accezione totalmente differente rispetto a potere. Essa è “empowerment”, potenza nel senso spinoziano del termine, cioè la vis essendi, l’energia o potenza vitale, la forza di essere, che guarda caso, si radica prevalentemente su desiderio e passione, e che è molto lontana dal negare la differenza.