Le proteste in Iran: un tentativo di analisi
Il 28 dicembre a Mashhad, una città dell’Iran occidentale che conta circa due milioni di persone, è scoppiata una protesta spontanea destinata a diffondersi rapidamente e in maniera capillare in quasi tutto il paese, soprattutto nelle zone di provincia, mentre è rimasta più marginale nella capitale Tehran. La rivolta, che secondo alcuni giornalisti sembra sia stata organizzata inizialmente da gruppi ultraconservatori – i cosiddetti principialisti, frangia più estrema della “destra”, per usare una semplificazione – in opposizione al governo di Hassan Rouhani, ha preso una piega anti-sistema e trasversale contro tutto l’establishment politico e religioso iraniano. Le notizie che ci giungono dall’Iran sono poche e incomplete, il che rende difficile elaborare un quadro esaustivo e adeguato della situazione; ciò è dovuto anche alla censura apposta sulla stampa locale e all’oscuramento di alcuni social network. Le manifestazioni popolari, oltre ad essere silenziate mediaticamente sono state soffocate nel sangue dalle autorità, portando il drammatico bilancio a 22 vittime. Uno dei motivi di questa campagna repressiva è da ricercarsi anche nel fatto che il movimento di rivolta, privo di un’organizzazione e di una leadership che lo guidi, risulta totalmente esterno e ostile a qualsivoglia partito politico.
Si conclude la terza edizione del Festival delle Religioni, la manifestazione fiorentina che si pone l’obiettivo di parlare di religione e degli influssi che essa ha nella società, “ponendo una lente di ingrandimento non soltanto su ciò che unisce ma anche su ciò che divide, su ciò che spesso è motivo di scontro, affinché una più approfondita conoscenza delle differenze arricchisca il panorama culturale del nostro mondo” . Qui vi proponiamo una sintesi della conferenza pomeridiana “Religioni di pace o di guerra?” che ha visto la partecipazione di Michel Maffesoli, sociologo di fama internazionale e professore di Scienze Umane presso l’Università della Sorbonne di Parigi, e di Ernesto Galli Della Loggia, editorialista del Corriere della Sera e professore ordinario di Storia Contemporanea presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM). Ha moderato Alberto Negri, inviato speciale del Sole 24 Ore, esperto di politica internazionale e Medio Oriente.
Il diritto di pregare
Tutti gli esseri umani hanno pari doveri e pari diritti. Questo è un assunto fondamentale per il buon funzionamento della nostra società, un assunto imprescindibile perché nessuno si senta un cittadino di 'serie B' davanti alla legge.
Terrorismo: perché "not in my name"
L'ultima vittima è stata Londra, prima c'era stato Berlino, prima ancora Nizza. Tra qualche tempo probabilmente un'altra città diventerà teatro degli orrori. Tanti sono purtroppo gli episodi in cui dei terroristi attaccano le nostre città, causando ovunque orrore e una giusta e naturale reazione della società civile. Ma la naturale reazione della società civile non è più tanto giusta quando porta a gettare odio e pregiudizio verso una comunità, quella islamica, accusata in blocco di essere causa del terrorismo.
A questo atteggiamento consegue e si contrappone la reazione islamica che si sente in dovere di dichiarare con manifestazioni pubbliche che gli atti di violenza non sono responsabilità loro, sono appunto "not in my name". Personalmente trovo che questa reazione non sia molto 'comprensibile': nel senso, ovviamente non sto dicendo che è sbagliato che delle persone dichiarino il loro sdegno per la violenza e vogliano staccarsi dai terroristi, ma sono convinta che non dovrebbe essere necessario. Infatti è uno dei capisaldi del nostro codice penale che la responsabilità penale è personale quindi se un terrorista compie una strage questa è imputabile esclusivamente a lui. Quindi tutto il resto della comunità islamica può dormire sonni tranquilli senza bisogno di manifestazioni pubbliche di condanna del fatto.
Ma dato che questo non accade qualcosa evidentemente non va per il verso giusto: perché i media italiani sembrano ossessionati dalle manifestazioni del mondo islamico, al punto da dedicargli abbastanza spazio? Probabilmente la risposta sta nel pregiudizio che purtroppo offusca i nostri giudizi su una certa etnia.
È come se non riuscissimo a capacitarci dell'esistenza di islamici buoni e quindi avessimo bisogno di vederceli davanti agli occhi. Ma riflettiamo: in occasione di una strage di mafia abbiamo bisogno che tutti i siciliani dichiarino di non essere mafiosi? Forse ahimé sì! Ma se nella nostra cerchia di amici abbiamo una famiglia palermitana non penso che automaticamente inizieremmo a pensare di non invitarli a cena per paura di essere uccisi.
