In seguito alla Rivoluzione russa del 1917, che segnò la fine dell’Impero zarista, i popoli del Caucaso vissero un breve quanto effimero periodo di indipendenza, segnato da numerose guerre interetniche. Tra il 1919 e il 1921 l’Armata Rossa riuscì a riconquistare la regione, che entrò in seguito a far parte dell’Unione Sovietica. Il Caucaso settentrionale venne inglobato all’interno della RSS Russa, mentre in quello meridionale, dopo la breve esperienza della RSFS Transcaucasica, vennero create le RSS di Georgia, Armenia e Azerbaigian. Il dominio russo nel Caucaso meridionale durò per altri settant’anni, fino a quando nel 1991, in seguito al collasso dell’Unione Sovietica, le tre repubbliche non proclamarono la propria indipendenza.
Nonostante siano passati ormai 25 anni dalla dissoluzione dell’URSS, per una serie di fattori storici, politici e culturali, Mosca continua a esercitare tutt’ora una forte influenza nel Caucaso meridionale, che rappresenta una regione chiave sotto molti punti di vista, verso la quale la Russia nutre ancora grandi interessi economici e geostrategici. Per queste ragioni anche dopo l’esperienza sovietica Mosca ha sempre cercato di mantenere i paesi del Caucaso all’interno della propria sfera d’influenza, usando la diplomazia, cercando di stringere negli anni accordi mirati a rafforzare la cooperazione reciproca, ed esercitando quando necessario il proprio potere coercitivo, garantitole dal ruolo di principale potenza regionale.
Un territorio di importanza cruciale per le risorse energetiche sia legate al petrolio che al rifornimento di gas, non solo degli stati caucasici ma anche verso il continente europeo e la Turchia. Di tutte queste risorse, l’interlocutore principale verso l’Unione Europea e il continente vuole rimanere la Russia, contrastando l’ascesa degli stati sorti intorno al Caspio. La partita viene svolta nello scacchiere geopolitico estremamente complicato e mutevole dell’area. Inizialmente vi è stato il conflitto tra la Russia e la Georgia, parzialmente risolto ma con ancora nodi da sciogliere. Il principale motivo di scontro tra i due paesi è la questione delle repubbliche separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud, il cui status è tuttora disputato. Tbilisi considera le due regioni parte integrante del proprio territorio, continuando a denunciare l’occupazione da parte delle milizie locali e dell’esercito russo; il Cremlino invece, in seguito al confitto del 2008 ne ha riconosciuto l’indipendenza, stringendo nel tempo rapporti sempre più stretti con i due governi locali.
Negli anni immediatamente successivi al conflitto con la Georgia, per cercare di far ripartire il settore economico dei due paesi Mosca ha provveduto a elargire una serie di importanti finanziamenti ai due governi, mentre per cercare di aggirare il loro isolamento politico (oltre alla Russia l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud sono riconosciute solo da Nicaragua, Venezuela e Nauru) ha provveduto a distribuire passaporti russi ai cittadini abkhazi e sud-osseti, permettendogli di spostarsi agevolmente all’interno della Federazione Russa e di viaggiare all’estero. L’area è oggi pericolosamente a rischio a causa dello Stato Islamico, che nel territorio georgiano ha reclutato centinaia di guerriglieri musulmani frustrati dall’emarginazione perpetuata dalla Chiesa ortodossa locale.
