Si rompe ogni frontiera tra vita, immaginazione e ricostruzione storica. Conta ciò che viene messo su pellicola e le sensazioni che trasmette. In questo Ėjzenštejn in Guanajuato è un film che vale la pena di essere scovato e sostenuto, sia per il sostegno alla distribuzione indipendente che per la qualità della proposta visiva. Le sequenze di aperture e gli omaggi al cinema del regista sovietico appagano gli occhi e talvolta divertono la mente. Poi però emerge il limite di un artista europeo, cresciuto nel vecchio continente della seconda metà del XX secolo. Lo stile antinarrativo di Greenaway viene oscurato dalla scelta del soggetto: Ėjzenštejn come genio dell'illusione ottica, scelto anche perché "ebreo, comunista ed omosessuale" (oltre che russo).
L'amore di Greenaway per il soggetto è sincero e profondo, lo si coglie anche nella volontà di spiegare un (presunto) cambiamento nella produzione del regista sovietico dopo il viaggio in Messico. La teoria è quella di una scoperta della dimensione individuale attraverso l'amore (quindi il sesso) e la percezione della morte. Su come i russi percepiscano la fine della vita si misura l'incapacità di uscire dal seminato eurocentrico che muove tutta la pellicola. Non c'è il rispetto verso le altre culture, se non un fascino (tipico della Pop Art) per ciò che è considerato esotico (differente in quanto inferiore).
«Il cinema è morto», dichiara spesso Greenaway. «La storia non esiste», capita di leggere in una intervista. Però nella continua provocazione, emerge un moralismo teso a oscurare il contesto in cui i film sovietici vennero girati.
L'artista e l'intellettuale sono la massima espressione di libertà, un baluardo che si oppone al potere in quanto tale. Non a caso viene citato Majakovskij. L'individuo però non è niente senza la massa, senza quelle strutture che ne formano la consapevolezza e gli strumenti con cui guarda il mondo. È lo stesso potere a garantire le condizioni di opposizione a se stesso.
La tecnica c'è, qualche spunto anche. L'agilità propria di chi è convinto di ciò che sta facendo non è estranea al film.
Forse è proprio il messaggio a mancare, che si confonde inutilmente con una Russia distante dal regista e con una scelta molto europea: quella di ritenere l'omosessualità una questione più centrale delle opinioni politiche ed esistenziali.
In questo il tentativo di rivendicare il film come un'arma a difesa dei diritti civili, che provoca l'omofobia di Putin… appare sostanzialmente ridicolo.
Non sarà qualche scena di nudo integrale e di sesso tra uomini ad intaccare il tabù che si conserva all'ombra del Cremlino.
Se il film voleva essere una riflessione sull'uomo e sull'oppressione del potere, a dimensione individuale, era forse meglio lasciar perdere un personaggio reale e il suo contesto.
Si tratta però anche di un omaggio, libero, barocco e a tratti visionario.
Un regista innamorato di Ėjzenštejn, che mette in scena ciò che per lui ha rappresentanti (e rappresenta) l'artista sovietico, ormai defunto, che per fortuna ha molto più da dirci dei suoi estimatori.
Immagine liberamente ripresa da www.mistermovie.it