La presentazione del libro è stata cadenzata dalle letture di alcune delle poesie o dei pensieri più potenti e intensi di Weil, e dalle domande poste a Giachi da Isabelle Mallez. Una delle parole che nel testo compare più volte, ha sottolineato Mellez, è la parola “radicalismo”.
Ed è proprio il radicalismo di questa straordinaria filosofa che ha attratto prima di tutto Cristina Giachi quando negli anni ’80, era una giovane ragazza che frequentava il liceo: «A incrociare fatalmente i percorsi mentali della studentessa che ero fu la forza adamantina e trasparente di Simone Weil, capace di proiettare ogni pensiero su uno sfondo chiaro, di inondarlo di luce, di condurlo a essere allo stesso tempo sagoma con profili nettissimi, e figura con dettagli non oscurati dal buio fitto del controluce. […] da allora la mia crescita personale, qualunque essa sia stata, ha trovato una propria misura in relazione a quel radicalismo, alla distanza e all’attrazione per quel radicalismo del pensiero e per la forza di quella capacità di astrazione»[2]. Questo radicalismo, della vita, del pensiero, della visione di Weil si stagliava in maniera ancor più netta perché si mostrava come diametralmente opposto rispetto a un’epoca, come quella di fine anni ’80, in cui si era spento lo spirito di lotta, di contestazione, di anticonformismo, in cui si erano smorzati quasi del tutto quella “fame di politica”, quella voglia di riscatto, di pace e di fratellanza, quel grido di libertà e di liberazione, di indipendenza e di emancipazione che avevano scosso febbrilmente gli anni ’60 e ‘70 per scivolare sempre di più in una lenta ma inesorabile deriva verso il conformismo, il consumismo, la moda, l’edonismo, la liquidità delle idee e delle passioni. A fine anni ’80 la politica stava perdendo sempre di più la sua tensione ideologica, il suo orientamento verso la res publica, verso la dimensione del sociale, per scadere nel clientelismo, nel carrierismo, nella corruzione (degenerata poi a inizio anni ’90 con lo scandalo Tangentopoli). In un simile contesto, scrive Giachi, «La ricerca weiliana si presentava a me, allora, come un coacervo di ciò che di più antitetico si potesse immaginare rispetto al tenero del costume e di una fetta del mainstream culturale di quel tempo che […] vedeva diffondersi fenomeni decisamente decadenti. Gli anni ottanta della politica che perdeva la propria funzione di orientamento sociale, della televisione commerciale, dell’edonismo, delle discoteche […]. Simone Weil si stagliava per me come un gigante. La sua critica ai cliché culturali e politici si mostrava attualissima, articolata […] Si trattava, in effetti, di un pensiero assolutamente lontano da qualunque possibile conformismo»[3]. Quasi da provare un vero choc di fronte a un pensiero così alto, dinanzi a una visione così netta e chiara delle cose, tanto netta da non lasciare spazio ad alcun compromesso, a mezze misure, ma al tempo stesso una visione colma di umanità, di amore per la singolarità dell’altro, dell’essere umano in quanto tale e in quanto prossimo, un amore infinito e disincarnato per la sacralità della persona umana: «Credere all’esistenza di altri esseri umani in quanto tali è amore», si legge in L’ombra e la grazia (1940) e ancora, ne La persona e il sacro(1942-43) «Dalla prima infanzia fino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano […] si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, anzitutto, che è sacro nell’essere umano. Il bene è l’unica fonte del sacro”. Un amore del tutto anonimo e pertanto universale, verso quel prossimo che è “un essere nudo e sanguinante svenuto sulla strada».
