Mercoledì, 29 Gennaio 2014 00:00

Etica della liberazione: filosofi per uscire dal capitalismo

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Scrive André Gorz, filosofo e giornalista francese, nel suo “L’ecologia politica, un’etica della liberazione”:

“Se si parte […] dall’imperativo ecologico, si può arrivare tanto ad un anticapitalismo radicale quanto […] a un comunitarismo naturalista. L’ecologia non ha tutta la sua carica critica ed etica se le devastazioni della terra, la distruzione di un modo di vita non sono comprese come le conseguenze di un modo di produzione; se non si comprende che questo modo di produzione esige la massimizzazione dei rendimenti e ricorre a delle tecniche che violano gli equilibri biologici. Ritengo dunque che la critica delle tecniche nelle quali si incarna il dominio sugli uomini e sulla natura sia una delle dimensioni essenziali di un’etica della liberazione” [1].

Il mondo in cui oggi viviamo è sempre più “inquinato” (in tutti i sensi!) da un capitalismo sfrenato che risucchia entro la sua sfera inglobante qualsiasi dimensione umana. La tecnica, il consumismo, il denaro elevato a potenza quasi mitica che fa girare il mondo, l’individuo ridotto a pedina o spettatore assente di fronte a una società che sempre più può essere caratterizzata come “società dello spettacolo”, riprendendo l’omonimo titolo di Debord.

La produzione e il profitto economico prevale su tutto: sulle persone, sui rapporti umani, sui valori etici e politici, sulla cultura, sulla formazione, sugli ideali, sulla natura, sminuita a serbatoio o a piattaforma su cui gettare sempre maggiori quantità di cemento. Persino desideri e aspirazioni vengono fagocitati da questa spirale e ridotti a mercificazione o fonti di guadagno. Siamo mercificati, la nostra vita sembra esser diventata mero oggetto di scambio.

Così come pare di esser sempre più controllati, manovrati dalle dinamiche del mercato e di una politica che di quest’ultimo è serva, dinamiche che si sono introiettate quasi inconsciamente o automaticamente dentro i nostri pensieri, comportamenti, aspirazioni.

Non si può neanche dire che la nostra società sia “disciplinare” (come diceva Foucalult), perché quei luoghi di internamento – prigioni, scuole, caserme, fabbriche, officine.. – sono stati sostituiti da non-luoghi in cui non si è più rinchiusi, è vero, ma paradossalmente si è maggiormente controllati, in maniera più sottile e strisciante, più serpentina, più invisibile ma oltremodo presente.

Come scrisse il filosofo francese Gilles Deleuze nel 1987, mostrando una notevole capacità di lungimiranza

“Le società di controllo non passeranno più per i luoghi di internamento. Nemmeno per la scuola. […] Un controllo non è una disciplina. Con un’autostrada non si rinchiude nessuno ma costruendo autostrade si moltiplicano i mezzi di controllo. Non dico che sia questo l’unico scopo dell’autostrada, ma la gente può girare all’infinito e liberamente senza essere affatto rinchiusa, pur essendo perfettamente controllata. È questo il nostro futuro”

Gli elementi dell’indagine Gorziana testimoniano l’esigenza, da parte della “macchina capitalistica” di manipolare e indurre, pilotare bisogni e desideri delle persone nella maniera più redditizia possibile. Se valiamo è solo in base a quello che possiamo produrre, a quello che possiamo comprare, a ciò, che in definitiva, va a rifocillare il ventre e l’appetito sempre più vorace di quella macchina ingorda.

Per poter arrivare a quella che Gorz chiama “ecologia politica”, dobbiamo necessariamente partire da una critica, quanto più possibile lucida e obiettiva, del capitalismo, una critica che come scrive il professor Ubaldo Fadini dell’Università degli Studi di Firenze, possa porsi come “destrutturante/destabilizzante, nei confronti della manifestazione odierna della logica della valorizzazione capitalista. Gorz ritiene che l’emancipazione del soggetto possa avvenire innanzitutto prendendo atto che la conoscenza e l’informazione debbano essere considerati beni comuni, appartenenti a tutti e non più sacrificati a proprietà privata e mercificata, “responsabile di una mutilazione sempre più insostenibile della loro utilità” (Fadini).