Quindi qual è la differenza? Tutto sta nel grado di conoscenza che ci lega alle persone. Quindi dobbiamo fare lo sforzo di non ragionare per categorie e vedere (e soprattutto giudicare) ogni persona per quello che è. Quando avremo nella nostra cerchia di amici abbastanza famiglie "di colore" (posto che non tutti gli islamici sono neri, e ovviamente non tutti gli islamici sono terroristi) riusciremmo a capire che non tutti sono terroristi e quindi non ci sarà più bisogno di manifestazioni 'Not in My Name'. Non ci resta che aspettare!
Il discorso pubblico - da bar piuttosto che da università - intorno all'Islam occupa oggi uno spazio quotidiano nelle nostre vite. I presupposti di partenza sono per ognuno di noi, ovviamente, differenti. Se appare chiaro quanto viene propagandato, riscuotendo indiscutibile consenso, da una certa destra (più muri, più chiusura, richiamo al concetto “un popolo, una fede”) più complesso, e spesso manchevole, è il “nostro” discorso. Vi è, infatti, a sinistra ma anche tra i semplici liberali, un “detto” e un “non detto” insopportabile.
Premesso, con ogni evidenza, che non si può - e non si deve! - utilizzare l'armamentario ideologico della destra, occorrerebbe tenere a mente che, come diceva Lenin: “i fatti hanno la testa dura”.
Un confuso senso del multiculturalismo impedisce spesso di denunciare la natura oppressiva che la religione islamica (in sé, per ciò che viene mostrato e dunque è, al di là di un'improvvisata difesa della purezza teologica che, quando fatta da atei, appare anche ridicola) esercita su milioni di uomini e, soprattutto, di donne.
Tutte le religioni, in particolare quelle monoteistiche esercitano forme di oppressione su minoranze sessuali, sul genere femminile etc. Tutte le religioni, in particolare quelle monoteiste, prese dalla loro smania di convertire il mondo, portano con sé un sottofondo di violenza.
Lo fa, lo ha fatto, anche il cristianesimo. Alla religione di San Paolo e di Costantino è stato però imposto un limite alla sua, istintiva, sete di predominio e di organizzazione della società. I ferventi cattolici individuano questo limite nel messaggio di umiltà e di non violenza propagandato dal Vangelo. Toccando soltanto ai margini la teologia (che è materia seria, anche se “cerca in una stanza buia un gatto nero che non c'è”) ed addentrandosi nella storia, vi è una risposta più plausibile alla limitazione che è stata imposta (non autoimposta, ma imposta dall'esterno) al cristianesimo nelle società europee.
Da un lato la scissione protestante ha svolto, per il suo stesso esistere, un ruolo indiscutibilmente liberatorio (potremmo dire progressista in senso lato). La presenza di più “cristianità”, di fedeli aderenti a varie chiese ma tutti cittadini (anche di appartenenti a classi agiate e persino dei principi) ha fatto sì che gli Stati (ancora oggi i più laici del Continente) nei quali la Riforma ha più preso piede si ponessero come arbitri. Ciò ha generato una separazione tra lo Stato (ed i suoi valori) e le Chiese capace di far sorgere uno “spazio pubblico” più libero del precedente.
Il secondo aspetto storico è l'immensa fiaccola civilizzatrice che a partire da Parigi ha illuminato il mondo intero. La Rivoluzione Francese è il fondamento valoriale di tutte le grandi dottrine che governano o hanno governato le nostre società (tanto quelle liberaldemocratiche quanto quelle socialiste). Il principio dell'uguaglianza formale, il diritto alla scalata sociale, la netta separazione tra gli spazi privati (nei quali è stata confinata la religione) e quelli pubblici, sono stati il basamento sul quale si sono poi edificati nuovi diritti (civili o sociali).
I Paesi nei quali l'islam è nato, e nei quali è stato a lungo confinato, prima dei processi migratori verso l'Europa, non hanno vissuto quel processo rivoluzionario passando spesso direttamente dal feudalesimo (anche religioso) ad una modernità vissuta spesso come imposizione del colonialismo (cosa che è in parte anche stata) occidentale e dunque come un male da respingere.
