Il 2018 è stato un anno ricco di anniversari storici in Europa, spaziando da Marx alle tristi memorie della Prima guerra mondiale. Alcuni di questi anniversari, inoltre, per una singolare congiuntura della Storia con la s maiuscola, risultano collegati gli uni con gli altri; e danno l'opportunità a noi che viviamo in questa strana epoca di volgere uno sguardo al passato.
Repeal the 8th. Sui risultati del referendum irlandese
Savita Halappanavar era una giovane dentista di origini indiane che viveva da tempo in Irlanda.
Nel novembre del 2012, a seguito di un marcato malessere e capendo di star perdendo il bambino che portava in grembo, si era recata nell'ospedale universitario di Galway, chiedendo che la gravidanza – ormai compromessa – venisse interrotta. A causa dell'ottavo emendamento alla costituzione irlandese, aggiunto nel 1983 a seguito di un referendum, che metteva sullo stesso piano la vita del feto e la vita della madre, proibendo in sostanzialmente qualunque caso l'aborto, il personale medico dell'ospedale si rifiutò di interrompere la gravidanza. Savita è morta di setticemia dopo pochi giorni.
Lo scorso 18 novembre, davanti all'Ard Fheis del partito, il quasi settantenne Gerry Adams ha annunciato il suo ritiro da presidente dello Sinn Fein, posizione da lui ricoperta per più di trent'anni. Nel breve discorso, che tra le altre cose descrive la brexit come «la più grave minaccia al popolo irlandese da generazioni» e critica duramente il governo dell'Eire e il primo ministro Varadkar accusandolo di thatcherismo, Adams ha parlato della necessità di trasformare la «cultura di resistenza» forgiata nei duri anni dei Troubles in una «cultura di cambiamento» in grado di accompagnare la crescita del partito, tanto nel Nord quanto nel Sud dell'Irlanda.
di Jacopo Vannucchi, pubblica sul numero cartaceo di marzo
Identità irlandese: dalle origini ad oggi
«De Valera […] aveva cercato di convogliare risorse umane ed economiche nelle campagne, nella convinzione che le attività agricole fossero quelle più adatte ad un popolo di santi e di repubblicani. […] La visione ignorava non solo i desideri degli irlandesi di fare fortuna e migliorare i loro standard di vita […] ma anche i costi umani e sociali dell’arretratezza economica: in particolare la tubercolosi, le malattie infantili, […] [m]entre nelle campagne l’agricoltura e la Chiesa perpetuavano un asfissiante regime patriarcale».
Eugenio F. Biagini, Storia dell’Irlanda dal 1845 ad oggi
«Fu divertente finché durò. […] L’Irlanda si sentiva libera, alla fine. […] Libera dalla religiosità autoritaria che compensava l’assenza di moralità civica. Libera dal bisogno di celebrare una pittoresca povertà per fare virtù di una bieca necessità. In questi anni l’Irlanda era rozza e talvolta volgare, governata in modo insufficiente e intralciata dall’assenza di una visione di lungo periodo e di una genuina ambizione pubblica. Era caotica, talvolta al limite dell’anarchia. Ma c’era, al fondo di tutto, una ragione di ottimismo».
Fintan O’Toole, Ship of Fools. How Stupidity and Corruption Sank the Celtic Tiger
Il bipartitismo Fine Gael / Fianna Fáil (almeno fino alla recente crescita dello Sinn Féin) è stato, pochi anni fa, ricondotto addirittura a diversità genetiche. Il primo partito conterebbe su una base prevalentemente di discendenza anglo-normanna, il secondo su una soprattutto gaelica.
Senza bisogno di ricorrere a simili determinismi, è evidente che i tratti culturali dell’Irlanda, nell’Éire come nell’Ulster, sono figli di una secolare maturazione.
L’identità irlandese moderna inizia a consolidarsi nel XVI secolo, con la definitiva fusione di due ceppi etnici: quello gaelico autoctono e quello dei “Vecchi Inglesi”, discendenti dai conquistatori normanni (vassalli, all’epoca, del re d’Inghilterra). In questo periodo l’alterità dell’Irlanda rispetto a Londra ruotò attorno al fallimento della Riforma anglicana, ostacolata sia da insufficienti infrastrutture di comunicazione interna sia dal timore inglese di non sollecitare un intervento spagnolo in difesa dei cattolici. In ogni caso si provvide a insediare una cospicua popolazione protestante nell’Ulster, organizzandone la colonizzazione secondo il modello già sperimentato nelle terre americane della Virginia. La maggiore ondata di coloni protestanti fu però frutto di migrazioni private dalla Scozia.
