Mercoledì, 07 Agosto 2013 00:00

Lo straniero, dalla Grecia antica a Derrida

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“Un gesto di ospitalità non può che essere poetico”

Jacques Derrida

Straniero. Dal greco Xenos. Nella voce presente su Wikipedia si legge: “Xenos può essere tradotto con straniero, nel senso di una persona proveniente da un altro stato greco e un viaggiatore straniero oppure una persona introdotta in una in una relazione di amicizia di lunga distanza. Xenos quindi si riferisce generalmente alla varietà di ciò che un particolare individuo può essere, in particolare, ospite, straniero, amico. E si legge ancora: “L'ambiguità del significato di Xenos non è un moderno malinteso, ma era di fatto presente nella Grecia antica. Può essere usato per riferirsi a guest-amici il cui rapporto è costruito sotto il rituale di Xenia ("guest-amicizia"). In tale uso è comunemente tradotto come "ospite-amico" per distinguerla dalla Philos, parola greca, che è stata utilizzata per fare riferimento ad amici locali e ai parenti non strettamente vincolata da Xenia”.

Fin da Omero, gli stranieri-ospiti erano rivestiti di dignità e rispetto, in quanto protetti da Zeus. Come sottolinea Umberto Curi, docente di Storia della Filosofia all'Università di Padova, nella società omerica lo straniero, essendo privo di diritto, viene accolto dalla comunità e con questa stabilisce un rapporto di reciprocità testimoniato dal Symbolon, una “tessera ospitale”, un coccio di pietra che, come scrive Umberto Galimberti “spezzato in due testimoniava il legame tra due persone […] Ognuno portava con sé il segno di una comunione, di un patto amichevole che la distanza non poteva annullare. Se poi accadeva di ricongiungersi, allora si procedeva alla ricomposizione delle due metà, e l'unità così ottenuta attestava, dopo l'assenza, un'intimità ininterrotta, un legame che non era stato spezzato”.

Insomma, nella Grecia arcaica, gli xenoi diventavano philoi, amici degni di rispetto e benevolenza e rivestiti addirittura di una sacralità inviolabile, garantita e assicurata dalla protezione di Zeus e di Athena. Per questo chi commetteva empietà nei confronti dello straniero veniva punito dagli dei. Perchè lo straniero era un ospite e in quanto tale sacro.

Così leggiamo, nelle pagine dell'Odissea, al momento dell'incontro tra Ulisse che torna a Itaca sotto le mentite spoglie ( grazie all'incantesimo di Atena) di un mendicante e il suo vecchio e fedelissimo servo Eumeo, che nonostante non riconosca il padrone che si cela sotto quei poveri stracci lo tratta con dolce benevolenza, proprio in forza del rispetto e dell'onore che si deve concedere agli stranieri. Il libro XIV è infatti interamente occupato dalla scena che vede il leale servo offrire i migliori doni al suo ospite, addirittura il proprio mantello, necessario per uscire di notte per governare le bestie.

Ei, la riva lasciata, entrò in un’aspra

Strada, e per gioghi, e per silvestri lochi,

Là si rivolse, dove Palla mostro

Gli avea l’inclito Euméo, di cui fra tutti

D’Ulisse i miglior servi alcun non era,

Che i beni del padron meglio guardasse. [...]

Poi, rivolto al suo Re, […] gli disse [...]

“Ma tu seguimi, o vecchio, ed al mio albergo

Vientene, acciò, come di cibo, e vino

Sentirai sazio il natural talento,

La tua patria io conosca, e i mali tuoi.”

Ciò detto, gli entrò innanzi, e l’introdusse

Nel padiglione suo [...]

L’eroe gioiva dell’accoglienza amica,

E così favellava: “Ospite, Giove

Con tutti gli altri Dei compia i tuoi voti,

E d’accoglienza tal largo ti paghi.

E tu così gli rispondesti, Euméo:

Buon vecchio, a me non lice uno straniero,

Fosse di te men degno, avere a scherno:

Chè gli stranieri tutti, ed i mendichi

Vengon da Giove.”

Dunque gli stranieri erano ospiti. Anche in molte delle tragedie greche si ritrova questo concetto. Si pensi al Filottete di Sofocle o al Prometeo di Eschilo, nel quale la sacralità dell'ospite appare in tutta la sua pregnanza laddove si espongono i castighi riservati a coloro che offendono non solo gli dei o i genitori ma anche gli ospiti, senza che vi sia una gerarchia tra questi atti empi. La reverenza nei confronti dello xenos e della xenia appare anche in molte delle tragedie di Euripide: nell' Ecuba ad esempio vengono pronunciate le seguenti forti parole: “Nefando, innominabile crimine, al di là di ogni stupore, empio, intollerabile. Dov’è la giustizia degli ospiti [Dika Xenon]?” Nella tragedia euripidea dunque l'essere inospitali nei confronti dello [echtroxenos] è paragonabile ad un crimine immondo, innominabile addirittura [arreta anonomosta] e punibile dagli dei.