Il valore delle conoscenze infatti, sempre seguendo l’analisi di Fadini, così come l’intende l’economia capitalista, è “indecidibile, il suo valore di scambio non può che tendere a zero allorquando sia «liberato» e tradotto in un linguaggio informatico, «indefinitamente replicabile a un costo trascurabile». La cosiddetta «economia della conoscenza» ha una vocazione a porsi come una «economia della messa in comune e della gratuità».

L’osservazione gorziana sull’informatica che nello stesso tempo si presenta come “conoscenza, tecnica di produzione di conoscenza e mezzo di fabbricazione” mostra una “soppressione di fatto della divisione del lavoro tra coloro che producono e colore che concepiscono i mezzi per produrre": ciò significa, tra l’altro, che i produttori, così raffigurati, «non sono più dominati dal capitale attraverso i mezzi di lavoro», che il capitale fisso è interiorizzato nei soggetti, in quelle donne e in quegli uomini che vivono praticamente l’esperienza di un venir a coincidere della principale forza produttiva «con la passione viva con la quale essi immaginano, inventano e accrescono le proprie capacità cognitive, e nello stesso tempo la loro produzione di conoscenze e di ricchezze».”

La produzione di sé vale ormai solo come produzione di ricchezza. Gorz sottolinea allora il bisogno, l’esigenza vitale direi, di ripensare un’economia diversa da quella basata esclusivamente sulla necessità di crescita potenzialmente esponenziale del capitale, in direzione di un incremento pragmatico e appagante delle forze di vita e di creazione, sebbene non quantificabili in termini di ricchezza monetaria.

Gorz si dimostra a favore di una “società auto-organizzata, di una sperimentazione sociale capace di andare effettivamente al di là del modello della commercializzazione dei rapporti e di tutte le pratiche di relazione. È in quest’ottica che si afferma ancora di più la rilevanza dell’autodeterminazione dei bisogni, dell’assunzione del controllo dei mezzi di lavoro e delle scelte produttive.”

Per il filosofo e giornalista francese è determinante lo sviluppo e l’esercizio di capacità cognitive, immaginative – apporto di un sapere vivo – non più misurabili entro i criteri abituali dell’attuale economia, né semplicemente sulla base del tempo trascorso nell’attività lavorativa predeterminata:

“L’implicazione personale che il lavoro esige fa sì che non ci sia più alcuna unità di misura capace di misurarne il valore. La sua componente immateriale riveste un’importanza maggiore del dispendio di energia fisica”.

In definitiva, la conoscenza, il sapere vivo, è, a parere di Gorz, da rilanciare in direzione di “un’economia della gratuità e della condivisione, che tratterebbe le conoscenze come un bene comune dell’umanità”, trasformarlo in una sorta di “capitale umano”, fonte di una ricchezza non più misurabile secondo le logiche di profitto soltanto economico – sebbene, il sapere di ciascuno possa apportare, o dovrebbe, profitto anche in termini di risorse economiche, di ricchezza materiale e non, di un paese. Continua il filosofo:

“ La creazione di ricchezze non si lascia più misurare in termini monetari. È in questo senso che l’economia della conoscenza è la crisi del capitalismo. […] Un’altra economia si profila nel cuore del capitalismo, un’economia che rovescia il rapporto tra produzioni di ricchezze commerciali e produzione di ricchezza umana.”

Laddove appunto invece la tendenza attuale è quella dello sfruttamento e dell’alienazione, allorché si instaura assorbimento dell’esistenza stessa nel capitale. “in quel processo che tende sempre più a sfruttare il “lavoro vivo” sussumendolo nel “lavoro morto” delle macchine. Siamo a un punto in cui è la condizione esistenziale stessa che, sussunta nell’impegno lavorativo (e aumentando lo sfruttamento viene addirittura ad annullarsi la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro), viene del tutto piegata alla produzione di “valore”. Nello stesso tempo aumenta una sempre maggiore inconsapevolezza del proprio ruolo e di sé stessi.