Questi coloni, circondati da una popolazione cattolica, si stabilirono in insediamenti fortificati (in modo non dissimile dalla gentry bianca nell’odierno Sudafrica post-apartheid). Le violenze contro i coloni perpetrate dai cattolici nel 1641, nel quadro della guerra civile inglese, sono all’origine della sindrome di assedio tuttora operante nell’Irlanda del Nord: i protestanti, che costituiscono la maggioranza dell’Ulster, risultavano e risultano però in netta minoranza nella dimensione pan-irlandese. Questa identità confessionale-locale, peculiarmente combattiva, fu ulteriormente consolidata dalle vicende dell’assedio di Derry del 1689. La città resistette all’assedio del re cattolico Giacomo II, ma le navi inglesi inviate in supporto dal protestante Guglielmo d’Orange in un primo momento si ritirarono, dando ormai per spacciata la sorte degli assediati. I protestanti dell’Ulster compresero che avrebbero sempre dovuto far conto su se stessi più e prima che sul governo di Londra.
Nel resto dell’Irlanda il veemente puritanesimo di Cromwell aveva portato dopo il 1649 a spoliazioni ed espropri agrari ai danni dei cattolici. Dopo il 1689 le leggi restrittive anticattoliche furono ulteriormente inasprite. La popolazione di obbedienza romana si rivolse così a formazioni extra-statali (principalmente la Chiesa e le società segrete rurali), mentre, d’altro canto, furono i protestanti a sviluppare un proto-nazionalismo. Oltre che nell’Ulster essi erano presenti soprattutto a Dublino, dove, come esponenti della borghesia locale, dettero vita a una riflessione politica analoga a quella partorita in quello stesso periodo dai coloni americani.
Nel 1798 la rivoluzione indipendentista di Wolfe Tone (anch’egli un protestante), sostenuta dalla Francia, pur fallendo, convinse Londra a sopprimere l’autonomia parlamentare concessa a Dublino nel 1782. Dal 1801 l’Irlanda fu inclusa con la Gran Bretagna nel nuovo Regno Unito. I protestanti, in maggioranza, si rassegnarono all’Unione, vedendola come il male minore; furono i cattolici, da allora, a ereditare il sentimento nazionalista. Al tempo stesso, sulla scena irlandese, furono i Tories (conservatori) a restare più schiettamente anglofobi, anche per idiosincrasia verso il presunto filo-cattolicesimo degli Whigs (liberali). (L’antipatia dei Tories irlandesi per Londra si doveva anche al fatto che la Chiesa d’Irlanda, pur restando parte della comunione anglicana, era autonoma dalla Chiesa d’Inghilterra.)
Negli anni 1840, appena prima della Grande carestia delle patate e mentre in Gran Bretagna maturava il cartismo, il proprietario cattolico Daniel O’Connell mobilitò enormi masse di fittavoli suoi correligionari battendosi per tre obiettivi: l’abrogazione delle leggi discriminatorie anticattoliche, i diritti dei fittavoli, la revoca dell’Unione. Questo movimento, poi travolto dalla carestia, da un lato iniziò la saldatura tra nazionalismo, cattolicesimo e movimenti agrari; dall’altro lato, fu il primo episodio in cui la politica irlandese si appoggiò sulla Chiesa cattolica per colmare le proprie lacune organizzative. Entrambe le questioni si sarebbero ripresentate trent’anni dopo, con la Grande deflazione.
