Mercoledì, 22 Novembre 2017 00:00

La Guerra civile americana tra storia e memoria

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La Guerra civile americana tra storia e memoria

Nel panorama politico in ebollizione degli Stati Uniti, uno dei temi che più è al centro di una controversa e feroce battaglia politica è la rimozione, in alcuni Stati, dei monumenti intitolati ai personaggi confederati della Guerra Civile. Il tema si è mescolato con le recenti tensioni razziali che sono riemerse (in realtà mai risolte) in molti sobborghi delle maggiori città statunitensi. Una battaglia che aveva preso di mira le forze di polizia, poi è diventata uno scontro tra i Democratici e comunità afroamericana, da una parte, e suprematisti bianchi, dall’altra, che hanno riportato alla luce una retorica neonazista che divampa in ogni parte del mondo cosiddetto occidentale.

Il pretesto per l’abbattimento dei monumenti a uomini come il Generale Robert E. Lee, Nathan Bedford Forrest o Thomas Jonathan Jackson, chiamato “Stonewall”, è che alcuni di questi furono realizzati negli anni Novanta dell’Ottocento, il periodo in cui furono introdotte le leggi di segregazione razziale (le cosiddette leggi Jim Crow); altri negli anni Cinquanta, cioè nel periodo in cui negli Stati del Sud c’era molta resistenza al movimento per i diritti civili degli afroamericani e le loro battaglie contro la segregazione. In questa orgiastica e quanto appassionata discussione politica che ha miscelato elementi e temi di diversa natura, è bene preservare e fare luce sulla memoria storica dell’evento che più ha cambiato la storia degli Stati Uniti. Il conflitto che vide contrapposti gli Stati del Sud e del Nord fu una battaglia epica tra due mondi diversi, due società contrapposte che lottarono per conquistare il diritto di costruire una Nazione. Il centro politico, produttivo e sociale degli Stati Uniti d’America si era spostato: la classe dirigente del Sud aveva contribuito in modo fondamentale alla Rivoluzione americana e alla nascita dello Stato.

La Virginia da cui proveniva George Washington, gli ideali politici di un uomo del Sud come Thomas Jefferson e tutta l’aristocrazia sudista furono la guida politica del paese. Era un mondo certamente che alla base aveva la schiavitù, dotato però di una propria cultura frutto di una lunghissima storia. Una costruzione sociale che aveva le caratteristiche di una vera e propria civiltà, condizionata anche da quegli schiavi che venivano sfruttati. Con un pantheon importante di idee, etica e una tradizione politica che aveva prodotto la Dichiarazione di Indipendenza. Non vi erano solamente i grandi proprietari terrieri con gli schiavi, ma un corollario di piccoli agricoltori e proprietari, commercianti, piccole imprese che avevano gli stessi diritti degli aristocratici. Questa contrapposizione, certamente importante tra popolazione bianca e popolazione afroamericana schiavizzata, non può però reggere il mito di una Guerra Civile causata dalla volontà di liberare gli schiavi.

L’espansione nei territori dell’Ovest crearono un nuovo ceto agrario che inizialmente era alleato degli agricoltori del Sud, ma che ne divenne il principale avversario. La Rivoluzione industriale e l’embargo sul commercio europeo con la guerra contro la madrepatria britannica nel 1815 ebbero l’effetto di stimolare un’evoluzione sociale priva di ogni limite, insieme a una repentina crescita dell’industria manifatturiera nel Nord del paese: la Pennsylvania e lo stato di New York raddoppiarono la produzione in questo settore, surclassando gli Stati del Sud. Ciò portò i proprietari del Sud a investire maggiormente nella terra e nella manodopera schiavista, quasi si fosse giunti a un tacito accordo di divisione dei settori economici tra il Sud sempre più agrario ed il Nord del paese, in piena crescita industriale. La nascita di una classe imprenditoriale, l’immigrazione massiccia dall’Europa e la nascita del movimento abolizionista trasformarono totalmente gli stati del Nord. L’immigrazione europea, inoltre, portò alla formazione di un proletariato che non era frutto della rovina di ceti artigianali o agricoli, ma era manodopera in crisi importata dal Vecchio continente.

L’inizio della crisi fu l’esclusione nei nuovi territori dell’Ovest della schiavitù: non fu una mossa etica, quanto una mossa lucidamente politica della classe imprenditoriale nordista per escludere i proprietari del Sud. Un giovane Abramo Lincoln, nel 1854 a Peoria nell’Illinois disse: “Vogliamo questi nuovi territori per la gente bianca e libera”. La fine dell’embargo statunitense inserì l’economia a stelle e strisce nel mercato mondiale, che con la rivoluzione industriale era profondamente mutato anche nel commercio dei prodotti. Lo stato semicoloniale dell’economia sudista non poteva reggere le regole di un mercato che condizionava l’economia e non il contrario, come pensavano i proprietari del Sud con il loro smercio del cotone. Il potere delle compagnie marittime del Nord, le compagnie assicuratrici nordiste sui campi del Sud, il trasporto ferroviario crearono grandi debiti tra le due parti del paese. Il Sud con la sua classe dirigente, oramai minoritaria nella guida del paese, aveva sottovalutato la potenza eversiva delle trasformazioni sociali nel Nord causate dalla rivoluzione industriale e si illuse di poter arrivare a dei compromessi. Ma come scrisse Karl Marx in quel periodo, “dove la nuova borghesia ha raggiunto il potere ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache”. L’abolizione nelle Colonie inglesi tra il 1848 e il 1850 della schiavitù intaccò anche la “peculiare istituzione del Sud”, fomentando lo sviluppo dell’abolizionismo che contribuì al divieto di introdurre il lavoro schiavista nei nuovi territori dell’Ovest.

