Semplificando le conclusioni del denso articolo, infatti, per Carnevali ciò che renderebbe la “Theory” una sorta di contraffazione della vera filosofia sarebbe la sua tendenza a ricondurre il pensare filosofico a questioni disparate ad una serie predefinita e onnicomprensiva di ipse dixit e di sofismi pseudocritici; detto con le parole della filosofa: «la Theory compie il gesto inverso [rispetto alla filosofia autentica, ndA]: schiaccia la specificità del suo oggetto sulle solite, risapute “teorie”. Restringendo a priori il campo del pensabile e del dicibile (l’essenza della scolastica consiste nell’incapacità di immaginare oltre l’orizzonte del già noto) non solo non oltrepassa la doxa, ma ne produce una di secondo livello». A questa triste situazione avrebbero contribuito da un lato l'emarginazione della filosofia Continentale nei dipartimenti di filosofia Nordamericani e d'altro canto un ampliarsi della domanda “di mercato” di un qualche genere di filosofia adatto ad un pubblico dotato di un buon bagaglio culturale ma privo di ogni benché minima formazione specialistica in filosofia; i più ardenti theorists, infatti, sarebbero per Carnevali cultori di discipline “cugine” della filosofia o laici entusiasti.
Contro la Theory – che mi sono preso la libertà di citare ampiamente – contiene molti spunti interessanti, alcuni più condivisibili, altri meno, tutti utili per far partire un ragionamento complessivo su di uno dei fenomeni filosofici di maggior successo degli ultimi anni, il cosiddetto “Italian thought” o “Italian theory” (d'ora in poi anche abbreviato in IT). Prima di tutto, vale la pena chiarire i campi di significato del termine, anche per verificare se l'IT sia veramente parente dello spettro globale della “Theory” che Carnevali ci restituisce nel suo articolo.
Sul successo dell'IT non c'è molto da obiettare: tra gli autori interni all'IT in senso proprio Esposito costituisce nel panorama filosofico sicuramente la pietra di paragone, a questo filone di ricerca è stata dedicata tra le altre cose una conferenza congiunta delle università di Paris-Ouest e Paris-Sorbonne, dal titolo interrogativo L’Italian theory existe-t-elle?, almeno un paio di testi di reference2 e una collana editoriale tematica3; ma soprattutto è oggetto di un numero imprecisato di articoli e monografie di tenore soprattutto accademico.
In forte contrasto con la popolarità di questa forma del sapere sta la sua scarsa afferrabilità storico-filosofica. La categoria di IT viene espansa da alcuni fino ad includere parossisticamente chiunque faccia filosofia in Italia, o ristretta a seconda delle convenienze. Esiste però, a mio avviso, un filone di IT “in senso proprio”, abbastanza distinguibile per riferimenti intellettuali e posizionamenti scientifici. Un pensiero proteiforme dunque, che si costruisce genealogie immaginifiche che arrivano ad includere persino Benedetto Croce e Dante (!) e che a tratti veramente sembra più – come afferma Carnevali – «un amalgama di idee e formule di varia provenienza disciplinare [...] estratte da un canone di autori disparati» che un progetto epistemologicamente coerente, ma di cui, nonostante tutto, si possono a mio parere individuare radici e paternità intellettuali: un retroterra (post)strutturalista più psicoanalitico che marxista, reminescenze francofortesi, il vecchio reazionario Schmitt, il foucaltismo biopolitico più che il pensiero di Foucault stesso, Benjamin e l'estetica politica, il Derrida della decostruzione, Agamben e la nuda vita. A questo canone si aggiungono suggestioni tratte da celebrità contemporanee della filosofia d'Oltralpe come Dardot, Laval e Rancière, e rari sconfinamenti nella filosofia anglosassone più vicina al continentalismo e a ciò che resta degli studi culturali. Categorie legate alla vita – la vita sottomessa al biopotere o privata di ogni diritto e ridotta a “nuda vita” – e quindi in fondo in fondo alla condizione individuale dell'umano costituiscono il nucleo della riflessione italiana; in esplicito o implicito contrasto con una dimensione collettiva concepita o in termini di tramite per una liberazione dell'individuo e dell'individualità o, specie se strutturata istituzionalmente, come minacciosa e repressiva – una tendenza affine a ciò che, nella filosofia critica secondonovecentesca, Foucault denunciava come «inflazione della fobia di Stato»4.
Ne fanno le spese, oltre a Marx ed Engels, Deleuze e Guattari, meno valorizzati rispetto ai french theorists di scuola strutturalista.
