Giovedì, 11 Gennaio 2018 00:00

Le proteste in Iran: un tentativo di analisi

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Le proteste in Iran: un tentativo di analisi

Il 28 dicembre a Mashhad, una città dell’Iran occidentale che conta circa due milioni di persone, è scoppiata una protesta spontanea destinata a diffondersi rapidamente e in maniera capillare in quasi tutto il paese, soprattutto nelle zone di provincia, mentre è rimasta più marginale nella capitale Tehran. La rivolta, che secondo alcuni giornalisti sembra sia stata organizzata inizialmente da gruppi ultraconservatori – i cosiddetti principialisti, frangia più estrema della “destra”, per usare una semplificazione – in opposizione al governo di Hassan Rouhani, ha preso una piega anti-sistema e trasversale contro tutto l’establishment politico e religioso iraniano. Le notizie che ci giungono dall’Iran sono poche e incomplete, il che rende difficile elaborare un quadro esaustivo e adeguato della situazione; ciò è dovuto anche alla censura apposta sulla stampa locale e all’oscuramento di alcuni social network. Le manifestazioni popolari, oltre ad essere silenziate mediaticamente sono state soffocate nel sangue dalle autorità, portando il drammatico bilancio a 22 vittime. Uno dei motivi di questa campagna repressiva è da ricercarsi anche nel fatto che il movimento di rivolta, privo di un’organizzazione e di una leadership che lo guidi, risulta totalmente esterno e ostile a qualsivoglia partito politico.

I protagonisti delle manifestazioni sono per lo più giovani disoccupati sotto i 25 anni provenienti dalle periferie più povere del paese che sono rimaste tagliate fuori dai processi di occidentalizzazione e sviluppo economico più visibili nella capitale. Infatti, prima ancora che essere una protesta che rivendica diritti umani e civili – come nel 2009 lo fu il movimento dell’Onda Verde – quella che si è scatenata in questi giorni denuncia le promesse, in parte disattese dal presidente Rouhani, in ambito di crescita economica e di contrasto alla povertà. Uno scenario favorevole a una svolta di questo tipo si sarebbe realizzato anche grazie alla cancellazione delle sanzioni internazionali contro l’Iran in seguito all’accordo sul nucleare firmato nel 2015. L’accordo, acclamato come un evento storico che avrebbe posto fine alla “guerra fredda” tra Stati Uniti e Iran, prevede che in cambio della progressiva eliminazione delle sanzioni imposte all’Iran, quest’ultimo si impegni a limitare il suo programma nucleare e a concedere controlli da parte dei paesi Onu sulle sue installazioni nucleari. Inoltre l’ultima campagna elettorale – che alle elezioni del 19 maggio 2017 ha riconfermato Rouhani presidente – è stata portata avanti dal candidato iraniano all’insegna della lotta alla corruzione, ai privilegi (“benefici illegittimi”) della “casta” e delle oligarchie, arrivando persino ad attaccare le Guardie della rivoluzione (pasdaran) e i loro monopoli su larghi settori economici, presentandosi quasi come un outsider (cosa che di fatto non è) rispetto all’establishment politico. Un’aspettativa, anche questa, che è stata, almeno in parte, smentita dai fatti e che ha gettato discredito sulla figura del presidente: ridando linfa vitale al dibattito sulla lotta alla corruzione – contrastata solo in parte – Rouhani ha inasprito il confronto con gli ultraconservatori che hanno visto minacciati i propri interessi politici ed economici e, a causa dello iato tra le promesse fatte e i reali obiettivi raggiunti si è inimicato anche quelle masse popolari che hanno maggiormente risentito del mancato miglioramento delle proprie condizioni socio-economiche in cui avevano sperato. Non è un caso che Mashhad, la città da cui sono partite le proteste, sia una città tradizionalmente legata alla destra conservatrice che può aver forse approfittato del malcontento popolare: è infatti la città di Ebrahim Raisi, uno dei principali avversari politici di Rouhani e imparentato con l’ayatollah Ahmad Alamolhoda, ex consigliere di Khomeini e tra i più strenui “principialisti” e difensori degli ideali della rivoluzione islamica del ’79 . In realtà però, come accennato in apertura, la rivolta sembra non aver preso una posizione politica univoca, rigettando invece rabbia e frustrazione contro l’intero apparato politico compresi conservatori e ultraconservatori.

