Mercoledì, 06 Giugno 2018 00:00

Simone Weil, pensiero a dismisura: una presentazione (parte 2)

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Simone Weil, pensiero a dismisura: una presentazione (parte 2)

La prima parte cliccando qui.

Forse proprio perché sconfinato, proprio perché così teso verso l’infinito, questo pensiero allo stesso modo in cui non riusciva in qualche modo a toccare il limite o a confrontarsi veramente con esso, non voleva e non poteva trovare e raggiungere qualcosa di definitivo. Per questo la sua ritrosia a lasciarsi abbandonare fino in fondo. Oltretutto avvertiva come totalmente superfluo e piuttosto insignificante il proprio abbandono a Dio: «C’è realmente gioia perfetta ed infinita in Dio. La mia partecipazione non può aggiungervi nulla, la mia non-partecipazione nulla toglie alla realtà di questa gioia infinita e perfetta. Se è così, che importanza può avere che io vi debba aver parte o no? Nessuna»[1].

Allo stesso tempo però questa lucidità di visione, questa ferrea coscienza che la verità esiste non lasciava spazio a nessun tipo di relativismo. Da qui l’approccio mistico che caratterizza, come accennato sopra, ogni riflessione della filosofa. Cristina Giachi l’ha scoperta proprio per questo misticismo, filtrato attraverso la mistica medievale, in particolare quella di Meister Echkart, grazie alle lezioni del professore di liceo Marco Vannini, che, grandissimo esperto di mistica cristiana, aveva parlato di Simone Weil proprio trattando della mistica medievale. Tuttavia in questa “disincarnazione di Weil”, nella sua difficoltà ad accettare il limite del contingente (e al contempo anche il limite del definitivo, dell’acquietamento ultimo di qualsiasi umana ricerca, dunque anche quella del pensiero, nella pace della grazia rivelata), in tale difficoltà a calare la propria idea del bene e del vero nella storicità dell’esistenza, in questa “insostenibile leggerezza dell’essere” (laddove in tal caso la leggerezza sta proprio a indicare la lievità, ciò che è etereo, quasi incorporeo), Giachi non riesce a riconoscersi: «Oggi credo che tra quel bene sovraordinato al mondo e la nostra azione quotidiana nel mondo corra una relazione che passa per l’accoglienza del limite nell’azione come modo per incamminarsi, accettando il rischio dell’incompiutezza, verso la realizzazione dei valori più alti»[2]. Anche il concetto stesso che Weil ha di verità non è del tutto analogo a quello che ne ha la professoressa di diritto romano.

Weil cercava la Verità eterna, ab-soluta, da cui deriva tutto e che proprio per la sua assolutezza non può trovare incarnazione nella contingenza, mentre la verità del mondo, degli uomini non può che essere una verità parziale, non nel senso di relativa, ma perché la visione stessa degli uomini non può che esser parziale, imperfetta, condizionata. Weil non è riuscita fino in fondo a integrare questa consapevolezza del vero e del bene, questa passione della sacralità dell’essere umano, nella sua unicità e singolarità – concezione che le derivava sicuramente dal suo rapporto col cristianesimo –  con l’accettazione dei limiti dell’umano stesso, delle “sfide” dell’esistenza umana, con l’accettazione del relativismo della soggettività umana, della parzialità di ciò che è contingente, di ciò che è terreno con la sua inevitabilità di compromessi e di condizionamenti: «mi è sembrato che lei aspirasse a tale integrazione ma nell’intimo del suo pensiero, più che nella sua esistenza, non si concesse mai davvero […] di integrare la dimensione sociale, la pesantezza del limite, del condizionamento contingente, con la tensione verso la verità e il bene. La polarità tra questi elementi […] richiedeva l’abbandono di sé alla grazia, a una forza altra che superasse anche il pensiero. […] Lei incarnò la contraddizione dell’esistenza mistica: era con tutta se stessa sospesa sulla verità, in cerca della grazia, della forza per abbandonarvisi, e al contempo trascinata da un pensiero forte e volitivo in un isolamento sublime: terribile e bellissimo»[3].  Chiarezza del vero e incapacità di coglierlo e accoglierlo nella dimensione del terreno e dell’umano. L’incontro con la politica da parte di Giachi ha accentuato la distanza rispetto a questa prospettiva weiliana del vero e del bene fuori dalla dimensione incarnata, fuori e oltre il mondo, sopra, molto più in alto del mondo: «La politica […] è questa via nobile, tutta immanente e incarnata, indispensabile da percorrere per collocare la ricerca della verità, la tensione all’assoluto dei valori […] nell’orizzonte di un’azione quotidiana, feriale, concreta. Io ho imparato ad amare il trafficare con le cose di terra e di sasso che il fare politica comporta, e trovo che possa essere il luogo di un’incarnazione vera nel senso più alto del termine»[4]. Per Giachi la persecuzione di un ideale di verità, di bene collettivo, di giustizia, per quanto parziale possa essere, è perseguibile innanzitutto nella dimensione storica di cui – e in cui –  siamo impastati, in cui, ogni giorno, nel momento presente, ci dobbiamo “sporcare le mani”. È in ciò che è umano, per quanto imperfetto possa essere, che va ricercata una possibile verità, ed è proprio nella fiducia nella perfettibilità di ciò che è umano e di quello che è il nostro mondo, che devono andare i nostri sforzi, il nostro impegno quotidiano, la nostra lotta politica. È l’anelito testardo e cocciuto a voler costruire un mondo migliore in questo stesso mondo che muove la dimensione politica dell’esistenza e che incita alla possibilità di cambiamento nell’hic et nuncdella contingenza storica, e non guardando altrove, verso un orizzonte ultraterreno: «Imparare a conciliarsi con la mediocrità propria e del mondo, è una via che Simone Weil […] difficilmente ha accettato di intravedere nel suo guardare al mondo, incapace com’era […] di qualunque, seppur minimo, compromesso […]. Mi piaceva questo ardimentoso modo di essere, e allo stesso tempo non mi apparteneva fino in fondo […] Poi ho capito che a spingermi in un’altra direzione […] era una passione profonda per una dimensione più incarnata dell’esistenza, meno sublime ma più viva. Un realismo animato, e a tratti innamorato della sua mediocrità»[5]