L’elezione a presidente di Abramo Lincoln, leader politico e ideologico della concezione di un’Unione di stati che aveva creato questi e non viceversa e portatore delle aspirazioni delle nuove classi sociali del Nord legate alla libertà del lavoro (incompatibile con la schiavitù), fu lo strappo finale. La sua ricerca di un’omogeneità della nazione “americana” cozzava contro il Sud del paese, sempre più corpo estraneo di un colosso economico e sociale in continua evoluzione. Il movimento secessionista che si mise in moto negli Stati del Sud, con i suoi inascoltati appelli a considerare la schiavitù e la società sudista alla stregua delle tante Autonomie riconosciute dalla Costituzione, nacque ben molto prima dell’ascesa di Lincoln. Quando apparve chiaro che l’Unione degli Stati Uniti d’America era oramai trasformata irrimediabilmente dalle nuove condizioni sociali e politiche, gli stati decisero per la ribellione e la fondazione della Confederazione. La distruzione e l’abolizione della schiavitù, contrariamente alla odierna e illusoria concezione della guerra civile, non fu la principale causa del conflitto, ma un mezzo per sottomettere e includere con la forza la società del Sud, la quale non riuscì a contrapporsi alla spaventosa forza non solo bellica, bensì anche ideologica del Nord. Il presidente confederato Jefferson Davis e i secessionisti non riuscirono a costruire una coesa idea nazionale negli Stati della Confederazione, spesso divisi negli interessi locali dei singoli Stati. Basti vedere la diversità anche ideologica di generali come Robert Lee e il generale Forrest, con il primo convinto che la vittoria del conflitto si trovasse nella difesa della Virginia.

Il nucleo culturale della società del Sud sopravvisse alla Confederazione dopo la guerra, giungendo fino ai giorni nostri. Non solo come espressione negativa di idee razziste e xenofobe, ma anche nella profonda cultura sudista del “pigro Sud” attaccato alle sue tradizioni locali. Ancora oggi, ad esempio, in molte abitazioni si può trovare una coroncina di fiori che simboleggia lo stato della casa come “open house”, luogo di accoglienza per viaggiatori di qualsiasi provenienza. Oltre a continuare la sua lunga tradizione di letterati ed artisti di ogni genere in ambienti culturalmente vivaci. Edgar Allan Poe, Mark Twain, Faulkner: tutti nati in quel profondo Sud considerato barbaro e razzista. Dal punto di vista politico non fu solo la culla del nuovo partito Repubblicano capitalista e conservatore: nella crisi economica più grave della storia un gruppo di intellettuali, i così detti Agrarians, lanciarono la loro opera collettiva e politica che pose le basi ideologiche del New Deal di Franklin Delano Roosevelt che capovolse la stessa politica americana, invertendo i ruoli dei due maggiori partiti.

La lettura della guerra come lotta contro la schiavitù, l’accostamento degli odierni movimenti razziali e sovranisti bianchi con la Confederazione, il valore eversivo e distruttivo della “rivolta” sudista sono letture semplicistiche. Vere e proprie strumentalizzazioni politiche odierne di un conflitto tra due società che si contrapposero per il futuro della nazione e per la loro sopravvivenza. Un compromesso, come auspicato dallo stesso presidente confederato Jefferson Davis e dall’economista John Caulhon prima della guerra, non era possibile. La struttura sociale sudista non si era rinnovata, aveva finito il suo spazio di espansione e non poteva sopravvivere all’arrembante e dinamica società del Nord. Quest’ultima aveva tradotto il suo potenziale economico e sociale in una azione politica, prima istituzionale poi militare, che trasformò gli Stati Uniti d’America per sempre.

Cancellare questa storia, rimuovere la memoria della guerra di uomini che nacquero e combatterono per quella che era la culla della nazione statunitense, è un asservimento della memoria di un paese alla politica. La presidenza Trump, vissuta come un trauma senza osservare la storia della politica statunitense degli ultimi decenni, sta sfruttando le odierne tensioni sociali e razziali per costruire un pericoloso consenso su strumentalizzazioni e revisioni storiche ben più profonde di quanto non appaiano. E i Democratici e suoi oppositori cadono in questa trappola. Mettere in discussione la memoria storica della Guerra Civile è minare alle fondamenta lo stesso desiderio di riconciliazione che animò Abramo Lincoln, contrapposto alla successiva presidenza di Ulysses Grant suo generale durante la guerra che invece perseverò nella retorica della “grande colpa” del Sud. E’ la negazione di un evento che ha costruito gli Stati Uniti come li conosciamo oggi, è la negazione della propria storia.

Ultima modifica il Martedì, 21 Novembre 2017 22:14
Marco Saccardi

Nato a Bagno a Ripoli (FI) il 13 settembre 1990, sono uno studente laureato alla triennale di Storia Contemporanea presso l’Università di Firenze, adesso laureando alla magistrale di Scienze Storiche. Appassionato di Politica, amante della Storia, sono “fuggito” dal PD dopo anni di militanza e sono alla ricerca di una collocazione politica, nel vuoto della sinistra italiana. Malato di Fiorentina e di calcio, quando gioca la viola non sono reperibile. Inoltre mi ritengo particolarmente nerd, divoratore di libri, film e serie tv.

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