Nel frattempo la Chiesa cattolica irlandese aveva assunto un profilo più militante e compatto, favorita anche dagli effetti sociali della carestia. Per un verso questa aveva decimato le popolazioni dell’Ovest rurale, più devote alla contaminazione coi riti pagani, favorendo dunque l’uniformità delle pratiche di culto; per altro verso, le famiglie contadine, memori della carestia, tendevano a evitare il frazionamento delle terre e quindi destinavano più figli alla vita ecclesiastica. Questa rinnovata influenza sociale produsse per contrasto un ulteriore arroccamento dei protestanti, irritati anche dalla politica conciliatoria di Londra tesa a evitare di spingere la Chiesa cattolica nelle braccia dei nazionalisti. Fu però una minoranza intellettuale di protestanti à la Wolfe Tone a recuperare nel XIX secolo le tradizioni gaeliche, viste come punto di riferimento per un’Irlanda a-confessionale.
Gli anni della carestia e quelli immediatamente seguenti videro, com’è ovvio, un momentaneo acquietarsi delle pulsioni rivoluzionarie. Fu tuttavia in questo periodo che il nazionalismo definì meglio la propria impalcatura concettuale: in concomitanza con le Rivoluzioni del 1848 l’obiettivo nazionale fu affermato essere subordinato ai diritti dei fittavoli, poiché la Repubblica, si diceva, poteva avere una base solida solo nella proprietà contadina. L’iniquità dei patti agrari era del resto alla radice della morte per fame di un milione di persone, dipendenti dalle patate, in un Paese che restava esportatore di cereali. Proprio dalla piccola borghesia contadina provennero i ranghi della Irish Republican Brotherhood, la prima organizzazione nazionalista moderna (1858).
Queste linee di frattura storiche erano destinate a manifestarsi in tutto il loro potenziale esplosivo dopo il 1912, l’anno in cui il Parlamento britannico approvò definitivamente la Home Rule per l’Irlanda. Londra avrebbe voluto un’Irlanda unita, sia per liberarsi completamente della questione irlandese sia per avere la garanzia che grazie alla minoranza protestante il nuovo Dominion sarebbe rimasto fedele all’Impero. Nel convulso decennio che separa l’approvazione della Home Rule (mai entrata in vigore, per via dello scoppio del conflitto mondiale nel 1914) dal Trattato anglo-irlandese (dicembre 1921) il mantenimento dell’Ulster protestante nello Stato irlandese si rivelò però impossibile.
Dopo la divisione dell’isola, nel 1922, l’Éire (“Stato Libero Irlandese” fino al 1937) e l’Ulster percorsero binari diversi, come diverse erano le due società, ma paralleli. Il tratto comune fu la permanenza al potere di forze conservatrici risolute a impedire sviluppi democratico-progressivi. Nel Nord il governo unionista pose in atto una strategia segregazionista che ricalcava fedelmente quanto avvenuto, oltreoceano, negli stati ex-confederati: la divisione artificiale delle classi inferiori in modo da integrarne una parte a sostegno del regime conservatore e, in specifico, evitare l’affermazione di un partito laburista di massa come invece avvenuto in Gran Bretagna dopo il 1918. L’Irlanda del Nord era tra le aree più disagiate del Regno Unito, per cui un impiego pubblico o l’assegnazione di un alloggio popolare facevano spesso la differenza tra la miseria e una vita decente. La discriminazione occupazionale (e anche elettorale, tramite un attento disegno delle circoscrizioni) tra proletari protestanti e proletari cattolici, in un contesto in cui il potere economico era in mani protestanti, consentì l’erezione di una barriera tra le due comunità religiose. Anche dopo il 1945, quando le sinistre toccarono l’apice storico, la risposta governativa consisté nell’aumento della spesa assistenziale e di impieghi nel settore pubblico. L’inconveniente di questa politica fu che alcune frange della classe operaia protestante si radicalizzarono su basi confessionali, sostenendo a partire dagli anni Sessanta l’estremismo religioso del pastore Ian Paisley.
Nel caso dell’Éire gli elementi di freno furono l’arretratezza delle strutture agrarie e il potere della Chiesa cattolica, sui quali andarono ad agire le profonde divisioni politiche seguite alla guerra civile del 1922. La prima classe dirigente del nuovo stato, improntata ad una visione liberista e liberale e raggruppata nel Cumann na nGaedheal, rappresentava gli interessi finanziari, commerciali, industriali e delle aziende agricole più grandi e moderne. Per contro i nazionalisti seguirono nei primi anni una tattica astensionista, mentre i laburisti stentavano a decollare. Ciò lasciò il Cumann privo di sostanziale opposizione, in un sistema politico zoppo. Unitamente alla sua debolezza organizzativa, ciò spinse il partito a fare affidamento sull’appoggio della Chiesa cattolica, alla quale in cambio fu riservata un’influenza ancora maggiore nel campo culturale e dei costumi.
