Si potrebbe quindi pensare che la fiction televisiva abbia raggiunto quello che potremmo definire come il suo picco produttivo. Eppure, a Maggio del 2017, ha fatto la sua comparsa un'opera che ha dimostrato con la sua sola esistenza che la fiction televisiva, come forma d'arte, non ha per ora realizzato che una minima parte di quello che potrebbe essere il suo potenziale. Si tratta di Twin Peaks – The Return, tecnicamente la terza stagione della serie cult Twin Peaks, il cui originale, uscito in due stagioni nel 1990 e 1991 e poi seguito da un film, Fire Walk With Me, che ne espandeva l'universo soprattutto sul fronte paranormale, è oggi considerato una pietra miliare, per molti versi l'iniziatore di un genere che ha condotto a grandi successi come Lost e Stranger Things. Come l'originale, questa terza stagione di Twin Peaks è figlia dell'inventiva di David Lynch, probabilmente una delle menti artistiche più eclettiche degli ultimi trent'anni almeno, che ne ha diretto tutti gli episodi, e di Mark Frost, co-creatore anche della serie originale.
Prima di considerare i modi in cui questo nuovo Twin Peaks è una creatura completamente diversa da tutto il resto della fiction televisiva con cui ha condiviso il palinsesto, bisogna osservare per quali motivi è importante che questa opera sia uscita ora, nel 2017. Verrebbe spontaneo, infatti, inserire questo progetto nell'ormai tristemente celebre filone dell' “effetto nostalgia”, che sta sempre più guadagnando terreno sia al cinema che in televisione. Abbiamo assistito negli ultimi anni a una vera e propria valanga di reboot, remake, spin-off, reinterpretazioni e prodotti ispirati a film, serie, fumetti cult degli anni Ottanta e Novanta, che fanno leva per guadagnarsi un pubblico proprio sull'atteggiamento nostalgico che la comunità degli spettatori ha cominciato ad adottare riguardo alla cultura pop di quegli anni. Se questi “prodotti nostalgia” non costituiscono forse la parte più grande della produzione cinematografica attuale, sono certamente quelli che attraggono il maggior numero di investimenti, che ricevono le promozioni più virali e rumorose, che sono al centro delle polemiche più infuocate. Alcune possono anche essere opere di livello qualitativamente assai elevato, come ad esempio Blade Runner 2049; altre, come il reboot di Ghostbusters, hanno suscitato in uguale misura entusiasmi e malcontenti; e a voler enumerare tutti i membri del filone si troverebbero parecchi nomi autorevoli, inclusa la nuova trilogia di Star Wars, che pure si sta rivelando portatrice di un buon numero di sorprese positive – ma anche una buona quantità di operazioni obiettivamente di pessimo gusto, guidate molto più dalla speculazione che dall'obiettiva presenza di una nuova storia da raccontare. Quando un nuovo Twin Peaks esce nel 2017, verrebbe quindi spontaneo associarlo a un'altra manifestazione di questo “effetto nostalgia”. Non potrebbe, però, esserci nulla di più sbagliato. La terza stagione di Twin Peaks è un'opera che alla nostalgia non concede assolutamente nulla, e che anzi frustra ripetutamente il formato che uno si aspetterebbe da quel filone: personaggi amati dal pubblico della serie originale appaiono in maniera soltanto marginale, o addirittura non appaiono affatto; le frasi-tormentone non sono quasi mai ripetute, o sono solo accennate, e in ogni caso si manifestano tardi; i personaggi che avremmo voluto nuovamente vedere interagire tra loro lo fanno poco e solo nelle ultime fasi della narrazione; la quale, per buona parte, non si svolge in effetti nemmeno a Twin Peaks. Al contrario, lo spettatore si trova di fronte a lunghe sequenze caratterizzate da visuali disturbanti e non sempre semplici da decifrare, a una narrazione non lineare che contiene moltissimi sottintesi e pochissime spiegazioni esplicite, e che soprattutto riprende le mosse da dove la seconda stagione era finita e va sempre avanti, senza mai cedere, neppure per un momento, alla tentazione di guardare indietro. Si tratta dunque non solo di un'opera che non fa parte dell' “effetto nostalgia”, ma di una che ne rappresenta anzi per molti versi l'antitesi.