Il politico è lo spazio più vivo (e vitale) e bello dell’esistenza (che poi tutto, in realtà, è politico), ma l’unica politica possibile, è quella che si porta avanti in mezzo agli uomini e alle donne, che si fa per uomini e donne del momento storico che stiamo vivendo e per quelli e quelle che verranno dopo. Con questo non si vuole certo dire che Weil non abbia avuto una vita e una passione politica, anzi, tutto quello che ha vissuto era politico. La politica vera, quella nobile, quella che oggi non sappiamo più riconoscere né amare, svilita come è dalla pseudo politica di molti politicanti di professione che (s)vendono sé stessi e il proprio vuoto programma politico come fosse un mero marchio, un brandda pubblicizzare. La politica che viene vilipesa da una fetta sempre più ampia e aggressiva della società perché la confonde con “la casta”, con la corruzione e/o la mala-politica di una parte della classe dirigente. Così come viene osteggiata la forma-partito: i partiti sono considerati inutili e  desueti, in nome del superamento di qualsiasi ideologia, dell’annichilimento di ogni categoria politica, della neutralizzazione e omologazione di qualsiasi diade oppositiva (come la destra e la sinistra, il fascismo e l’antifascismo, ritenuti da molti categorie superate e non più necessarie e attuali), dell’annullamento di  qualsiasi presa di posizione, come se fosse sbagliato scegliere convintamente da che parte si vuole stare quando si crede ancora che esistano, e siano ben distinte, almeno due parti. Prendere partito, nel senso nobile del termine, significa stare dentro la storia, dentro la sua concretezza, pur consapevoli che non si può mai essere del tutto liberi dalle reti dei condizionamenti, di cui non si può non essere, almeno in parte, schiavi, ma, come scrive Weil in L’ombra e la grazia, se è vero che «ogni uomo è schiavo della necessità, lo schiavo cosciente è molto superiore». Prendere partito o aderire a un partito perché si ha alle spalle un’idea chiara di dove e cosa sia la verità, un idea di ciò che è giusto, di ciò che è bene e la convinzione di poter realizzare queste idee organizzandosi insieme ad altri che condividono una simile visione.