L’arrivo al potere dei nazionalisti (Fianna Fáil), nel 1932, paradossalmente, si tradusse in una spinta ulteriormente conservatrice sul piano sociale. Il loro leader De Valera, veterano dell’Insurrezione di Pasqua e già capo del Governo provvisorio nel 1919, restava fedele al ruralismo ottocentesco e impostò la politica economica sul sostegno alle campagne (da cui il FF riceveva la maggior quota di voti), ove dominava il clero cattolico. La neutralità irlandese durante la Seconda guerra mondiale preservò in parte il Paese dalla ventata progressista che investì nel dopoguerra le nazioni belligeranti: l’assistenza sociale restava imperniata su basi caritatevoli e la tubercolosi si confermava una malattia endemica. Gli elettori segnalarono comunque la necessità di un ricambio: nel ’48 il governo del FF fu sostituito da una coalizione tra laburisti e moderati del Fine Gael; tuttavia, la debolezza del nuovo esecutivo e l’instabilità politica impedirono qualsiasi riforma e, assieme al clima della Guerra fredda, rafforzarono ancor di più la posizione della Chiesa (che senza fatica riuscì a stroncare un primo tentativo di introdurre il divorzio).
Fu solo negli anni Sessanta che l’Irlanda sembrò smuoversi verso il futuro. La classe dirigente forgiatasi nei conflitti di mezzo secolo addietro lasciò il posto a una generazione più giovane, anche tra i laburisti che da partito socialista-agrario presero un’impronta maggiormente cosmopolita e liberal. Gli investimenti industriali crebbero cospicuamente e il Paese iniziò ad abbandonare l’identità agricola. A partire dagli anni Ottanta un regime fiscale particolarmente conveniente e l’ampia disponibilità di manodopera anglofona disposta a lavorare a salari comparativamente bassi hanno attirato numerose imprese multinazionali, specialmente, negli ultimi anni, del settore informatico.
Alla fine del XX secolo non solo l’Éire si era guadagnata l’epiteto di “tigre celtica” per la celere corsa del suo PIL, ma anche l’Ulster ha avviato a soluzione il trentennale conflitto armato e la secolare segregazione della comunità cattolica. È tuttavia emblematico che, poco dopo l’accordo di pace (1998), i partiti “moderati” tradizionalmente rappresentativi delle due comunità siano stati scavalcati nel consenso dalle frange più radicali (il Partito unionista dell’Ulster dal Partito unionista democratico di Paisley, il Partito socialdemocratico e laburista dallo Sinn Féin). Il fatto che entrambe le confessioni scelgano che nella nuova condivisione del potere siano i partiti “estremi” a rappresentarle, ritenendoli evidentemente in grado di negoziare più duramente, è un segno della prudenza e forse della diffidenza con cui ci si approccia alla pace.
Per ciò che riguarda l’Éire, sebbene il PIL irlandese sia nel suo complesso cresciuto a ritmi “cinesi” (e stia adesso tornando a galoppare dopo la recessione), ciò si è accompagnato ad un altrettanto marcato aumento della diseguaglianza. Le statistiche sulla crescita del profitto occultano, cioè, la persistenza di sacche di sotto-sviluppo sociale. L’influenza reazionaria della Chiesa cattolica appare essersi disintegrata nel giro di pochi anni: soltanto nel 1985 è stata liberalizzata la vendita dei contraccettivi, nel 1993 depenalizzata l’omosessualità, nel 1996 introdotto il divorzio e chiuse le “case della Maddalena” (istituti di segregazione per donne “disonorate”). Sebbene restino forti restrizioni all’interruzione di gravidanza, nel 2015 il matrimonio è stato esteso agli omosessuali, cinque anni dopo l’introduzione delle unioni civili.
Tuttavia questa potente spinta libertaria, incoraggiata dal capitalismo cosmopolita, innestandosi sul corpo di un Paese a lungo tenuto sotto una cappa di oscurantismo, sembra aver più che altro prodotto una variante “stracciona” del turbocapitalismo. A cento anni dall’Insurrezione di Pasqua l’Ulster resta separato mentre nella Repubblica d’Irlanda le aspettative sociali della rivoluzione sembrano andate ancora una volta deserte.
