L’intervento di Maissa Bey, scrittrice francese algerina, vincitrice di molti premi letterari – nel suo scritto “L’ombre d’un homme qui marche au soleil”, raccolta di riflessioni su Camus, la figlia di quest’ultimo, Catherine, dichiara di aver trovato, nelle parole di Maissa, non tanto lo scrittore, il letterato, il filosofo, il saggista Camus, bensì l’uomo, tanto è stata toccata dalla “carnalità” della prosa di Bey, che va diretta al corpo, al cuore, piuttosto che all’ideologia, cosa forse tipicamente femminile, questo mirare al sentimento, le sensazioni, le viscere, più che i concetti. Nel suo intervento la Bey si è concentrato sull’”algerinità” di Albert Camus.
Il tema di cui vuole parlare infatti non concerne tanto il Camus autore, quanto del modo in cui egli è seguito in Algeria e del suo legame con questa terra.
Come probabilmente quasi tutti sappiamo, lo scrittore è nato a Mondovi, città sulla costa orientale dell’Algeria, nel 1913, quando l’Algeria era un possedimento francese e vi venivano trasferiti numerosi europei – spagnoli, francesi, italiani, maltesi.
In Algeria, continua Bey, non c’è indifferenza intorno a questo personaggio, e a tal proposito ricorda le polemiche seguite dal desiderio di Sarckozy di trasferire le ceneri dello scrittore al Pantheon di Parigi. Nonostante però vi sia un interesse da pare degli algerini verso Camus, in Algeria non vi è né una via, né un liceo, un’università, o una piazza intitolate a lui. Soltanto nel quartiere di Belcourt, dove lo scrittore ha vissuto, sulla facciata della casa in cui abitò, è stata messa un’insegna con su scritto che in quella casa era nato e cresciuto Albert Camus.
Altro segno di legame con l’autore fu la proposta, nel duemila – anniversario del quarantenario – della morte di Camus, di far partire una carovana a lui dedicata dalla Francia all’Algeria, passando per diverse tappe, ma che fu ostacolata da una feroce e forte opposizione, soprattutto da parte delle autorità algerine. Una motivazione di questo rigetto probabilmente risiede in una dichiarazione che l’autore fece durante il discorso di Stoccolma, al ritiro del premio Nobel. In quell’occasione un giovane algerino chiese all’autore come mai nei suoi scritti non parli mai dell’Algeria, incitandolo a prendere una posizione e ad aderire al movimento di liberazione. La risposta di Camus, tagliata, semplificata, mal interpretata fu ridotta a questa: “je crois à la justice. Mais je préfère ma mère à la justice” (credo nella giustizia. Ma preferisco mia madre alla giustizia).
Una risposta così tranchant sulla questione algerina distanziò l’autore, nella mentalità di quel popolo che ha lottato per la propria indipendenza, da tutti quegli intellettuali che invece hanno preso direttamente parte o a cuore la causa algerina. Un’altra ragione che forse ha determinato il “divorzio” tra Camus e l’Algeria consiste nel fatto che numerose tesi di laurea o di dottorato che analizzano le opere di Camus fanno notare in queste la quasi totale assenza degli arabi o mostrano che l’uso della parola arabe designa da parte dell’autore uno sguardo da colonialista nei confronti del popolo algerino, o comunque lasci emergere una visione limitata, come se il modo d’essere degli algerini andasse oltre la sua possibilità di comprensione.
Fatto sta che la questione su come e dove collocare Camus (francese o algerino?), secondo Bey, resta una domanda molto attuale e ancora dibattuta. Sicuramente, nonostante le polemiche o le controversie sopra riportate, non si può negare il suo attaccamento per la terra che lo ha visto nascere. Molti libri si intitolano “Camus l’algerien”, ad esempio, o molti lo appellano “figlio d’Algeria”. E in effetti Camus è figlio dell’Algeria, è lì che nasce, nel 1913.
Il padre – che morì precocemente durante la battaglia della Marna nel 1914, “per servire un paese che non era il suo”, come scrisse Albert – era un operaio agricolo originario di Bordeaux e discendente di coloni trasferìtisi dalla Francia in Algeria durante la prima ondata di immigrazione, mentre la madre, nata in Algeria, figlia di immigrati spagnoli originari di Maiorca era una donna che non sapeva né leggere né scrivere e che per mantenere la famiglia faceva la donna delle pulizie.