E l’amore si rivolge anche verso l’alto, verso il sublime, verso l’assoluto, verso Dio e la grazia, cui il pensiero di Weil, non solo quello filosofico, tende sempre. In ogni piega delle sue riflessioni, della sua eterna ricerca del vero, nella sua vertiginosa tensione verso la verità vibra la chiarezza della visione, la consapevolezza che la Verità, il Bene, hanno sede altrove rispetto al mondo, rispetto alla contingenza, rispetto alle faccende mondane degli uomini. Il vero, l’assoluto non trovano incarnazione, non trovano un luogo fisico, materico in cui risiedere, in cui incarnarsi. Nonostante questa consapevolezza Simone non si è mai lasciata abbandonare a Dio, perché proprio la sua “abdicazione” alla ricerca della verità ha impedito che questa stessa ricerca potesse trovare finalmente riposo e appagamento nella chiarezza così limpida della propria visione. Acquietare il pensiero nella Verità significa smettere di tendere ad essa, smettere di cercarla. C’è una poesia molto bella scritta dalla stessa Weil in cui si comprende questa sorta di conflitto tra il desiderio della ricerca costante del vero e la consapevolezza esatta di dove questo vero risieda. Un conflitto, un cortocircuito che si “risolve” nell’impossibilità (dunque non risolvendosi) del proprio abbandonarsi a questa verità così chiara, nel non voler varcare la soglia pur avendo ben visibile cosa si celi dietro la porta: «Questo mondo è la porta chiusa. È una barriera, e nello stesso tempo è il passaggio […] E la porta, aprendosi, lasciò passare tanto silenzio. / Ma né frutteti né fiori abbiamo visto; / Solo lo spazio immenso dove sono il nulla e la luce / Ci apparve improvvisamente da ogni parte, ci colmò il cuore / E lavò i nostri occhi quasi ciechi oltre la polvere»[4]. Una “fede imprecisa”, quella della filosofa francese, in quanto la sua totale adesione al messaggio cristiano, di cui lei riconosce tutta la potenza e da cui si sente avvinta e travolta, la sua tensione vissuta così profondamente, il suo legame con l’assoluto sentito in maniera così traboccante, non trovano incarnazione nel terreno, nelle forme concrete dell’esistenza. Weil era cosciente di non potersi lasciare placare la sua ricerca intellettuale dalla definitività della rivelazione di Dio, con cui comunque mantiene un rapporto costante e a cui rivolge un’interrogazione serrata (si leggano le lettere che la filosofa scrive a padre Perrin), per questo decide di rimanere davanti alla porta e di non varcarla. Allo stesso tempo proprio il suo pensiero così alto, così mistico e sublime, fa sì che ogni sentimento, del divino, dell’amore, dell’amicizia, della politica, della giustizia eccetera, “vibri” di questa impossibilità a trovare un posto fisico, un’incarnazione nell’immanenza del reale, nonostante la chiarezza per Weil, di ciò che essi fossero, in questa incessante ricerca della verità, la Verità eterna, pura, fuori dal mondo, da cui per la filosofa sgorga tutto, bellezza, amore, amicizia, giustizia.
È proprio il suo tendere così fortemente, così visceralmente verso il vero che ha fatto sì che non vi si potesse abbandonare una volta per tutte, che non potesse arrestare gli sforzi della mente, della regione, della sua stessa vita (aderente del tutto al suo pensiero) nella pienezza di questo vero così chiaro per lei eppure volutamente irraggiungibile, volutamente in-definibile, pena la fine di questa stessa ricerca in cui investiva tutta la sua fatica, le sue energie, i suoi sforzi. Verità come “tensione all’unità, e all’abbandono delle catene di ciò che appare contingente, non necessario. In quel tendere c’era radicalismo e chiarezza di visione uniti a una passione […] incandescente”[5], si legge nel libro curato da Giachi, che davvero sembra cogliere i lati più intimi e tormentati del pensiero della filosofa novecentesca. Tale incapacità di Weil nel conciliare “l’idea dell’ombra, del limite – vissuto sempre come ostacolo, mai come elemento – […], le rese durissima l’esistenza”[6]. Eppure questa impossibilità di intravedere il vero, il buono, il giusto in una dimensione incarnata dell’esistenza non le ha mai impedito di appassionarsi (nel senso etimologico del termine) all’esistenza stessa e alla stessa umanità, alle dinamiche del suo tempo, alla storia e alle storie del suo tempo, vivendone fino in fondo tutti i contesti, patendo e lottando profondamente laddove c’era da patire e da lottare (si pensi alla lotta partigiana o alla lotta a fianco degli operai), stando, in maniera quasi “vorace” dentro il suo presente, pur consapevole che tutto questo fosse un limite allo slancio verso una dimensione altra e più alta. «Visse la passione dell’esistenza, ma forse come esperienza del limite, di zavorra all’elevazione di un’architettura dell’essere che il suo pensiero potente le dipanava sotto gli occhi»[7]. Una passione per la vita compromessa però dall’incapacità di vedere in questa stessa vita, nella contingenza del reale, una possibilità di incarnazione. Si avverte, ha spiegato Giachi, in Weil questa disincarnazione, questa insostenibilità alla presenza fisica, un suo insostenibile esserci come corpo, come presenza fisica, eppure abitata da un pensiero sconfinato.
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[1] S. Weil, Pensiero a dismisura, a cura di C. Giachi, Ed. Clichy, Firenze 2017, pp. 21-22.
[2] Ivi, p. 22.
[3] Ivi, p. 23.
[4] S. Weil, Quaderni, 1940-42.
[5] C. Giachi, op. cit., p. 28
[6] Ivi, p. 30.
[7] Ibidem.
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.joaoangelico.com, copertina del libro ripreso dal sito della casa editrice www.edizioniclichy.it