La vittoria in Irlanda del referendum sui matrimoni civili. Un Sì su cui riflettere
Fino al 1993 una coppia omosessuale che si baciava per strada a Dublino o in una qualsiasi città irlandese salutandosi dopo una serata al pub, anche solo con un casto bacio della buonanotte, poteva essere incriminata. Oggi quella stessa coppia omosessuale, appena dodici anni dopo che l’omosessualità è stata depenalizzata, può sposarsi e sette persone su dieci non hanno niente da ridire.
La cattolicissima Irlanda dice sì ai matrimoni gay. Il 62,1% ha votato sì nel referendum sull’introduzione delle nozze omosessuali. I no si sono fermati al 37,9%. I voti complessivi a favore sono stati 1.201.607, mentre quelli contrari 734.300. L’affluenza a livello nazionale è stata del 60,5%. Andando oltre a questo grigio calcolo matematico e statistico, è il risultato a essere importantissimo. L’Irlanda è il primo paese a livello mondiale che per l’approvazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso richiede il parere del suo popolo attraverso il referendum. In un paese estremamente cattolico, dove la cattolicità non ha solo un valore religioso ma anche nazionalistico, distinzione fondamentale nella lotta fratricida con l’Irlanda del Nord e contro l’eterno nemico inglese, il risultato non era affatto scontato. Superare il dogmatismo cattolico sulla famiglia tradizionale sembrava quasi impossibile, fino al 1993 l’omosessualità era ancora un crimine e vedere l’Irlanda affiancarsi all’eterno rivale britannico nell’estensione dei diritti civili alla comunità omosessuale sembrava utopico.
Il risultato del referendum e la sua grande partecipazione hanno messo a tacere tutti. Troppo facile fare un paragone con la situazione in Italia, quasi avvilente. Tutti i partiti politici irlandesi avevano appoggiato il referendum e hanno applaudito alla vittoria del fatidico “Sì”, dal primo ministro Enda Kenny nonostante dichiaratamente cattolico praticante che ha ringraziato i giovani irlandesi per la spinta data alla vittoria, sino ai leader dei partiti d’opposizione. Nel nostro paese invece Matteo Salvini che, dopo aver posato nudo per il settimanale “Oggi”, non perde occasione per ostentare la sua virilità e mascolinità, sottolineando l’importanza di essere veri uomini rispetto agli omosessuali e la devianza delle donne lesbiche, affermando inoltre la crescita deficitaria di un bambino cresciuto da due genitori omosessuali, ignorando gli anni di studi mondiali e europei medici, psicologici e pedagogici sulle differenze nulle di crescita di un bambino con genitori dello stesso sesso rispetto a un bambino con genitori eterosessuali. La gravità della situazione italiana non sta solo nell’arretratezza in materia di diritti civili rispetto al resto d’Europa (paesi come la nazionalista e cattolica Croazia, la Slovenia e la pericolosa Ungheria di Orban ci hanno sorpassato da anni), vista l’arretratezza politica che abbiamo può anche essere normale, ma sta nell’arretratezza culturale.