Bey sottolinea come l’Algeria in quegli anni non fosse semplicemente colonia francese quanto proprio “possesso” della Francia, il che fa comprendere la volontà delle autorità francesi di popolare questo territorio con cittadini europei, a cui vengono regalati terreni rendendoli cittadini a tutti gli effetti. Dal 1848 il territorio algerino fu diviso in tre dipartimenti francesi, il dipartimenti di Algeri, il dipartimento di Oran, e quello di Constantine. Oltre che ai cittadini europei (oltre che francesi anche spagnoli, italiani, maltesi, tedeschi..) però ovviamente vi sono anche gli autoctoni non francesi o comunque non europei (senza dimenticare la comunità di ebrei, altro argomento che però, afferma Bey, sarebbe troppo complesso da trattare), i quali venivano designati come indigeni musulmani, come soggetti – o meglio, sudditi, dato che il termine francese sujet più che la soggettività indica proprio la sudditanza – francesi e non cittadini.
Proprio in quanto soggetti o sudditi da un punto di vista legislativo e politico essi non godevano degli stessi diritti dei cittadini europei-algerini, non avevano diritti politici, di voto né la possibilità di accedere alle cariche amministrative. Dal 1940 Camus comincerà a denunciare questa feroce e ingiusta dicotomia, questa frattura tra crea una forte diseguaglianza tra l’effettiva nazionalità – spogliata dei propri diritti – e la cittadinanza – concessa, paradossalmente direi, soltanto ai non autoctoni. Tale differenziazione emerge in maniera lampante anche nella quasi totale assenza di matrimoni misti e nel “settarismo” ghettizzante dei quartieri: esistono quartieri musulmani e quartieri europei e nessuna possibilità di amalgamarsi, di crocevia interculturale, di rapporti fondati sulla condivisione, l’interscambio, la fratellanza. C’è una separazione netta, non solo, dunque, religiosa, etnica, linguistica o culturale ma anche “geografica”, per così dire.
Vi è un confine invisibile che separa le due entità, a cui è quindi preclusa ogni possibilità di vita in comune, anche se questa separazione etnica, religiosa, politica e sociale sembra esser giustificata agli occhi dei coloni.
Due romanzi di due autori algerini, Mohammed Dib e Mouloud Feraoun rappresentano la stessa situazione, ovvero l’assenza di contatti con i francesi, se non entro luoghi limitati, come le scuole. Chi è algerino dunque? Camus non schiva la questione, non la vuole evitare e se la pone e in una lettera all’amico Feraoun – anche se i due in realtà non si sono mai visti né incontrati dal vivo - scrive: “una delle cose di cui sono fiero in quanto scrittore algerino è di aver fatto il mio dovere. Abbiamo fatto il nostro dovere”.
Ancora, nel 1977 in un articolo uscito su L’express, si legge: “ Mi sento più vicino a un contadino arabo o a un pastore berbero che a un commerciante del nord (della Francia)”. Questo per comprendere come la terra algerina, la sua terra madre fosse radicata nell’animo dell’autore, forse come una ferita, forse vissuta come una relazione sospesa sul filo sempre precario di amore e di odio, con quel desiderio teso tra la voglia di cancellarne le tracce, le orme e quello di non smettere mai di respirarne i colori, i profumi, i sapori.
“Ho avuto da sempre paura a stringere questa corda interna che mi lega all’Algeria, di cui conosco il canto cieco e grave. Ma è la mia vera patria e ovunque nel mondo riconosco i suoi figli, i suoi fratelli..”
L’Algeria è dunque la sua patria carnale, sì, ha una relazione quasi carnale con quella terra, con i suoi odori sensuali, i suoi colori caldi e secchi, i suoi uomini arsi dal sole, la sua luce vivida, i suoi sapori speziati, i suoi profumi inebrianti, quella terra ferita in cui però il tragico si unisce a una bellezza quasi insostenibile, come una donna seducente tradita dall’amore ma di esso ancor piena, come si legge nel bellissimo incipit de “L’estate”:
“In primavera Tipasa (città algerina) è abitata dagli dei e gli dei parlano nel sole e nell'odore degli assenzi, nel mare corazzato d'argento, nel cielo d'un blu crudo, fra le rovine coperte di fiori e nelle grosse bolle di luce, fra i mucchi di pietre. In certe ore la campagna è nera di sole. Gli occhi tentano invano di cogliere qualcosa che non sian le gocce di luce e di colore che tremano sulle ciglia. Il voluminoso odore delle piante aromatiche raschia in gola e soffoca nella calura enorme. All'estremità del paesaggio, posso vedere a stento la massa scura dello Chenoua che ha la base fra le colline intorno al villaggio, e si muove con ritmo deciso e pesante per andare ad accosciarsi nel mare.”