Rispetto alla carrellata di autori amati dai theorists fatta da Carnevali, anche se non escludo che qualcuno li usi come fonte di «idee e formule», eliminerei con sicurezza dalla genealogia dell'IT anche Said, Bourdieu, Spivak e Latour, tutti esponenti di forme di pensiero troppo “sociologiche” o troppo sistematiche (Latour, almeno per quanto riguarda la sua teoria della realtà sociale) per quello che – e questo è un altro punto in cui l'IT si differenzia dalla Theory di Contro la Theory – è e resta, in ambito italiano, un fenomeno squisitamente filosofico e, oltre a filosofico, accademico.
Ed è proprio questa forte connotazione accademica, nel duplice senso di “interna all'istituzione universitaria” e “astratta”, che crea i maggiori problemi e rende a mio parere difficile o impossibile il dialogo con il pensiero operaista e con le sue categorie, tentato con alterne fortune dai più politicizzati tra gli italian theorists. L'operaismo (o postoperaismo, il dibattito è aperto) infatti, oltre ad avere tutt'altra storia, è essenzialmente un pensiero militante5, con una prassi di ricerca che della militanza di classe parte e che da questa si legittima. Al contrario l'IT, come ben evidenzia Fabio Dei parlando delle categorie di “biopotere” e “nuda vita”, spesso agisce come una sorta di nuova «filosofia della storia in cui ogni cosa trova il suo posto e il suo senso, prima di ogni analisi empirica»6.
Tra questa prassi e la conricerca operaista, a mio parere, esiste una considerevole incommensurabilità. La militanza di classe infatti non esiste nell'astratto, è un gioco di azione-reazione con realtà vive e plurali di cui l'analisi si alimenta e su cui forma le proprie categorie; è in questo che il dogmatismo cattedratico ha sempre tradito lo spirito di Marx.
Sia chiaro, non voglio assolutamente fare dello sterile antiaccademismo, o attaccare frontalmente l'intera IT sul terreno della presunta necessità di un pensiero “popolare” come a volte fanno coloro che in Italia si riconoscono nel gramscismo neopopulista di Laclau e Mouffe; l'università ha ad oggi una indiscutibile centralità come istituzione produttrice e legittimatrice dei saperi, che la rende l'ambiente innaturale meno inadatto al pensiero critico, il linguaggio non può essere più semplice del contenuto di pensiero che esprime.
Inoltre, la scelta di accostarsi al lato astratto delle questioni può essere perfettamente legittima, se non si pretende di giungere inevitabilmente al vero e al reale tramite la deduzione da premesse, per quanto giuste (ironicamente, ci si porrebbe involontariamente in parentela con Mises, Hayek e la Scuola austriaca di economia).
In conclusione, premesso quanto sopra, l'IT può continuare il suo programma restando ciò che è, riuscendo dove è riuscita in passato e fallendo in ciò che è già fallita.
Nel caso intenda sostanziare le proprie ambizioni con un'evoluzione possibile credo debba prima di tutto risolvere la contraddizione tra l'ideologia libertaria e anti-istituzionale che le è propria e l'oggettiva posizione dell'IT all'interno dell'accademia, partendo dal riconoscere questa antinomia per rinnovare alcuni arnesi intellettuali che appaiono oggettivamente datati e per approdare ad un'analisi della stessa istituzione universitaria.
Si potrebbe partire da ciò che già esiste in questo ambito, in quelle tracce di pensiero sull'Accademia che, pur presentandosi ripiegate nell'intimismo dell'autobiografia e nella nostalgia (o nella Hauntology7), offrono preziose nuove piste8.
Risolta questa questione capitale, se l'IT vuole davvero giocare nel campo del pensiero di classe e rendere possibile il sincretismo impossibile con l'operaismo è bene che si alzi dalla comoda panchina della filosofia filosofata, confrontandosi con l'oggetto di discipline come l'antropologia e la sociologia: una realtà che chiede di sporcarsi le mani, composta di fatti che, come insegna il saggio della Lena, hanno la tendenza ad avere la testa dura.
1 Barbara Carnevali, Contro la Theory. Una provocazione, Le parole e le cose 19/09/2016, http://www.leparoleelecose.it/?p=2432
2 Dario Gentili, Italian Theory. Dall'operaismo alla biopolitica, Il Mulino, Bologna 2012; Dario Gentili e Elettra Stimilli (a cura di), Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, Deriveapprodi, Roma 2015.
3 Materiali IT presso l'editore Quodlibet, https://www.quodlibet.it/catalogo/collana/81
4 Michel Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, Seuil-Gallimard, Parigi 2004, trad. it. Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005, p. 155
5 Ne parla in termini simili De Michele in una sua recensione di poche settimane fa http://www.euronomade.info/?p=10095
6 Fabio Dei, Spettri del Biopotere, in Francesco Bachis e Antonio Maria Pusceddu (a cura di), Storie di questo mondo. Percorsi di etnografia delle migrazioni, CISU, Roma 2013, pp. 45-65
7 https://www.theguardian.com/books/booksblog/2011/jun/17/hauntology-critical
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