A partire dai nostri politici, sino alla vita di tutti i giorni, la comunità lesbica e omosessuale italiana (per non parlare della situazione relativa alla transessualità) è bersaglio di dichiarazioni degradanti, luoghi comuni, additata come un pericolo per la mascolinità dell’uomo italiano, concetto che ci portiamo dietro dall’epoca fascista e affinato con il ruolo patriarcale dell’uomo nella famiglia e la sudditanza della donna, eredità questa della tradizione cattolica. Non vi è alcuna tutela, solo strumentalizzazione politica da parte dei partiti e totale ignoranza sul tema dalla gran parte della popolazione. Gli stessi partiti politici che si ritengono progressisti e dovrebbero fare loro la battaglia per i diritti civili, a partire dal PD che si proclama rappresentante assoluto della sinistra italiana sino agli altri partiti della sinistra, si dimostrano ancora incapaci di affrontare con successo il problema. Questo perché a mio parere gli elementi culturali conservatori della tradizione fascista e cattolica di cui ho parlato prima hanno contagiato ormai da troppo tempo anche quelle formazioni politiche che ideologicamente dovrebbero aprirsi alle lotte per i diritti. La famiglia tradizionale, l’uomo italiano forte e virile, la difesa di una presunta moralità sono elementi ideologici che hanno condizionato il progresso ideologico sui temi della sessualità e dei diritti civili e che hanno segnato anche formazioni politiche di sinistra. Basti pensare al ruolo del Partito Comunista nella battaglia sociale per il divorzio e l’aborto, un partito quello che al suo interno aveva molti elementi sociali conservatori. In questo paese a causa di questa impalcatura ideologica e cultura conservatrice, accompagnati da un misto di bigottismo culturale e ipocrisia, non si è mai seriamente portato avanti una politica di educazione sessuale nelle scuole, certe tematiche sono ancora oggi considerate dei tabù e il ruolo stesso della donna all’interno della società continua a essere traballante. Elementi che possono apparentemente sembrare scollegati, ma che invece si intrecciano in questa lotta comune contro una società estremamente maschilista, conservatrice e arretrata. Non siamo ancora arrivati a capire che il riconoscimento dei diritti civili è strettamente legato al diritto di un cittadino italiano a essere felice e di costruirsi una vita.
Senza portare questi cambiamenti e smetterla di pensare che l’omosessualità sia un problema e un pericolo, non aiuteremo mai tutti quei ragazzi e ragazze che crescono con un disagio enorme una volta resosi conto negli spogliatoi dove praticano sport, nelle scuole, nei locali ecc che gli piacciono persone dello stesso sesso e questa sensazione di diversità inserita all’interno del clima rigido e ostile che abbiamo li porta a sentirsi rifiutati, problematici, malati nonostante ormai l’omosessualità non sia più considerata una malattia psicologica come erroneamente si pensava prima. E vi assicuro che certe esperienze lasciano più segni di qualsiasi patologia mentale e anzi compromettono l’equilibrio psicologico di un ragazzo nella sia crescita. Il problema della mancata educazione o semplice discussione nelle scuole frena questo processo di supporto e di far capire ai nostri ragazzi che i loro coetanei con un orientamento sessuale diverso dal loro non sono nulla di patologico o pericoloso.
Si parla spesso di difendere i giovani, soprattutto lo dice la Chiesa cattolica nel suo sforzo di repressione, ma non si capisce che continuando su questa linea intransigente e senza riconoscere i diritti e le tutele noi i giovani li distruggiamo. In Irlanda tutti quei giovani che si riteneva fossero minacciati da quella che molti cattolici e conservatori chiamano “teoria gender” (come se vi fosse in atto una qualche cospirazione internazionale) erano nelle piazze a spingere per l’approvazione del referendum e hanno festeggiato tutti assieme, senza badare all’orientamento sessuale, per il riconoscimento dei diritti di tutti i giovani a essere felici. In Italia non si capisce che questa lotta va di pari passo con le lotte sociali, si continua a utilizzare la scusa dei problemi economici per mascherare un senso di repulsione diffuso e di conservatorismo ideologico. La contraddizione dell’odio diffuso nei confronti della Chiesa cattolica accompagnato però dalla strenua difesa dei suoi capisaldi. Insieme a una mancata comprensione e mancata acquisizione di uno dei maggiori fondamenti degli stati moderni, la laicità di uno stato rispetto alle istituzioni religiose, e questa mancata consapevolezza è frutto di decenni se non addirittura secoli di profonda collusione politica e economica che hanno instaurato un rapporto di sudditanza tra la Chiesa e molti partiti. In Italia oramai la proposta di legge per i diritti civili è diventata esclusivamente materia elettorale, una vuota promessa che riecheggia annualmente dalle voci grosse del Partito Democratico mai accompagnata da iniziative serie e decise. A sinistra del PD, la perduta credibilità politica di Vendola impedisce che la sua propaganda a favore dei diritti venga recepita e ancora più a sinistra si sono dimenticati che Rifondazione Comunista è stato sinora l’unico partito a presentare un progetto di legge respinto per le unioni civili. Nelle formazioni politiche di destra o conservatrici, si continua con il ripudio e le denigrazioni, rifiutandosi di affrontare la questione in maniera civile e moderna come hanno fatto molti partiti conservatori europei. A dimostrazione del fatto che il problema più che politico è culturale. La Chiesa cattolica in Italia continua con il suo ostruzionismo e le dichiarazioni in merito di Papa Francesco vengono gonfiate dai media oramai preda dell’orgasmo collettivo seguito alla sua elezione al soglio pontificio, dimenticandosi la sua storia all’interno delle istituzioni ecclesiastiche e che le sue frasi sono soggette a più interpretazioni.