Eppure, benché Weil si spendesse strenuamente, in maniera mimetica persino, nella lotta politica e sociale, nel vivere energicamente sulla propria pelle le ingiustizie e le miserie che osservava intorno a sé, non si è mai iscritta a un partito politico, anzi ha persino evocato la soppressione stessa dei partiti politici, perché scorgeva nelle loro aspirazioni di “fabbricare passione politica […] esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte […] e la propria crescita senza alcun limite”[6] la degenerazione in organizzazione totalitaria che avrebbe messo in secondo piano il proprio fungere da strumento destinato a servire una certa visione del bene pubblico, del bene della collettività, della giustizia sociale. L’unico partito da cui era attratta era il partito comunista ma ne rifiutò la struttura gerarchica e burocratizzata. Forse Weil non ha mai preso la tessera di un partito anche perché intravedeva che spesso chi vi aderiva lo faceva senza avere alla spalle questa ricerca articolata del vero, senza che vi fosse dietro questa “presa di partito” la costruzione di una visione della verità che fosse capace di essere argomentata, ma che semmai a spingere verso un partito fosse una mera adesione al verosimile, che è il più temibile nemico della verità, ancor più del falso, in quanto accettare e perseguire il verosimile significa smettere di cercare il vero. Tuttavia la filosofa non ha mai smesso di prendere posizione, proprio perché era estremamente consapevole di ciò che era giusto e di ciò che era ingiusto, sapeva chiaramente e radicalmente da che parte stare. Si può dire infatti che, nonostante la sua diffidenza (che chi scrive non sente di condividere) nei confronti dei partiti, Simone Weil abbia sempre aderito, nella sostanza, a un socialismo vero, vissuto concretamente. Non ha mai smesso di essere contro qualsiasi forma di oppressione, in particolare quella legata alla produzione, cercando di studiarne e comprenderne i meccanismi che la muovono, come mai sorge, si trasforma e cosa potrebbe farla, almeno teoricamente, sparire (e in questo le letture di Marx le risultarono illuminanti[7]).  Il suo radicalismo, questo suo bisogno di comprendere, di vivere fino in fondo le realtà di oppressione e di contrasto a questa, è dimostrato anche dalla sua scelta di andare a lavorare in fabbrica per condividere la fatica, le condizione, le lotte e il destino degli operai. Esperienza che si è riversata nelle bellissime pagine de La condizione operaia in cui emerge limpidamente l’alienazione dei lavoratori legata a una sempre più massiccia “meccanicizzazione” e “automazione” del lavoro e soprattutto al dispositivo, alienante appunto, della catena di montaggio. Il suo essere così netta poteva passare persino come fanatismo, tanto da farla sembrare dura e “intollerante” verso posizioni diverse dalla sua, proprio perché per lei era così chiaro dove fosse il vero, dove stesse la ragione ed era chiaro da che parte stare, a fianco di chi lottare.

Altro motivo di distanza tra Giachi e Weil è l’idiosincrasia di quest’ultima nei confronti del diritto romano, probabilmente condizionato anche dall’esaltazione della romanità e della forza dei romani, da parte del regime nazionalsocialista – «lo [il diritto] intendeva come luogo dell’autogiustificazione della forza, accostando forzatamente, ma comprensibilmente, l’Impero romano e lo stato hitleriano»[8]. In realtà, ha spiegato la docente fiorentina, Weil conosceva solo l’aspetto legalisitico del diritto, non scorgendo invece la sua origine nel modello romano. Questa origine va ricercata nel lavoro intellettuale dei giureconsulti romani, negli sforzi del loro pensare e del loro confrontarsi. Il diritto è una regola che nasce dal pensiero, dalla discussione, dal confronto tra alcuni individui che, in base ai loro studi e alle loro ricerche e ispirati da certi valori, da certi ideali guida, elaborano certe categorie, certe leggi. Il diritto romano, in questo senso, non nasce dal mero comando politico. Forse se Weil avesse colto questo mondo presente nel diritto romano, pullulante di razionalità, di pensiero, di riflessione, di costruzione intellettuale della giustizia terrena, e che ispirato da certi valori-guida, costituiva esso stesso un argine alla forza e alla violenza indisciplinate, avrebbe mitigato il suo giudizio così negativo. Il fatto è che per Weil la giustizia risulta fuori dalla “portata degli uomini, impossibile da realizzare se non sul piano della verità, il piano dell’infinitamente altro, il piano di Dio. Sfuggiva alle maglie della filosofia weiliana proprio quell’aspetto di metafisica sociale, di universale sospeso sulle cose di terra, che il diritto dei romani pienamente era. Credo che colta in questa luce […] avrebbe finito per amare la razionalità del diritto romano”[9].  È di nuovo nel rapporto col cristianesimo che si scorge questa incapacità di accettazione del limite, incarnata in questo caso dalla dimensione del diritto concepito da lei come una regolazione terrena e tutta umana e quindi lontana dalla verità. Ma, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, la sua perenne e faticosa tensione e aspirazione verso “le cose più alte”, era a sua volta frustrata e a sua volta inappagata dal rifiuto del definitivo, impedita proprio da ciò che di più potente aveva: la bellezza del suo pensiero, del suo lavoro intellettuale in cui finalmente «esprimeva tutta se stessa ed era lì che incontrava il limite al suo rapporto con il Dio rivelato dal cristianesimo»[10], in «quell’amore per la verità che la spingeva a rifiutare la definitività contingente di qualunque rivelazione: sempre in ricerca, sempre tesa verso la verità, verso […] l’assoluto»[11]. Spiritualità di un pensiero sublime, mistico e radicalità di un pensiero intellettuale, razionale, così lucidamente teso verso la ricerca di ciò che è vero.

