Sì, penso che ci sia una domanda di cura e a mio avviso sta crescendo, sebbene ancora sia lontana dall’aumentare quanto dovrebbe. Noi ci troviamo davanti a quelli che molti sociologi, in particolare il noto sociologo tedesco Urlich Beck, hanno chiamato rischi globali, ovvero quei fenomeni che vanno dal riscaldamento del pianeta alla minaccia nucleare, ma a cui a mio parere andrebbero aggiunti anche aspetti meno clamorosi che però sono ciclici e ricorrenti: per esempio le catastrofi ecologiche – non solo legate al global warming – come nel caso delle perdite di petrolio in mare; oppure tutti quei virus che si sono succeduti negli ultimi anni (sars, aviaria, ecc..), e infine anche il terrorismo internazionale. Insomma, siamo davanti ad una serie di sfide che siamo del tutto impreparati ad affrontare.
Il problema è che la nostra psiche sembra sia refrattaria a provare reale paura di fronte a fenomeni così sfuggenti e che non sappiamo gestire né controllare. A tal proposito potrei citare il disastro di Chernobyl: ero in Francia in quel periodo e ricordo che mentre i miei amici italiani stavano attenti a non mangiare verdure o altri prodotti, i francesi, che sono pieni di centrali nucleari tendevano a denegare, convinti che la nube non arrivasse fino a loro. Ma chi ce lo dice? Chi ci dà questa certezza? Non è possibile misurare questi eventi irreversibili. Questo vale anche per il caso più recente di Fukushima. il devastante maremoto che poi si è trascinato dietro il disastro nucleare: inizialmente c’è stato un bombardamento mediatico e poi tutto finisce nel silenzio più totale. Non se ne è più parlato. Noi non ce ne occupiamo più, perché pensiamo che non ce ne sentiamo veramente toccati.
2) Quali potrebbero essere i soggetti chiamati a rispondere a questa domanda di cura?
Questo è l’altro grande problema oggi. L’attribuzione di responsabilità. Il blaming. A chi dare la colpa, come siamo arrivati a questo punto? La politica, lo Stato, le istituzioni, non hanno interesse a fare i conti con questi problemi, nel senso che poi di fronte alla loro impotenza diventa assolutamente difficile prendere provvedimenti. Sono rischi talmente pervasivi, talmente indefiniti, talmente poco conosciuti..che la politica non ha gli strumenti necessari per far fronte a questi fenomeni e allora tende a rimuovere, fa finta di nulla, rimane in silenzio, non dà informazioni adeguate. Si tratta di una situazione che un sociologo contemporaneo molto noto, Zygmut Bauman ha definito come “perdita del controllo”. Ci sentiamo tutti privi della possibilità di controllo, impotenti, non solo noi cittadini. Sono dinamiche liquide (per usare un termine preso di nuovo in prestito da Bauman), sfuggenti che non riusciamo ad afferrare, sia rispetto alla diagnosi, sia rispetto alla prognosi.
3) L’altra domanda, concernente il tema della cura è questa: se la si intende come il termine tedesco sorge suggerisce, ovvero come preoccupazione, e anche seguendo la linea di Hans Jonas (soprattutto in “Il principio di responsabilità”), come ciò che inerisce alla nozione di responsabilità – cosa che implica l’occuparsi di qualcosa – da dove pensa che possa derivare questa mancanza di preoccupazione di fronte ad una natura violentata e che si sta ribellando con tutto il suo potenziale di distruzione? Deriva da un’insufficiente informazione, una sottovalutazione del problema, o da mera indifferenza? E anche ammettendo una certa preoccupazione, come si spiega che da questa non scaturisca una sollecitudine veramente attiva da parte di stato e, singoli individui?
Certamente c’è una cattiva informazione. Sicuramente anche sul piano massmediale, tolti i momenti in cui un evento, una catastrofe, una calamità vengono divulgati a livello quasi ossessivo, fondamentalmente la tendenza generale è quella di dire che la cosa poi si risolverà. Quindi noi siamo informati molto relativamente rispetto a quanto dovremmo esserlo. Ancor più preoccupante, è, richiamandomi a Freud, il concetto di diniego, come ho accennato prima: noi siamo portati a qualcosa di ancor più grave rispetto alla semplice sottovalutazione del problema, che è proprio questo denegare. Il diniego è un meccanismo di difesa, diverso dalla rimozione, più sofisticato, perché noi sappiamo (quindi non si parla di un inconscio in cui confinare ciò che non siamo pronti ad accettare) che ci sono dei pericoli: assistiamo a Chernobyl, a Fukuschima, ai disastri ecologici, ai virus planetari..addirittura in alcuni momenti ne siamo bombardati dai mass media, ma, come ci fa capire Freud, è come se tutto questo non arrivasse alla nostra emotività; sappiamo ma non sentiamo, non siamo veramente coinvolti, veramente partecipi e soprattutto non proviamo paura, una sana paura. Questo è un concetto fondamentale, perché noi viviamo in una società piena di paura vaga e generica, siamo impauritissimi, anche solo a uscire di casa, ma allo stesso tempo tendiamo a denegare perché non sappiamo come reagire, non sappiamo quali misure prendere, come affrontare certi fenomeni. Siamo terribilmente angosciati, ma l’angoscia, come dice Freud, scatta di fronte a un pericolo indeterminato, mentre la paura di fronte a un pericolo reale e solo provando quest’ultima si creerebbe una concreta mobilitazione.
4) Secondo lei, quali azioni etiche e sociali dovrebbero esser promosse e di conseguenza diffondersi in vista di una maggiore cura ambientale?
Ovviamente ci sono due livelli. Uno è il livello politico, che è ineliminabile, e l’altro è quello soggettivo - individuale. Partendo da quest’ultimo la prima risposta da dare è proprio rompere il diniego: esser capaci di riconoscere, anche confusamente, che siamo di fronte a delle sfide globali inaudite, di cui dobbiamo prendere seria consapevolezza, perché probabilmente questo ci permetterebbe di attrezzarci. Dopodiché, sempre rimanendo sul piano del soggettivo, dobbiamo individuare due dimensioni: una è quella capillare quotidiana (fare la raccolta differenziata, diminuire l’uso della macchina, una maggior parsimonia energetica..), insomma una serie di piccole misure quotidiane che andrebbero perseguite da tutti sistematicamente; L’altra dimensione è quella più collettiva e sociale: social forum, riunioni planetarie tenute per denunciare la situazione ambientale, azioni di ribellione..tutte cose che per avere influente efficacia, dovrebbero essere più frequenti, più partecipate, più sponsorizzate e di conseguenza rese più note anche ai singoli cittadini. Sul versante politico, siamo ai livelli degli assiro babilonesi: la politica, gli Stati, sono impotenti. L’unica possibilità, sono gi organismi internazionali, ma questi sono scarsi o hanno perso influenza, si sono indeboliti. Basti pensare al ruolo dell’ONU durante l’epoca Bush, esautorato quasi del tutto dei suoi poteri.