Lontane le parole dell’arcivescovo di Dublino e Primate d’Irlanda Diarmuid Martin “È una rivoluzione sociale. La chiesa ora deve fare i conti con la realtà”. In questo clima di ignoranza soprattutto e di chiusura mentale è impensabile poter arrivare al traguardo raggiunto dall’Irlanda, un paese che ancora oggi non ha legalizzato l’aborto se non in casi eccezionali, cosa che i nostri giornali e media continuano a ripetere quasi a esorcizzare il senso di vergogna che si prova quando ci si sente sorpassati. Guardando la cartina europea in materia di diritti civili, tutela e riconoscimento delle comunità Lgbt non si può che provare un profondo senso di vergogna e rifiuto, chiedendosi come mai ancora anche l’Unione Europea non intervenga per normalizzare la situazione in tutta l’eurozona e combattere chi ancora ipocritamente ne sostiene la non normalità di questi provvedimenti. Forse perché qualcuno in questo paese proverà un senso di orgoglio a guardare questa cartina dei diritti, sentendosi protetto da una qualche minaccia. Ma basta pensare a queste tristi cose. In fondo questi discorsi mi vengono perché, guardando esultare quei ragazzi sotto il cielo d’Irlanda, se da una parte sono felice dall’altra rosico invidioso. Best wishes to the newlyweds!
I sondaggi lo danno quasi al 30% e Tsipras di dice convinto della sua vittoria alle prossime elezioni generali. L’ex braccio politico dell’IRA cerca di farsi strada in Europa, senza rinunciare alle proprie radici.
Il Sinn Fein del 2015 si sta affacciando in Europa, gradualmente volgendosi alla sinistra anti austerità.
Jimmy’s Hall - Ken Loach torna a raccontare l’Irlanda: storie di odio, di amore, di rivoluzione.
Lotta di classe a trecentosessanta gradi nel nuovo film di Ken Loach, ambientato nell’Irlanda degli anni trenta. Quando il leader comunista Jimmy Gralton torna nella contea natale di Leitrim, dopo anni di esilio forzato in America, decide di riaprire la Pearse-Connolly Hall, sala da ballo che aveva costruito prima dell’emigrazione per permettere ai contadini del posto di ballare liberamente, leggere, discutere e emanciparsi dal tirannico monopolio che la Chiesa locale esercita sull’istruzione. Contro la riapertura della sala, dove Gralton mette ampiamente in circolo le sue idee rivoluzionarie e radicalmente anticlericali, si scagliano padre Sheridan, austero e anticomunista prete locale, e le formazioni fasciste della Contea. Per Jimmy, che aveva deciso di abbandonare la vita spericolata di un tempo e dedicarsi interamente
Notizia battuta da molte delle maggiori testate italiane quella dell'arresto del Presidente dello Sinn Fein, il partito indipendentista irlandese. Ma niente, assolutamente niente, di approfondito.
Gerry Adams è stato arrestato la sera del 30 aprile e trattenuto nel commissariato di Antrim con l'accusa di essere il mandante dell'omicidio di Jean McConville, avvenuto nel 1972. La donna, all'epoca della scomparsa, aveva 37 anni e dieci figli, tutti avuti da un cattolico sposato anni prima. Lei, di famiglia protestante, fu uccisa dall'IRA con l'accusa di essere una spia che passava informazioni alla RUC, la Royal Ulster Constalbury, la violenta polizia che manteneva l'ordina in Irlanda del Nord. Adams, come aveva già fatto quando le accuse gli erano state rivolte in precedenza, anche prima di entrare nel commissariato ha ribadito la propria innocenza.
