Ilvo Diamanti e Marc Lazar, nel libro Popolocrazia (Laterza, Bari-Roma, 2018), riconoscono la genericità di un termine portatore di una sua tradizione, ma che rivive nel XXI secolo in una luce del tutto nuova. Ci si collega non a caso con l'indistinto significato di un’altra parola utilizzata per descrivere i mutamenti epocali in cui viviamo: globalizzazione.
Non esiste popolo senza nazione, ci spiegano gli autori.
L’affermazione di soggetti internazionali (e transnazionali), assieme alla sottrazione di sovranità alle cittadinanze, si somma a una condizione di crisi economica, acuendo un processo di delegittimazione politica che mette in discussione le forme della vita pubblica conosciute.
Il merito principale del testo è quello di spogliare i prodotti del populismo dalla sacralità mitologica con cui vengono trattati all’interno del sistema di informazione e di quello politico. La criminalizzazione e l’autocompiacimento spesso si accompagnano al dibattito preso in considerazione, di cui viene proposta anche una non sintetica bibliografia nelle note.
Per contestualizzare il presente occorre volgere lo sguardo al passato e Diamanti-Lazar ci aiutano a scoprire tracce di caratteristiche contemporanee in altre epoche. Quattro matrici, tra ‘800 e ‘900, si sarebbero sviluppate, tra Russia, Stati Uniti e continente europeo, al fianco della nascita delle democrazie occidentali. Potremmo sintetizzare così: non c’è niente di inedito, anche se sarebbe sbagliato non guardare agli elementi di discontinuità dell’oggi.
Italia e Francia vengono scelti come paesi ideali per approfondire gli studi, perché laboratori di un populismo globale, capace di tenere insieme storie decisamente eterogenee tra loro. Entrambi i paesi hanno visto questo movimento insediarsi a destra e sinistra. Non ci sarebbero solo il Fronte Nazionale della famiglia Le Pen o il Fronte dell’Uomo Qualunque ad attestarlo. Mitterand, Nenni, alcuni gruppi maoisti, alcune caratteristiche di PCI e PCF… Si trova populismo un po’ ovunque, anche con qualche eccesso, viene da pensare.
Sono numerose le categorizzazioni proposte o ricordate in Popolocrazia, a confermare quanto sia impossibile pretendere di trattare in modo esaustivo e definitivo il fenomeno del populismo, in cui ognuno vede quello che preferisce (disarmando, almeno in parte, plotoni di studiosi e opinionisti).
Alcune considerazioni di Diamanti e Lazar avrebbero meritato di venire approfondite (o di non essere citate): la Linke appare citata come forza populista, al pari di Syriza, senza nessuna giustificazione esplicita, mentre è puntuale lo spazio dedicato al fenomeno di Mélenchon.
Il lavoro a quattro mani mostra forse qualche dissonanza nell’ultimo quarto del volume: la legge elettorale non si capisce esattamente quanto influenzi i sistemi politici (o quanto concorra a influenzare), nell'opinione degli autori.
Ritornando però alla tesi di fondo, cosa si intende per popolocrazia? Quel processo di istituzionalizzazione dell’anti-politica e dell’impolitico, con cui si starebbe indebolendo progressivamente il tessuto della rappresentanza (in cui rientra anche la vittoria di Macron).
Siamo invasi da una sfiducia che svuota di significato l’organizzazione della vita comune: le tendenze sempre presenti nelle nostre società sarebbero ormai egemoni (persino i ruoli di Napolitano e Mattarella concorrerebbero a certificarlo).
In risposta sono evocati i «partigiani della democrazia», chiunque essi siano, a dare risposte adeguate ad un cambiamento che è insieme economico, sociale e culturale.
Se si fossero aspettate le elezioni nazionali italiane di marzo 2018 forse la parte conclusiva sarebbe stata più ordinata e di prospettiva, ma il libro si presta a essere comunque un utile strumento per il dibattito diffuso sulle forme della politica. La democrazia si sta modificando e il populismo non sarebbe altro che il vettore del cambiamento, insieme causa e conseguenza dei processi a cui stiamo assistendo.
Chi scrive ha l’impressione che il problema - spesso rimosso - non sia chi utilizza e vende le armi (nella "guerra politica"): la questione è perché si sceglie di aderire a un conflitto. Gli strumenti attribuiti al populismo ci sono da sempre (una caratteristica su tutte è quella della personalizzazione).
Quello che manca è un confronto sui fini, non sui mezzi. L’evocazione di un presente da tutelare e quella di un futuro da riscattare garantiranno al massimo qualche successo elettorale, ma lasceranno i soggetti collettivi incapaci di rispondere adeguatamente al sistema di cose presenti, anche per superarlo.
Sicuramente alcuni elementi populisti oggi trovano un’espressione più esplicita che in passato, ma che siano più egemoni è forse solo un’illusione di chi sceglie di rimuovere le contraddizioni dei partiti di massa (troppo spesso ridicolizzati da altre scuole di pensiero, ma qui ci perderemmo in un’altra storia).
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