Si è dominati dal/nel lavoro, così come lo si è sempre di più anche nei bisogni, desideri, pensieri (e nelle stesse immagini che abbiamo di noi stessi). A ciò va contrapposta la questione, quanto mai urgente, dell’uscita dal capitalismo, accompagnata dalla delineazione di un’etica della liberazione.” (Fadini).

A tale etica della liberazione da questo assoggettamento integrale delle nostre vite , del nostro lavoro e della nostra personalità, il più delle volte introiettato tramite forme di condizionamento e controllo sociale e taciti ma subdoli comandi di omologazione, si può accompagnare la riflessione che un altro filosofo, Félix Guattari ha svolto nel suo “Le tre ecologie”.

Il punto di partenza è la presa di coscienza del fatto di vivere in un tempo di profonda crisi ecologica, con degli squilibri che stanno mettendo a serio repentaglio il nostro pianeta, e di conseguenza la nostra stessa esistenza umana. A questo, sottolinea ancora Fadini “corrisponde un vero e proprio deterioramento dei modi e degli stili del vivere umano, che investe la rete amicale e di parentela, ridotta al minimo, la sfera domestica, corrotta dal consumo massmediatico, la dinamica coniugale, penosamente standardizzata”.

Guattari mostra come il rapporto tra i soggetti e ciò che è loro esterno, sul piano sociale, animale, vegetale, cosmico, sia compromesso. Gli organismi politici non sembrano testimoniare una reale determinazione e volontà di intervento per opporsi a questa progressivo e distruttivo sgretolamento della terra e delle relazioni umane, sempre più virtuali, o nel peggiore dei casi non-relazione, laddove l’altro è visto solo come fonte di problemi, da tenere a debita o assoluta distanza dal proprio orticello. Il risultato di tutto questo, a parere di Guattari, “va nel senso della disoccupazione, della marginalità, della solitudine, dell’inoperosità, dell’angoscia e la nevrosi e non in quella della cultura, della creazione, della ricerca, della re-invenzione dell’ambiente, dell’arricchimento delle forme di vita e di sensibilità.”

È perciò convinzione del filosofo francese che una risposta adeguata alla crisi ecologica non possa che presupporre un riorientamento degli obiettivi della produzione dei beni materiali e immateriali, che possano fornire le fondamenta per “un’autentica rivoluzione politica, sociale e culturale che non riguarderà soltanto i rapporti di forza visibili su grande scala ma anche i territori molecolari della sensibilità, dell’intelligenza e del desiderio: non si deve accettare che la finalizzazione del lavoro sociale sia stabilita dall’economia del profitto e dai rapporti di potere, dalle forme dominanti di valorizzazione delle attività umane” Tale risoluzione è quella che Guattari chiama ecosofia, che punta inoltre a una“ri-singolarizzazione individuale e/o collettiva, piuttosto che a una utensilizzazione massmediatica, sinonimo di sgomento e disperazione”, nell’ottica di una re-invenzione “del rapporto del soggetto con il corpo, con le fantasie, con il tempo che passa, con i misteri della vita e della morte” nel tentativo di trovare degli antidoti contro “l’uniformazione massmediatica e telematica, il conformismo delle mode, la manipolazione delle opinioni ecc..”.

Da tale punto di partenza che ristabilisce un’interazione positiva tra il soggetto e le sue relazioni con sé stesso, con gli altri e con il proprio ambiente si può forse far fronte a quel “venire meno del mondo, alla sua sparizione (che significa eliminazione di soggetti/individui esperienze, segni, gesti), alla sua avvilene riconduzione al (dentro il) capitale” (Fadini).

Insomma, in questa sede non possiamo entrare come si deve nel pensiero di questi due autori, possiamo solo, semplificando molto, che entrambe le critiche vertono su un tipo di esistenza che oltre a violentare la terra seguendo in maniera quasi ossessivo-paranoica pratiche di profitto economico, indifferente a qualsiasi etica sociale e ambientale (e anche di sopravvivenza), tendono a svilire l’individuo e i suoi rapporti, con gli altri, con il proprio lavoro, con la natura e con la sua stessa esistenza.

Immagine tratta da cedricphilibert.net

Ultima modifica il Mercoledì, 29 Gennaio 2014 12:03
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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