Ma vi è di più. La mancata separazione tra il livello politico (la gestione e l'organizzazione della società) e quello religioso affonda, nell'islam, le proprie radici nella stessa dottrina di quella fede. Se si guarda, infatti, alla sua nascita, non si può non vedere la totale identificazione tra il livello politico (rappresentato dal capotribù Maometto, fondatore di una comunità basata non su vincoli di sangue ma sulla comune appartenenza di fede) e quello religioso (rappresentato dalla stessa persona fisica). Una identificazione che è stata pressoché inscindibile per alcuni secoli (almeno fino all'ultimo dei “Califfi ben guidati”).
Si dirà che da quella unione totale sono passati alcuni secoli ma non si può allo stesso modo sostenere che la volontà di corrispondenza assoluta tra il potere politico e l'autorità religiosa non abbia nell'islam un suo fondamento dottrinale. E' stato, quello, un lascito talmente profondo che molti degli ordinamenti, anche di Paesi laici ma a maggioranza mussulmana, sono stati influenzati dalla sharia; un lascito talmente intenso che i diritti (in gran parte simbolici) di guida religiosa dell'ultimo sultano della Sublime Porta, sono stati aboliti soltanto negli anni '20 dello scorso secolo.
Chi si fa dunque portatore di questa interpretazione rigida (non deviata, si badi bene, semplicemente rigida e non disposta a patti con la modernità) dell'islam non può essere definito unicamente un matto, anche se vi è indiscutibilmente la presenza di disturbati psichici nelle fila dei terroristi. Non sono quindi - soltanto - matti e non possiamo noi - atei - dire cos'è il vero islam. Questi terroristi sono islamici in quanto si definiscono tali ed interpretano alla lettera (sono quasi “più mussulmani”) il corano facendosi portatori di concetti appartenenti pienamente alla dottrina islamica. Chi viene affascinato da queste interpretazioni rappresenta sicuramente una minoranza del mondo sunnita (anche se i simpatizzanti di tali teorie sono sicuramente milioni) ed i massimi esponenti teologici dell'islam (in primo luogo l'Università al-Azhar) hanno espresso una chiara condanna, non da oggi, di tali interpretazioni definendole non autentiche. Ciò nondimeno queste teorie non sono esterne all'islam, ne fanno parte a pieno titolo ed i suoi sostenitori, se fanno professione di fede e se rispettano i cinque Arkan al-Islam (unici criteri - in mancanza di un'autorità teologica unica in grado di "scomunicare" i fedeli che si allontano dai propri insegnamenti - per definirsi fedeli islamici), non possono vedersi sottratta la patente di islamici in nome del politically correct.
Vi è però - dato che la maggioranza degli islamici che abitano le nostre società sono poveri o comunque lavoratori dipendenti (e dunque potenzialmente rappresentabili da chi si schiera a sinistra) - un giustificazionismo, anche teologico, una difesa pro domo altrui che non tiene conto della massima “occorre elevare la coscienza delle masse, non adeguarsi ad essa”.
Si ci scaglia con una forza incredibile (e pienamente giustificata) se un Bagnasco qualsiasi dice qualcosa contro gli omosessuali ma, spesso, si tace se posizioni simili vengono espresse da un rappresentante della comunità islamica. Si fanno parallelismi acrobatici tra le affermazioni di qualche odioso esponente politico e chi, oltre ad affermare, uccide (vi sarà pure, per onestà intellettuale, una differenza tra querelare un vignettista e sgozzarlo?).
Altra affermazione che tenta di allontanare i propugnatori di tale dottrine dal “vero islam” è quella secondo la quale la maggioranza delle vittime di quella cieca violenza siano mussulmane. Ciò è assolutamente vero, ma non toglie nulla alle motivazioni che spingono quegli uomini ad agire e che dunque attribuiscono la qualificazione ideologica di quella violenza.
Per dirla meglio: la maggioranza delle vittime della mafia sono siciliane. Si può, senza incorrere nel ridicolo, sulla base di questo assunto, affermare che la mafia sia un qualcosa di esterno alla Sicilia?
La maggioranza di quelle vittime, per altro, sono sì mussulmane ma “mussulmane sbagliate”: appartengono cioè allo sciismo duodecimano (o alle sue innumerevoli filiazioni) e sono dunque dei “kafir”, che vanno colpiti come e quanto i cristiani.
Un'altra delle tesi giustificazioniste tenta di attribuire, in toto, la nascita e la crescita di questi movimenti all'imperialismo. Occorre qui far chiarezza: l'imperialismo ha storicamente un ruolo, ed una colpa incancellabile, nell'aver coccolato questi gruppi (ora contro i sovietici, ora contro i russi od i cinesi) ma non ha fatto nascere questi movimenti.