In ciò emerge tutta l'ambiguità del termine Xenos, che qui ha per l'appunto l'accezione di ospite da accogliere nella propria casa e il cui rifiuto, il cui rigetto “provocherebbe un male che va ad aggiungersi ad altri mali”. In un'altra delle tragedie di Euripide, l' Alcesti, nella scena in cui compare Eracle a chiedere ospitalità ad Admeto, re della Tessaglia, quest'ultimo si rivolge al più forte degli eroi con tali parole: “che egli sia accompagnato e a lui siano date stanze appartate; i servi preparino cibo in quantità. Chiudete le porte che danno sul cortile. Non è conveniente che i banchettanti odano i lamenti, perché gli ospiti non devono essere afflitti”. Tutto ciò, perché – come sottolinea lo stesso Admeto – “ la mia casa non sa respingere un ospite [apothein…xenous] né fargli torto [atimazein]”. In questa visione si capisce perché il Coro possa riferirsi alla casa di Admeto come “dimora di un uomo ospitale [polyxeinou] e generoso” [eleutherou]”.

Anche in Platone emerge l'obbligo di giustizia e rispetto che deve essere osservato nei confronti dello straniero e l'importanza della xenia, soprattutto nelle Leggi, nel quale, come scrive ancora Curi, viene sottolineato “che i medesimi riguardi vadano riservati, oltre che agli stranieri, anche alle straniere, col riconoscimento di diritti non sempre attribuiti alle donne nella società greca. Ricompare, in secondo luogo, chiarendosi ulteriormente, l’idea di una relazione simmetrica nel campo dell’ospitalità, nel senso che gli stranieri dovranno essere accolti nello stesso modo col quale si pretende di essere accolti quando sia il nostro turno di andare lontano dalla nostra patria.”

Anche il termine latino hostis che indica lo straniero – in opposizione al termine in-genuus che designa il cittadino, ovvero colui che appartiene per sangue e cultura alla comunità d'origine – non contiene in sé nessuna sfumatura di ostilità, come invece accadrà più tardi, fino ad arrivare a quell'ambiguo binomio di ostilità-ospitalità. L'hostis inizialmente nel mondo latino non era visto come un nemico che giunge dall'esterno con intenzioni bellicose, ma era semplicemente l'altro, un altro che però non aveva niente di negativo in questo. Nel De Officis Cicerone usa questo termine per indicare “l'advena”, ovvero semplicemente “colui che viene da fuori”, un peregrinus proveniente dai confini esterni alla comunità, il quale, come si può già vedere dalle XII tavole – corpo di leggi redatto nel 450-451 a. C. dai Decemviri Legibus Scribundis e che costituisce la prima compilazione scritta di leggi nella storia di Roma– riceveva gli stessi diritti dei cittadini romani in base a qualche accordo o patto – non dimentichiamo inoltre che il verbo che sta alla radice di hostis, vale a dire hostire equivale al verbo aequare, che per l'appunto significa paragonare, rendere uguale.

Solo successivamente il termine acquista una valenza antagonistica, e hostis trapassa nel significato di inimicus – sebbene non con la medesima esatta valenza, in quanto, mentre l'hostis finisce per rappresentare il nemico pubblico, il nemico esterno, il nemico della città di Roma contro cui tutti sono tenuti a mobilitarsi, l'inimicus indica piuttosto il nemico interno e privato, il concorrente, il concittadino con cui si ha una relazione di antagonismo – così che lo straniero diventa un nemico, da temere, respingere o combattere. L'hostis si distacca perciò dal significato di hospes – ospite – sebbene rimanga aperta la possibilità che il primo possa convertirsi nel secondo e diventare oggetto di accoglienza e ospitalità.