Misticismo e radicalismo che dunque sembrano essere proprio le componenti fondamentali della costruzione intellettuale ed esistenziale di questa straordinaria donna, vissuta in un tempo che in effetti richiedeva un’opposizione radicale rispetto agli orrori che si stavano preparando. Anche se Weil non ha fatto in tempo a vivere gli esiti del nazionalsocialismo (è morta nel 1943 all’età di soli 34 anni, un periodo di vita brevissimo soprattutto se paragonato alla mole della sua opera) si rese presto conto del dramma dell’ascesa del nazismo, ne intuì subito la tragicità, ne denunciò le violenze, le aberrazioni, le mostruosità. Weil ha sempre avuto chiaro dove fosse la giustizia.

La giustizia con la G maiuscola e in nome di questa giustizia ha sempre osteggiato qualsiasi oppressione, qualsiasi umiliazione, qualsiasi sfruttamento nei confronti di alcuni esseri umani, di quelli più deboli, più sventurati, nei confronti di quelli che vengono sfruttati, discriminati, che sono considerati gli ultimi della società. Un senso di giustizia e un’idiosincrasia dura e radicale verso ogni forma di violenza, di ostentazione di forza, di ingiustizia, di oppressione, che faceva tutt’uno con la sua stessa esistenza. Riassumendo molto, Weil lottò a fianco di operai, contadini, disoccupati unendosi agli scioperanti e militando come sindacalista; si impegnò sempre nella denuncia dei totalitarismi, si unì alla Resistenza (si recò anche in Spagna per raggiungere le brigate anarchiche di Durruti, seppur per soli diciannove giorni, a causa di un “goffo” incidente che la fecero sentire e percepire più come un impiccio che come un aiuto) e per solidarietà ai suoi concittadini, ridusse l’alimentazione ai limiti consentiti dalla tessera di razionamento. In nome della sacralità dell’essere umano, della sua singolarità di persona e non nella sua accezione di appartenente al genere umano.

Come si legge nell’introduzione di Cristina Giachi «la teneva avvinta al genere umano il senso di una compassione vera, solidale, universale tributata al singolo individuo proprio in quanto tale e non nella sua appartenenza al genere umano, nella sua forma di persona […]. Credo che tale sentimento di compassione in senso forte, oltre al desiderio di conoscere, fosse all’origine delle scelte che più volte l’hanno condotta a condividere la sorte di quanti si trovassero faccia a faccia con la sventura nelle sue più varie manifestazioni, prime fra tutte quelle dell’oppressione, della guerra e dell’alienazione del lavoro in fabbrica. La sventura come cornice tragica dell’esistenza ha accompagnato molte delle sue scelte attraendola là dove l’umanità si presentava alienata, vessata, oppressa. Fu operaia alla catena di montaggio, partigiana sui fronti rivoluzionari, morente di stenti nell’Europa dilaniata dalla guerra. Non fece in tempo forse a contemplare tutto il dispiegarsi dell’orrore nazista, ma visse abbastanza da poterlo vedere e da desumerne una chiave interpretativa della realtà di assoluto rifiuto della forza in qualunque sua accezione o sfumatura»[12].