Quello che forse più emerge in questa scia di manifestazioni incontrollate e incontrollabili, considerando in particolare la giovane età dei suoi protagonisti, è soprattutto la distanza tra un’impalcatura politica e istituzionale che ancora oggi, nonostante aperture alla modernizzazione e all’occidentalizzazione, si regge in gran parte sui valori della rivoluzione del ’79 e una generazione post-rivoluzionaria sempre meno ricettiva e sempre più lontana rispetto a quell’assetto politico-religioso fondato su un rigido islamismo di stato. Una struttura del potere che lo stesso presidente Rouhani ha messo in discussione con un programma che ha visto un’apertura nell’ambito dei diritti umani, delle libertà civili e culturali, della parità di genere, rafforzando il ruolo e la credibilità dell’Iran agli occhi della comunità internazionale. Ciò a quanto pare non è bastato a migliorare concretamente il tenore di vita di una grossa fetta della popolazione, che soffre per la crescente disoccupazione e per i tagli ai sussidi voluti nel 2011 dal precedente governo di Ahmadinejad.

La delicata situazione iraniana è stata posta all’ordine del giorno di un recente Consiglio di Sicurezza dell’Onu voluto dagli Stati Uniti, che intendevano rimettere in discussione l’accordo sul nucleare e reiterare nuove sanzioni contro il governo iraniano accusandolo delle violente repressioni nei confronti dei manifestanti. Più che una posizione dettata da un vero proposito umanitario, a muovere l’attivismo di Trump volto a indebolire il paese medio orientale potrebbero essere i suoi rapporti diplomatici e finanziari con il nemico tradizionale dello sciita Iran, l’Arabia Saudita, che in uno dei primi interventi in politica estera del neo-eletto presidente a stelle e strisce, è stata riconfermata come uno dei principali partner economici e strategici nella scacchiera geopolitica del Medio Oriente. La voce di Trump è rimasta però isolata rispetto al coro generale degli altri membri del Consiglio che hanno dato l’assoluta priorità a una posizione di non-ingerenza nella politica interna iraniana per non rischiare di mettere in discussione l’accordo sul nucleare di così vitale importanza per l’equilibrio internazionale. Durissime a questo proposito sono state le reazioni del vice presidente della Commissione Difesa e Sicurezza del Consiglio della Federazione, il senatore russo Franz Klintsevich che ha accusato gli Stati Uniti di “essere spinti dal desiderio di far crollare l'Iran, che negli ultimi anni è senza dubbio diventata una pedina importante in Medio Oriente. In ultima analisi, l'obiettivo principale per gli Stati Uniti è l'alleanza trilaterale formatasi nella regione tra Russia, Iran e Turchia”. Le preoccupazioni del senatore russo sembrano piuttosto ragionevoli dal momento che l’Iran rappresenta una pedina preziosa per mantenere una sorta di stabilità in un Medio Oriente che sempre di più sembra mostrare di essere simile a una grande bomba a orologeria pronta a scoppiare. Parallelamente guardando con senso critico al fronte della politica interna iraniana non possiamo non valutare positivamente i tentativi del governo Rouhani, di svecchiare le istituzioni teocratiche, da un lato provando a intraprendere un cauto riformismo nella direzione di una graduale democratizzazione del paese, dall’altro promettendo una crescita economica di lungo respiro e una più equa redistribuzione della ricchezza a scapito delle oligarchie. Sebbene questi tentativi siano stati in parte disattesi rappresentano comunque un’apprezzabile discontinuità rispetto ad altri paesi medio orientali (vedi Libia, Siria, Egitto, Afghanistan…) che vivono situazioni di forte instabilità politica, o che sottostanno a regimi repressivi e autoritari spesso di impronta fondamentalista.

Le manifestazioni, al di là delle dure e feroci repressioni che hanno subito da parte delle autorità iraniane, potrebbero rivelarsi un elemento capace di spingere il pedale dell’acceleratore sul processo di modernizzazione e democratizzazione del paese costringendo il governo a rispondere concretamente alle esigenze delle fasce più deboli e a rendere fattiva la lotta alla corruzione. Oppure, esasperate dalle dure e feroci repressioni messe in atto dalle autorità iraniane, le tensioni nel paese potrebbero innescare una destabilizzazione sociale, economica e politica bloccando qualsiasi possibilità di risoluzione del conflitto, se non provocare una reazionaria inversione di tendenza da parte del governo che potrebbe chiudere il paese in una pericolosa morsa autoritaria.

Ultima modifica il Mercoledì, 10 Gennaio 2018 17:55
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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