Facendo un volo pindarico si può arrivare al saggio di Jacques Derrida – che in realtà è una raccolta di conferenze – intitolato Sull'ospitalità. Qui il filosofo francese affronta diverse tematiche – della sepoltura, del nome, l'identità, la lingua, la memoria, la follia, l'esilio – “come segnali rivolti alla domanda del luogo, che invita il soggetto a riconoscere d'essere per prima cosa un ospite […] Come se il luogo coinvolto nell'ospitalità fosse un luogo che non appartiene originariamente né all'ospite né all'invitato, ma al gesto con cui l'uno accoglie l'altro.” (Anne Dufourmantelle). I due soggetti trapassano l'uno nell'altro, non esiste più dualità netta tra di essi, così come ognuno di noi in fondo è ospite di sé stesso, straniero persino a sé stesso. L'altro è già dentro di noi, “io è un altro”, direbbero Deleuze e Guattari, riprendendo l'espressione “je est un autre” di Rimbaud.

Tornando a Derrida, per lui la domanda sullo straniero è una questione venuta dal fuori “una domanda allo straniero, rivolta allo straniero. Come se lo straniero fosse innanzitutto colui che pone la prima domanda o colui al quale si rivolge la prima domanda. Come se lo straniero fosse l'essere in questione, la questione stessa dell'essere in questione, l'essere-questione dell'essere in questione o l'essere in questione della questione. Ma anche colui che, ponendo la prima domanda mi mette in questione.” la questione dello straniero è per il filosofo “una questione interna al logos” - come è testimoniato anche dal Sofista di Platone – che oltre a concernere la questione sull'ospitalità riguarda anche la questione dell'essere e del linguaggio. La prima alterità dello straniero è data infatti dalla sua lingua. Egli deve esprimersi in una lingua che non è la sua, è straniero in primo luogo rispetto alla lingua giuridica in cui sono formulati i diritti e i doveri dell'ospitalità, i codici, le leggi ecc.. Deve chiedere asilo in una lingua che gli è imposta. È forse questa è il primo sradicamento, la prima violenza. Perché la lingua è una sorta di “casa mobile”, una patria che ci segue ovunque ci spostiamo. La lingua dei nostri padri, dei nostri antenati, la lingua in cui pensiamo, la lingua che ci portiamo addosso come una seconda pelle, come un secondo corpo. E in cui ci sentiamo noi, ci riconosciamo, sappiamo identificarci, in un certo qual modo.

“Le persone che sono costrette ad abbandonare la propria patria, gli esiliati, i deportati, gli espulsi, gli sradicati, i nomadi hanno in comune due sospiri, due nostalgie: i loro morti e la loro lingua” (Derrida). Ho detto prima violenza. Forse non proprio. La prima violenza, secondo Derrida sta nel chiedere il nome a colui che arriva. Come se il diritto di ospitalità fosse riservato soltanto dopo che abbiamo riconosciuto uno status allo straniero, soltanto dopo che lo abbiamo nominato, identificato, a cui abbiamo fornito uno stato giuridico. Come se l'ospitalità non potesse esser concessa all'anomimo assoluto, allo straniero assoluto, privo di nome e di identità. Come se non potesse esistere l'ospitalità incondizionata, quella che aprirebbe le porte a colui che viene, senza chiedergli il nome, senza domanda alcuna sulla sua identità, la sua discendenza e il luogo da cui proviene, o la direzione cui è diretto.

L'ospitalità incondizionata paradossalmente rompe quelle che era “la legge dell'ospitalità”, che prevedeva il riconoscimento e l'identificazione dello straniero, che doveva presentarsi, dire chi fosse e da chi discendesse. L'ospitalità assoluta che lascia entrare il senza nome e il senza dimora e che non ha bisogno di interrogarlo ma soltanto il desiderio di accoglierlo, di lasciarlo entrare, contrasta con i vincoli imposti dal patto d'ospitalità, con quella xenia che abbiamo prima accennato. A differenza di quest'ultima e delle sue norme, l'ospitalità incondizionata “esige che io apra la mia dimora e che la offra non soltanto allo straniero (provvisto di un cognome, di uno statuto sociale ecc..), ma all'altro assoluto, sconosciuto, anonimo, e che gli dia luogo, che lo lasci venire, che lo lasci arrivare e aver luogo nel luogo che gli offro, senza chiedergli né reciprocità (l'entrata nella xenia, nel patto) e neppure il suo nome. La legge dell'ospitalità assoluta impone di rompere con l'ospitalità di diritto [...]”. questa ospitalità comincia dunque con l'accoglienza pura, senza domanda alcuna, è un dono gratuito che si offre, semplicemente a colui che arriva. Non importa chi sia o da dove arrivi. Lo si lascia venire e basta.