Weil era talmente radicale che ha vissuto la sua breve esistenza in maniera del tutto coerente e aderente a quello che pensava, vivendo esattamente le posizioni che aveva. Questo sembra stridere con un’altra delle caratteristiche più salienti della sua persona: un incomprensibile (per noi) senso di inadeguatezza, di insufficienza, di inferiorità, provata soprattutto nei confronti del fratello André, un genio della matematica che lei ammirava così tanto da sentirsi infinitamente più piccola, più umile, rispetto a lui. il suo senso di inadeguatezza si riversava anche sulla sua grafia, considerata da lei terribile, ma che, con uno sforzo estremo di volontà,  riuscì a migliorare. Uno dei tanti punti di contatto e di quasi simbiosi con Cristina Giachi che ha raccontato di aver avuto problemi con la propria grafia e di averli risolti grazie a una ferrea forza di volontà e a una stakanovistica esercitazione e auto-correzione. Quella di Weil è un’umiltà commovente se si pensa alla straordinarietà del suo pensiero, del suo ingegno, della sua immensa opera e anche alla pienezza della sua vita, per quanto breve essa fu. Commuove pensare che nonostante la chiarezza, la lucidità della sua visione, questo senso di insufficienza, di mancanza, la tormentava, la costringeva a misurarsi sempre con la fatica, non solo con la fatica nella dedizione alla ricerca, ma anche con la fatica delle sue esperienze di vita, prima fra tutti quella come operaia. Il suo senso di inadeguatezza però non le ha mai impedito di saper riconoscere la bellezza e anche in questo era radicale. Questo deve aver condizionato anche il suo rapporto insano col cibo. Come ha raccontato Giachi, Weil avrebbe potuto mangiare solo cibi di prima scelta, ma era costretta, per il suo senso di equità, di giustizia sociale, di solidarismo, a privarsene e quindi mangiava poco e magari solo grazie a qualche benevolo stratagemma ideato dalla madre. Negli ultimi giorni di vita mangiava soltanto ciliegie. Secondo alcuni voleva lasciarsi morire di stenti. O forse, chissà, è perché le ciliegie sono bellissime. Il suo senso sublime e non terreno, estatico più che estetico, della bellezza le si ritrova nella struggente chiusa di una lettera che Simone scrive in fin di vita ai suoi genitori: «Non siate ingrati verso le cose belle. Godete di esse, sentendo che durante ogni secondo in cui godete di loro, io sono con voi… Dovunque c’è una cosa bella, ditevi che ci sono anch’io»[13]

Quando si incontra Simone Weil, e a maggior ragione quando si ha l’onore e il piacere di viaggiare insieme a lei, annodando il proprio pensiero e il proprio cammino ai suoi, come è successo a Cristina Giachi o a Cristina Campo (al secolo Vittoria Guerrini), che per prima tradusse l’opera di Weil curandone l’edizione in italiano, non si può non pensarla come una figura bella, nel senso più alto del termine. Una figura, dotata di una bellezza dolente, struggente, di un’intensità a volte indecifrabile, ma così potente da esplodere e strabordare “a dismisura” lasciandoci inermi e folgorati.

Folgorati e turbati di fronte alla sua «tensione alla ricerca della verità, e nel suo stare di fronte all’assoluto, nuda, perfettamente consapevole di sé, abitata da una grandezza umile. Smisuratamente alta»[14].


 

(N.B: tutti i brani di S. Weil riportati nelle note, sono tratti da Simone Weil. Pensiero a dismisura, a cura di C. Giachi).


[1] S. Weil,L’attesa di Dio, 1941.

[2] C. Giachi, op. cit., pp. 32-33.

[3] Ivi, pp. 30-31.

[4] Ivi, p. 33.

[5] Ivi, p. 40.

[6] S. Weil,Manifestoper la soppressione dei partiti politici, in Appunti per la soppressione dei partiti politici, 1951.

[7] «Marx [comprese] che non è possibile sopprimere l’oppressione finché sussistono le cause che la rendono inevitabile, e che queste cause risiedono nelle condizioni oggettive, cioè materiali, dell’organizzazione sociale. Egli elaborò così una concezione dell’oppressione del tutto nuova, non più in quanto usurpazione di un privilegio ma in quanto organo di una funzione sociale. Si tratta di quella medesima funzione che consiste nello sviluppare le forze produttive, nella misura in cui questo sviluppo esige duri sforzi e pesanti privazioni; e tra questo sviluppo e l’oppressione sociale, Marx ed Engels hanno scorto delle relazioni reciproche». (S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, 1934).

[8] C- Giachi, op. cit., p. 34.

[9] Ivi, p. 37.

[10] Ivi, p. 44.

[11] Ibidem.

[12] ivi, pp. 25-26.

[13] Ivi, p.20.

[14] Ivi, p. 45.


Immagine di copertina liberamente ripresa da www.kickstarter.com
Ultima modifica il Mercoledì, 06 Giugno 2018 00:29
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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