Insomma quella terra, dice Bey, compare, emerge, affiora nella scrittura di Camus, come una traccia che sgorga dal più profondo inconscio, dalle radici più recondite dell’animo. Camus è un roumi (dall’arabo rūmī, che indica l’“europeo, il cristiano”ma che letteralmente significa “romano”) dichiara Maissa. Roumi è un termine generico, spiega la scrittrice, per designare il non musulmano. Non ha una valenza dispregiativa, peggiorativa, viene utilizzato semplicemente per indicare genericamente gli europei non musulmani. Molti invece appellano Camus pied noir, termine che denota i francesi nati in Algeria e rimpatriati a partire dal 1962 (dopo la guerra d’indipendenza algerina), ma nelle sue opere questo “epiteto” non compare mai. Si potrebbe dire, concludendo, che l’Algeria è la terra di Camus mentre la Francia è la patria.
Fino al 1950 egli parla di sé definendosi un francese d’Algeria. “l’Algeria è il sole, il mare, le risate dei ragazzi sulla sabbia rovente, i profumi che seducono, è la prima mattina del mondo, sono le sue ricchezze, è il sentimento di essere più che in qualunque altro luogo al proprio posto. Altrove sarò ovunque in esilio”. Ma è anche una terra dilaniata, disperata, martoriata dai solchi e le ferite indelebili incise dalla colonizzazione, è come un male: “ho male all’Algeria come altri possono avere male a un polmone” (di cui per altro, Camus soffriva essendo malato di tubercolosi).
In tutti o quasi i suoi scritti i luoghi dell’Algeria sono descritti con nostalgia e lirismo. Non si sa quale sarebbe stata la sua reazione di fronte all’indipendenza algerina (nel 1962, mentre Camus muore due anni prima), probabilmente ne avrebbe avuto a perdere, come si legge nelle parole di un’altra autrice algerina, Yasmina Khadra: “Sapeva quello che avrebbe perso se l’Algeria avesse recuperato la sua “algerinità”. Si aggrappava a questa Algeria come un naufrago al suo relitto. Non aveva che una sola sponda: che quel paese restasse ciò che è sempre stato per lui”. Né totalmente francese né totalmente algerino, Camus stava tra le due, impossibilitato a collocarsi, a definirsi. Ma in fondo come si può scegliere, definirsi, etichettarsi, prendere posto, sentirsi a casa, rinchiudere in un nome, in una nazionalità, in una lingua, la complessità del proprio essere? Forse è troppo riduttivo. Forse Camus era “semplicemente” Camus, algerino e francese insieme, o né l’uno né l’altro. Forse straniero. Forse no. Era il sole e il canto della terra, era le risate dei suoi ragazzi bruciati al sole, era le sue lacrime amare e le sue prime mattine del mondo. E non importa dare un nome a questa terra, perché è una terra che vive e pulsa dentro un terreno che non è localizzabile sulle mappe, non è una regione topografica, ma interiore, nel profondo del proprio sentire e del proprio amore. Un amore innominabile. Un amore, un consenso dentro il non senso dell’esistenza, dentro le contraddizioni e l’assurdità del mondo, con -senso che“dormiva dentro il cuore della sua rivolta”, una fedeltà piena alla terra che gli fa pronunciare il suo sì dentro al no. E non c’è bisogno di dar nomi a questo. Non c’è bisogno di parole. Forse solo di silenzi. Camus francese, Camus algerino. Non ha importanza.
“Camus è uno scrittore universale” termina Maissa Bey, riprendendo le parole di un’altra autrice algerina “È dunque anche nostro. È la misura dell’Uomo, dell’umanità. Tutto il resto appartiene alla storia”.