Domenica, 06 Aprile 2014 00:00

Il vuoto tra Berlinguer e Veltroni, sul grande schermo

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La prima volta che ho votato alle elezioni nazionali c’era la Finocchiaro che invitava a votare Berlusconi piuttosto che la Sinistra l’Arcobaleno.

I tempi di Veltroni segretario del Partito Democratico, su cui ironizzava Maurizio Crozza, giocando sul “ma anche” (l’operaio della ThyssenKrupp ma anche Calearo, che purtroppo qualcuno forse ricorda). L’ennesima evoluzione di quel processo avviato con Occhetto, mescolata al “voto utile” e al sogno di un’alternanza che viene citata nel film, quasi il PCI e Moro fossero seriamente utilizzabili dopo la caduta del muro di Berlino.

Veltroni gira un documentario su Berlinguer”. La notizia ha scatenato grande ilarità e ironia, con un pizzico di rabbia, tra chi si ostina a definirsi comunista o comunque non ha alcuna simpatia per Walter, appassionato di cinema e ben inserito nell’ambiente in cui ha deciso di cimentarsi.

Un giorno di lavoro succede che uno esce un’ora prima a un quarto d’ora dall’inizio della proiezione della pellicola in un cinema vicino, tra i pochi che resistono in un circuito europeo autonomo dalle grandi catene dei multisala.

Ci vado. No, non ci vado. Ma tanto c’è una riunione appena finisce il film, quindi è preciso. Lo so, ma non ci vado. Ma c’è andato anche Bertinotti alla prima proiezione. Appunto, piuttosto potrei diventare un appassionato di aspirapolvere e visitare il negozio di elettrodomestici più vicino. Sei pregiudiziale, devi andarlo a vedere, anche solo per sostenere la sala cinematografica.

Finisce così che uno abbraccia il disastro e si ritrova in mezzo a un’operazione drammatica, che fa capire quanto la scienza sia indietro nel comprendere alcuni meccanismi della mente umana, che mandano avanti personaggi come Walter Veltroni.

Purtroppo resta una pellicola da vedere. Un documentario sincero, che spiega la visione di Berlinguer e dell’ultimo Partito Comunista Italiano, secondo quelli che hanno rigenerato (o distrutto) la sinistra italiana.

Il film è come Dorian Gray. A differenza del racconto, gli italiani vedono il ritratto giorno dopo giorno, mentre qui possono godere di quel volto pulito che alcuni politici sono convinti di avere, in una visione della vita che niente ha a che fare con la politica.

Finisce che ti ritrovi un presidente della Repubblica, Napolitano, commosso che singhiozza, un Lorenzo Cherubini affermare qualcosa del tipo: "il comunismo nasce e muore con Berlinguer" (sperando di aver capito male, ma un ragionamento simile comunque è stato espresso). Ingrao che andrebbe lasciato in pace, a 98/99 anni, invece di usare il corpo del passato per rivendicare un’appartenenza spesso riempita di simboli per carenza di contenuti (cosa che non fa solo Veltroni, ad essere onesti).

Musiche invadenti, che ti fanno interrogare sul perché ci sia bisogno di tanta ostentazione e da lì forse capisci: perché c’è il vuoto politico di una generazione che ha bisogno di ridurre i miti a mera dimensione umana. Tanto che la figura di Berlinguer finisce per apparire aproblematica. Alcuni passaggi tentano di spiegare la complessità dei processi politici che attraversò l’Italia in quegli anni, ma finiscono per essere appena accennati o tradursi in semplici giudizi. È il caso delle ultime scelte politiche del segretario comunista, come l’appoggio alla lotta degli operai di Mirafiori. Uno esce dalla sala con il dubbio che qualcuno teorizzi seriamente che andavano appoggiati quei quarantamila “colletti bianchi” a cui dovremmo togliere la pensione, per passargli quel reddito minimo che dovremo garantire a tutti, quando conquisteremo il potere.

Tutto viene ricostruito quasi la politica fosse una danza elegante, anziché un processo reale, fatto non solo di relazioni umane ma anche di rapporti di forza nella società. Come se la politica di allora fosse stata portata avanti secondo le modalità di oggi e Berlinguer fosse un profeta drammaticamente sconfitto dall’isolamento in cui si ritrovò ad operare (accerchiato dall’ortodossia sovietica, nemmeno ci fosse stato Stalin, dall’attentato a Moro e da chi si ostinava a pensare all’esistenza delle classi sociali).

Resta il valore di alcune testimonianze umane e dei filmati dell’epoca e l’impatto emotivo finale, con il capo della scorta e uno degli ultimi lavoratori che affiancò il segretario del PCI all’ultimo comizio, poco prima della morte.

Pezzi di storia, depoliticizzati, privi di qualsiasi ambizione nello spiegare qualcosa a quei ragazzi ripresi in apertura, che testimoniano il vuoto culturale costruito in questi trent’anni di arretramento sociale, di cui la sinistra italiana non è priva di responsabilità.

Sky ha il merito (o meglio l'astuzia) di dare voce a una generazione sconfitta. Un altro esempio è la produzione degli spettacoli di Paolo Rossi che stanno andando in onda in prima serata più o meno nello stesso periodo in cui “Quando c’era Berlinguer” è nelle sale. Voci smarrite che hanno rinunciato a costruire qualcosa e che si struggono dalla nostalgia.

Capire il vuoto che c’è stato aiuta a comprendere come abbiamo fatto ad arrivare al punto in cui siamo oggi. Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, è un drammatico monumento al tipo di sinistra che ci si era illusi di poter costruire.

Sarà l’ultimo comizio di Berlinguer a commuovervi, ripagandovi dell’irritazione che colpirà chi non si è rassegnato a lottare per un mondo migliore e chi non accetta ricostruzioni edulcorate del passato, frutto di chi crede davvero nelle favole che si racconta.

Immagine liberamente ripresa da quinlan.it

Ultima modifica il Domenica, 06 Aprile 2014 10:40
Dmitrij Palagi

Nato nel 1988 in Unione Sovietica, subito prima della caduta del Muro. Iscritto a Rifondazione dal 2006, subito prima della sconfitta de "la Sinistra l'Arcobaleno". Laureato in filosofia, un dottorato in corso di Studi Storici, una collaborazione attiva con la storica rivista dei macchinisti "ancora IN MARCIA".

«Vivere in un mondo senza evasione possibile dove non restava che battersi per una evasione impossibile» (Victor Serge)

 

www.orsopalagi.it
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