L'Arabia Saudita, grande madre ideologica di costoro, è sorta anche grazie al contributo dell'imperialismo britannico che, in funzione anti-ottomana, ha appoggiato il wahabismo ma il wahabismo non è stato creato dai britannici a Londra: esisteva già.
Non si tratta dunque di singoli matti o di marginali sociali (ci sono anche quelli): si tratta di un fenomeno pienamente religioso e pienamente islamico. Per convincersene ancora meglio un altro elemento di riflessione è dato dalla presenza di tali gruppi unicamente nell'islam sunnita. Perché essi esistono tra i sunniti e non tra gli sciiti? Perché nello sciismo è l'ultimo imam (in quello maggioritario il dodicesimo) a poter invocare il jiahad. Dato che da un migliaio di anni, l'ultimo imam si è “occultato” (si, secondo la dottrina non è morto) e solo alla fine dei tempi compirà la parusia possiamo star tranquilli sul fatto che gli sciiti non provocheranno guerre sante. Al contrario, nel sunnismo, la umma (tutta la umma, prescindendo dagli Stati nazionali) può essere guidata da chi ne abbia le capacità ed abbia seguito e costui può anche invitare alla conquista.
In conclusione quella che è in corso non è una guerra di religione (il miliardo di mussulmani del mondo ha ben altri problemi a cui pensare) ma è sicuramente una guerra religiosa e la si combatte anche lottando per una riduzione del potere delle religioni (tutte, anche quella islamica) sulla società, sulla politica, sul nostro vivere quotidiano: senza ambiguità, ipocrisie o giustificazionismi.
Sabato 28 febbraio 2015, ore 14:05, mentre sto scrivendo una nota per il Becco (non questa) ascolto distrattamente la Tv accesa in un'altra stanza, si tratta di un servizio sulla manifestazione che terrà oggi la Lega a Roma, trasmesso dall’emittente La7.
Interessato alla notizia mi alzo e vado a seguire il servizio.
Sicilia araba: quando l’integrazione era un fattore sociale.
Il gran parlare di questi tristi giorni, disegnati dal sangue sparso di vittime innocenti sull’altare dell’odio e dell’intolleranza rimanda l’attenzione di tutti e di tutte su questioni che non possono passare in secondo piano se pensiamo e vogliamo anzi pretendiamo una società migliore.
Ho cercato la libertà, più che la potenza, e questa solo perché, in parte, assecondava la prima.
Marguerite Yourcenar
Anche Firenze l'otto gennaio, in piazza Ognissanti davanti all’Istituto francese, si è stretta intorno al dolore di Parigi, così dilaniata da una ferita che probabilmente non si rimarginerà mai. Una ferita che scava nel suo cuore più profondo, più genuino, più fortemente suo rispetto a qualsiasi altra città: la libertà. La libertà di espressione, di parola, di pensiero. E oggi piangiamo lacrime amare, per quella libertà che in un momento è stata massacrata, fatta a pezzi, uccisa, censurata con i colpi dei kalashnikov e col sangue versato.
Premesso che ogni intervento in merito alla recentissima tragedia della strage al giornale satirico "Charlie Hebdo" deve aprirsi con la più totale solidarietà verso la redazione uccisa mentre esercitava un diritto inviolabile come quello della libertà di espressione, occorrerebbe però cercare di andare oltre per capire quali saranno le ricadute di un simile epocale evento e a cosa miravano gli attentatori.
«Non tutti gli islamici sono terroristi». Una precisazione assai ripetuta nelle ultime ore, ovvia ed evidente; tuttavia, stante lo scarso ricorso delle masse alla razionalità, necessaria.
«Non tutti gli occidentali disprezzano la fede e insultano il profeta Maometto». Questo, invece, possiamo dirlo? Possiamo davvero dire che non tutti in Occidente siamo come i carcerieri di Guantánamo, che strappavano pagine del Corano e vi orinavano sopra?
Confesso di aver provato forte stupore di fronte all’ondata di solidarietà levatasi a sinistra nei confronti di Charlie Hebdo, con note ben lontane dalla normale condanna della barbarie e dal rifiuto della violenza: la reazione è infatti consistita nell’assunzione apologetica della linea editoriale di Charlie Hebdo, identificata in ultima analisi con la libertà di stampa. Una reazione tanto emotiva e tanto rivendicatrice del diritto di sprezzare l’Islam la si sarebbe attesa piuttosto dalle destre xenofobe. Tale situazione ha scoperchiato ai miei occhi un rilevante filone dell’attuale condizione della sinistra.
Il Becco è una testata registrata come quotidiano online, iscritto al Registro della Stampa presso il Tribunale di Firenze in data 21/05/2013 (numero di registro 5921).