«Belfast offrirà una cornice spettacolare ed apporterà qualcosa di molto speciale alla storia di questa corsa già mitica». Michele Acquarone rilascia questa dichiarazione a inizio 2013, quando è ancora direttore di RCS Sport (organizzatrice dell'evento), per annunciare la partenza da Belfast del Giro d'Italia n°97 (maggio-giugno 2014). Probabilmente il riferimento è al "cielo di Irlanda" cantanto dalla Mannoia o alle suggestioni che evoca il trifoglio nell'immaginario italiano.
Le polemiche che sono scoppiate attorno all'evento sportivo, ad un anno di distanza dall'annucio, non riguardano però la cultura celtica. E neanche le vicende che hanno portato al licenziamento di Acquarone. È la ferita dell'Ulster (le contee settentrionali rimaste sotto il controllo britannico) che continua a sanguinare. A ricordare il problema della questione irlandese sono state le dichiarazioni dell'onorevole Anna Lo, dell'Alliance Party (partito moderato di orientamento liberale), che ha proposto di rimuovere dal tracciato del Giro d'Italia le bandiere e i murales di Belfast (che caratterizzano la città), perché legate a un passato di guerra.
Il problema più grosso per il Celtic non sono i brutti risultati in Champions League, ma la coreografia che ha accompagnato la partita contro il Milan, in quel di Glasgow (il 26 novembre).
“Terrorista o idealista, disumano o impavido? Dipende da quale voto stai provando a afferrare o quale faccia stai provando a salvare”. Le frasi sono apparse al fianco delle effigi di William Wallace (su sfondo di bandiera scozzese) e di Bobby Sands (su sfondo di bandiera irlandese).
Messaggio politico e/o ideologico, vietato dalle regole Uefa.
Peccato che l’obiettivo del gesto fosse la legislazione del governo scozzese inerente il calcio, lo “Scottish Government’s Offensive Behaviour at Football Act and Police Scotland’s”, che per le Brigate Verdi criminalizza espressioni della politica irlandese nel regolare quello che è legittimo o non è legittimo esprimere.
La solidarietà tra la cattolica e indipendentista tifoseria del Celtic e la storia dell’IRA ha creato diversi problemi alla società, che purtroppo ha scelto di provvedere personalmente contro alcuni tifosi e si affanna a prendere le distanze, spaventata dalle ritorsioni della UEFA.
Tutti sanno chi è Bobby Sands, o tutti dovrebbero saperlo. Ma è utile riassumere la logica perversa che muove la polemica contro la coreografia.
L’Europa è una realtà federale pacificata, secondo le narrazioni dei governanti (l’Unione Europea è premio nobel della pace, alla faccia di baschi, irlandesi e di tutti quelli che hanno avuto la fortuna di assaggiare la repressione del vecchio continente).
L’Irlanda è un paese indipendente (se ci si dimentica delle sei contee dell’Ulster).
Bobby Sands è morto a seguito di uno sciopero della fame (pratica non violenta), incarcerato per questioni politiche e provato dalla repressione dell’oggi acclamata (e defunta) Thatcher.
Su William Wallace è stato girato un film da Mel Gibson (decisamente non un rivoluzionario, per idee politiche, il noto Braveheart.
La reazione a questo striscione, che ricorda quella contro i cori razzisti (ben noti in Italia), rivela tutta la fragilità di una retorica assolutamente politica, che cerca di nascondere dietro ad una presunta neutralità la rimozione del conflitto. Basta pensare a quanto inefficace (e talvolta ridicola) è la vicenda mediatica di Balotelli.
Almeno però nel caso della discriminazione razziale si può parlare di ipocrisia e superficialità. In questa vicenda ritornano alla mente le polemiche su Di Canio e Lucarelli, quando importanti opinionisti si permettevano di paragonare (e mettere sullo stesso piano) il pugno chiuso della Resistenza e il braccio teso del fascismo (che è anticostituzionale).
Pensare di tenerla fuori dagli stadi vuol dire avere in mente un’idea di politica separata dalla quotidianità, quasi una professione per pochi adepti, più che una pratica di partecipazione quotidiana.
Il volto pulito degli stadi aiuta a nascondere il malaffare, la passione dello sport rende complicato specularci sopra.
Quindi, semplicemente, lunga vita ai tifosi del Celtic.
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