Il medesimo problema lo stato russo lo ha riscontrato nei suoi rapporti diplomatici con l’Azerbaigian, in cui si è inserita abilmente la Turchia che da anni sta tentando di estendere la sua influenza nel Caucaso tendendo la mano agli stati che cercano di prendere le distanze geopolitiche da Mosca. Il centro del problema dei rapporti con il governo azero è Nagorno-Karabakh, regione che si trova alla frontiera tra Turchia, Iran, Georgia e Cecenia russa, molto vicino a Iraq e Siria. La contesa dura da circa un secolo: il territorio del Nagorno-Karabakh è un’enclave armena cristiana ufficialmente parte dell’Azerbaigian musulmano e si estende su una superficie di circa 4.400 chilometri quadrati in una zona montagnosa nel Caucaso sud-orientale. Le attuali tensioni risalgono in gran parte al 1923 quando, nonostante il parere contrario della maggioranza della direzione del partito comunista al potere in Urss, il georgiano Stalin volle che il Nagorno-Karabakh fosse incorporato nella Repubblica dell’Azerbaigian, creata l’anno prima. Ma la popolazione del Karabakh non ha mai superato il desiderio di riunirsi alla ‘madrepatria’, l’Armenia, perché ritiene che l’enclave sia storicamente la ‘culla’ della cultura armena. Dietro la ripresa delle ostilità in Nagorno-Karabakh c’è l’ombra della tensione tra Russia e Turchia, interessando i due stati dell’area direttamente coinvolti: l’Armenia, in pessimi rapporti con la Turchia che rifiuta di riconoscere il genocidio commesso un secolo fa, da sempre vicina alla Russia, e l’Azerbaigian, molto vicino ad Ankara, anche se la Russia vende armi a Baku per mantenere un piede nell’ex repubblica sovietica. Dietro questo gioco di interferenze territoriali, vi è la competizione energetica tra la Russia e l’Azerbaigian nel rifornimento verso il continente europeo. A cominciare dal Tap (Trans Adriatic Pipeline), il “tubo” da 878 chilometri che dovrebbe portare in Europa il gas del giacimento di Shah Deniz II in Azerbajan passando per Grecia, Albania e Mare Adriatico. Oltre ai tanti progetti falliti di ampliamento del North Stream, il gasdotto russo che rifornisce il continente europeo arrivando alla Germania, che rivelano la volontà dell’Unione Europea di svincolarsi dalla dipendenza energetica russa.
Inoltre tra i due stati si iniziano a incrinare anche i rapporti diplomatici intorno alla sicurezza: Baku negli ultimi anni ha incrementato esponenzialmente le proprie spese militari, stringendo importanti accordi con Israele per l’acquisto di nuovi armamenti mirati a modernizzare il proprio esercito e per l’organizzazione di esercitazioni militari congiunte. Nel 2012 la Russia è stata oltretutto costretta a rinunciare alla propria presenza militare nel paese caucasico, con la chiusura della stazione radio di Qabala in seguito al mancato accordo per il rinnovo del contratto d’affitto dell’impianto. Vi è oltretutto la questione della definizione giuridica del Mar Caspio, che la Russia ha sorvolato nelle recenti operazioni militari in Siria senza l’autorizzazione azera e degli altri paesi dell’area che vorrebbero farne zona demilitarizzata.
Un altro territorio estremamente delicato si tratta della Cecenia, spina nel fianco della Federazione russa e ancora prima dell’Unione Sovietica. Governata con il pugno di ferro da un fedelissimo di Vladimir Putin, Razman Kadyrov. In molti, dentro e fuori la repubblica caucasica, hanno creduto che Kadyrov fosse caduto in disgrazia presso il Cremlino ma sono bastate poche parole di Vladimir Putin a far capire che non era così. Putin non intende certo fare a meno dell’uomo che ha “normalizzato” la Cecenia e che ha dichiarato di voler essere “il cane da guardia del Cremlino” nella regione. Un cane da guardia che ha saputo emarginare le milizie islamiste che, durante le guerre cecene, hanno inserito la guerra per l’indipendenza cecena nella secolare lotta per la costituzione di un Emirato caucasico. Nel giugno 2013 le autorità russe denunciarono l’arruolamento di 1700 ceceni tra le fila dell’ISIS. A settembre dello stesso anno venne registrata la presenza del battaglione caucasico Al-Mukhadjirin (letteralmente “gli immigrati”) nella città di Aleppo, agli ordini dal ceceno Abu Abdurakhman. I recenti attentati in territorio russo (la base militare di Grozny, San Pietroburgo) e l’attentato di Istanbul a Capodanno sono stati compiuti da due terroristi di origine inguscia e kirghisa, regioni i cui combattenti islamici vengono addestrati in Cecenia e che condividono le ambizioni indipendentiste della repubblica caucasica. L’aumento degli attacchi terroristici in questo ultimo anno è dovuto al progressivo ritiro dello Stato Islamico e al rimpatrio di molti combattenti nelle regioni di provenienza, dove la lotta viene portata avanti.
