Alla regia sembrava dovesse andare David O. Russel (che poi invece si è dedicato ad American Hustle). Ad agosto 2013 abbandona anche Spielberg. Cooper convince allora Clint Eastwood, che la biografia di Kyle la stava leggendo proprio nel periodo in cui ha ricevuto la prima telefonata da parte della produzione. L’incontro con la vedova avviene proprio nel periodo in cui ricorre il primo anniversario dall’omicidio.
Ignorando questo contesto, tra la fine del 2014 e il 2015 c’è chi (ri)scopre che il regista non è un militante del Communist Party of America. Anzi ha alle spalle un continuo impegno in politica in campo repubblicano (anche sul fronte dell’opposizione a Obama). Qualcuno arriva addirittura a definire la pellicola un film reazionario. C’è invece da ringraziare il destino non cinico e non baro, che ha portato questa storia davanti al ghigno di Clint.
Gli Stati Uniti sono quella realtà che si è erta a paladina di un destino superiore per l’umanità, fatto di libertà e democrazia, da cuocere alla griglia con della birra ghiacciata, mentre la segregazione razziale continua a corrodere le pareti del paese come muffa celata dalla luce. In questo paese si sceglie di produrre un film basato sulla biografia di un fedele soldato della Casa Bianca, assassinato “per una buona azione” (cioè per essersi dedicato a chi soffriva di gravi problemi dovuti alla guerra). Se qualcuno si aspetta di vedere il nemico umanizzato (come in Lettere da Iwo Jima) farebbe bene a evitare di affrontare la visione di questo film. Non sarebbe stato possibile altrimenti. Neanche Oliver Stone potrebbe osare rendere Kyle una figura negativa (o una vittima del sistema), con il suo sangue ancora "caldo" nella memoria degli statunitensi. Il punto di vista è quello di un texano che crede, senza traumi, in "Dio, patria e famiglia". Il conflitto armato è un pilastro fondamentale della società statunitense, anche di quella democratica. Guardarlo con il distacco che possiamo permetterci noi europei occidentali è impossibile dall'altra parte dell'oceano.
Con uno stile essenziale, cinema del secolo scorso, va in scena un film d’autore di guerra. Lontana la noia o il dramma di una scelta intimista sui traumi del protagonista. Distante l’estetica della violenza che ha plasmato i capisaldi del genere in forme anche diverse (un conto è Black Hawk Down, un altro Platoon). Ogni retorica (anche quella pacifista) viene rifiutata. Unidirezionale e parziale il punto di vista. Non c’è uno stato di eccezionalità sullo schermo, ma la quotidianità di una pratica che definiamo insensata, nonostante sia parte del mondo da quando si ha testimonianza della civiltà umana.
La regia è magistrale, di quelle che usa solo la fotografia (dell’inseparabile Tom Stern), i movimenti e gli spazi per creare tensione. Non ci sono giochi estetici di effetto, dialoghi brillanti, battute comiche, note musicali enfatiche (in generale la colonna sonora è quasi inesistente, nonostante i temi siano stati composti dallo stesso Eastwood e da Morricone).
La recitazione ricerca costantemente l'essenzialità. In questo risultano perfetti tanto Sienna Miller, a tratti sorprendente nella sua sobria eleganza, quanto Cooper, capace di usare il proprio corpo in modo analogo a Christian Bale.
La parte finale dell’ultima sequenza (in ordine di montaggio) girata in Marocco merita di non passare sotto silenzio. La tensione tra le due mani che si cercano è di un’intensità rara e capace di far mancare il fiato. Sono cose per cui quasi tutti gli altri registi impiegano migliaia di dollari in effetti speciali. Qui c'è giusto della sabbia.
Un ottimo film, di quelli che cercano di avvicinarsi alla realtà per porre degli interrogativi su di essa, senza pretendere di dare delle risposte, ma tentando un approccio critico a ciò che è considerato scontato. Tra le migliori prove dell’ultimo Eastwood. Da tenere lontano dalla portata di chi non sarà in grado di comprenderlo.
Si tratta di una pellicola contro la guerra. Non per le vittime che causa nei paesi considerati sconfitti. Non per gli interessi reali che la muovono. Un film contro la guerra per la sofferenza e la devastazione che causa anche in chi crede nella retorica che manda alla morte migliaia di persone, esportando povertà e sfruttamento.
Per tutti quelli che insisteranno a voler litigare sulla natura politica del regista si consiglia almeno l’intervista rilasciata a Luca Celada per il manifesto (pubblicata il 18 dicembre 2014).
Compito della sinistra è non farsi superare in razionalità da un sostenitore del Grand Old Party.
Perché la vita è semplice, non semplicistica. E Clint sa raccontarla dannatamente bene.
American Sniper, USA, 2014, durata 134'
Foto di copertina ripresa liberamente da www.cultjer.com