Oggi, se già è rara o comunque non rispettata l'ospitalità di diritto, ancor più difficile è la possibilità che sia praticabile un'ospitalità assoluta. Coloro che arrivano ci fanno paura. Se non li conosciamo, se non sappiamo chi sono, se non possiamo identificarli, etichettarli sotto quelche nome ci fanno paura. Sono diversi. Sono cattivi. Sono nemici. Sono hostes che non riusciamo a far diventare e accogliere come hospes. Anche il diritto d'asilo, oggi, ha perso qualsiasi valenza. Ripudiamo e scacciamo lo straniero, senza renderci conto che nella società contemporanea siamo tutti stranieri gli uni agli altri. Essa ha snaturato completamente il significato di ciò che è vicino e di ciò che è lontano, che ha trasformato la distanza in motivo di paura o di esclusione o che l'ha annullata in una prossimità che è solo quella virtuale, quella dei social network o delle notizie viste attraverso schermi, in modo che non ci tocchino, non ci riguardino, in modo che non le sentiamo vivide e vicine. È una prossimità fasulla che ci rende in realtà più distanti gli uni dagli altri, ognuno ovattato nella sua prigione più o meno dorata, insensibile al fuori, all'altro, agli altri. E tutto diventa più anonimo, noi diventiamo più anonimi ed estranei a noi stessi e al mondo che ci brulica intorno. Chi giunge dal fuori delle nostre stanze, delle nostre fortezze, dal fuori che ci appare abissale e pericoloso, porta con sé un sentore di minaccia intollerabile e ci serriamo ancora di più nei nostri nidi di cieca apatia, di ottusa grettezza mentale. E nello stesso tempo nel mondo avanziamo senza sentirlo nostro, e in questo forse ci sentiamo ospiti. Ma ospiti che non sanno rispettare il luogo in cui vivono, il luogo che brutalmente trasformano per le loro esigenze sempre più eccessive. Siamo ospiti del mondo ma ce ne sentiamo i padroni. Gli altri sono nemici, concorrenti, minacce per la nostra incolumità, per la nostra bieca tranquillità, per la nostra quiete mediocre.

“Comincio a considerare straniero indesiderabile, e virtualmente nemico, chiunque invada la mia privacy, la mia ipseità, il mio potere di ospitalità, la mia sovranità. L'altro diviene così un individuo ostile del quale rischio di diventare ostaggio” (J. Derrida). L'advena se ne deve tornare da dove è venuto e con lui si diparte qualsiasi possibilità di arricchimento, qualsiasi risorsa preziosa che con la sua alterità, la sua diversità così ricca e pregnante, porta con sé, da tutti i punti di vista.

Solo chi ha il coraggio di aprire la sua dimora, di offrire il suo spazio, di intrattenere una prossimità e un'intimità autentiche, chi dona una sacralità allo straniero che bussa alle proprie porte, può crescere e diventare veramente soggetto, non più alienato in un mondo sempre più alienato. Solo chi ha il coraggio, come si legge in un documento – riportato sempre nel saggio di Derrida – intitolato le leggi dell'ospitalità, non solo di far venire l'altro, ma senza indugio, senza tardare, di farlo “entrare dentro di sé, di farsi occupare, di lasciargli prendere posto in lui, di fargli prendere il suo posto”, può acquisire coscienza e consapevolezza di sé stesso, possibile solo con un rapporto, vero, con l' altro. È questi che ci regala anche la nostra identità, è solo attraverso l'incontro e il dialogo con l'altro che essa può essere costruita. Il padrone giunge a entrare in casa propria solo grazie all'ospite, solo grazie al “desiderio d'ospitalità o al desiderio come ospitalità”. L'ospite inatteso. Questo è uno dei doni che l'immensità del mondo in cui siamo, l'imprevedibilità delle trame infinite delle infinite esistenze ci offre. Nell'intreccio di vite che si toccano e si fondono, e nella possibilità meravigliosa che esse possano realmente entrare in contatto, non solo sfiorarsi, e tessere insieme altri fili, altri intrecci da snodare lungo le strade che percorrono. Ospiti gli uni degli altri.

Come scrive il poeta franco egiziano Edmond Jabès: “l'ospitalità è crocevia di cammini”. […] siamo “parti inseparabili – momenti – d’un corpo indivisibile nel desiderio insaziato che l’unione spezza”.

In fondo, probabilmente l' “Io è davvero un miracolo del Tu” (E. Jabès)

Immagine tratta da inarte-blog.blogspot.it

Per la prima parte dell'articolo ci pare corretto citare "filosofia dello straniero" di Umberto Curi tra le fonti.

Ultima modifica il Domenica, 04 Agosto 2013 18:21
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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