Situazione che interessa anche le altre tre grandi repubbliche dell’Asia Centrale: nel Turkmenistan il progresso stenta a manifestarsi, e si mostra sotto forma di costruzioni imponenti finanziate dalla propaganda del regime e da tanti gasdotti dalla dubbia utilità nonostante l’abbondanza di gas e minerali, ma la maggior parte della popolazione vive ancora sotto la soglia della povertà e il PIL dipende in gran parte dalle esportazioni di cotone; il Kazakhistan la cui centralità nell’economica euroasiatica, nella Nuova Via della Seta e nel controllo del Caspio, costringe i decisori politici ad adottare le strategie più corrette per garantire la stabilità del Paese, pena la sopravvivenza stessa del sistema Kazakhstan che potrebbe essere infranto proprio dalle numerose etnie che vivono nei suoi confini, quanto dalle ingerenze esterne; infine l’Uzbekistan, altra ex repubblica sovietica ricca di materie prime e caratterizzata dalla fiorente coltivazione del cotone, dopo aver raggiunto il proprio equilibrio economico sembra aver voluto volgere il suo sguardo a Oriente, verso il mercato asiatico, e trascurare i rapporti con la vecchia madre Russia.
L’impegno in Siria della Russia quindi è dovuto anche al contrasto di queste attività terroristiche mirate a destabilizzare l’area caucasica, di per sé instabile per i numerosi nodi ancora da sciogliere, e a frenare le mire espansionistiche della Turchia nell’area stessa. Oltre ovviamente all’appoggio nei confronti del regime di Damasco e del governo di Assad, per salvaguardare il famoso “sbocco mediterraneo” di tradizione sovietica. Lo Stato Islamico potrebbe guardare maggiormente all’Asia Centrale come territorio di prossima espansione, strategia adottata in risposta alle recenti perdite territoriali e di uomini subite in Siria, grazie all’azione russa ed in Iraq grazie all’offensiva militare delle truppe irachene e alla resistenza ostinata dei peshmerga curdi. L’Asia Centrale rappresenta un’area di primaria importanza strategica ed economica, ma il controllo e l’influenza russa sono a rischio dalle ingerenze della Turchia. I cui legami e affinità ideologiche con lo Stato Islamico potrebbero rappresentare un punto di partenza per un tentativo più deciso di destabilizzazione territoriale e strappare l’intera area caucasica e caspica dall’orbita russa. Nonostante i legami economici che le legano, le divergenze su Assad potrebbero diventare il pretesto per una contesa più grande. Iniziata nel momento in cui la Russia ha riportato sotto la sua influenza la Crimea puntellando il suo controllo nel Mar Nero e mentre la Turchia ha iniziato una graduale ingerenza negli affari caucasici.
L’avvicinamento dei due stati di questi ultimi mesi appare una facciata. L’eventuale inasprirsi dei rapporti potrebbe rappresentare una occasione per l’Unione Europea, terzo soggetto in azione in quell’area. Ma il ruolo della Turchia nel controllo dei flussi migratori, i rapporti commerciali con la Russia, le divisioni sulle sanzioni nei confronti di essa e i timori di una sua ingerenza politica e territoriale (con la questione ucraina ancora irrisolta) impediscono una azione efficace favorendo ancora un timido approccio alla problematica.