E bisogna parlare di opera, non di serie televisiva, perché è chiaro fin da subito che nell'intento di Lynch questo nuovo Twin Peaks è opera d'arte, in un modo che trascende il suo essere fiction. Il sottotitolo ufficiale della serie contiene un indizio rivelatore, descrivendola come “A limited event series”. Twin Peaks è, dunque, un evento: qualcosa che trascende i limiti della semplice cinematografia e sfocia nella performance art, un filone artistico contemporaneo in cui David Lynch è del resto stato sempre molto interessato, particolarmente per quel che concerne la sua produzione musicale. Uno dei fondamenti della performance art è l'annullamento del confine che separa l'artista dall'opera: all'interno di questo filone l'arte si infiltra nella vita reale e aspetti della vita reale finiscono inclusi nell'opera d'arte, al punto in cui diventa difficile capire dove cominci l'una e finisca l'altra, e in cui l'artista diventa in un certo senso lui stesso parte integrante della sua opera (e non è forse un caso che in questo nuovo Twin Peaks diventi personaggio centralissimo il direttore dell'FBI Gordon Cole, interpretato da Lynch stesso, che era nell'originale poco più che un cameo a scopo comico). È a causa del suo giocare almeno in parte secondo le regole della performance art che la data d'uscita del nuovo Twin Peaks assume particolare valore. “I'll see you in twenty-five years”, ci rivedremo tra venticinque anni, aveva detto, alla fine della seconda stagione, l'enigmatica Laura Palmer all'agente Dale Cooper, imprigionato nella realtà parallela della Black Lodge. E con la nuova serie la profezia si è avverata: ma i venticinque anni non sono trascorsi solo nell'universo della narrazione – ma anche nel mondo reale. Cooper è, in un certo senso, realmente rimasto nella Black Lodge per venticinque anni, e le rughe sul volto di Kyle MacLachlan, che lo interpreta, non sono dovute al cerone, ma all'età. Altri personaggi sono assenti perché gli attori che li interpretavano sono morti, altri ancora sono chiaramente malati. Lasciando realmente passare venticinque anni l'opera sconfina dalla finzione nella realtà in maniera disturbante, e si impone così facendo di giocare senza barare: la vita reale influenza inevitabilmente la narrazione, sancendo l'assenza di un personaggio, il ruolo ridotto di un altro che avrebbe potuto forse essere importante, determinando l'aspetto che tutti hanno assunto nel tempo trascorso. Un'opera per molti versi assai più surreale perfino delle sue due stagioni precedenti assume in questo modo una patina di realtà che non può essere ignorata, e che ne aumenta l'impatto in maniera esponenziale. L'altro effetto collaterale di questa lunga attesa è, naturalmente, la presenza di un certo numero di personaggi in età avanzata, che esso stesso infrange uno dei molti tabù non scritti della fiction contemporanea – che mostra ormai con disinvoltura la morte, ma ha molti più problemi ad affrontare la sua controparte forse più disturbante, la vecchiaia. Twin Peaks fa della vecchiaia, per necessità, uno dei suoi temi centrali, affrontandola di petto e mostrandola per quel che è, nel bene e nel male, mostrando i corpi dei suoi attori come corpi di esseri umani che vivono nel mondo fisico – che non sono relegati nel ruolo del 'vecchio saggio' in cui la fiction tende spesso a confinare il personaggio anziano, ma hanno interazioni e scontri e anche vite sessuali, non a dispetto della loro età ma in maniera diversa per via della loro età.
E il grande, vero valore di questo nuovo Twin Peaks, la vera ragione per cui costituisce una sfida a tutta la fiction televisiva che quest'ultima, si spera, proverà in qualche misura a raccogliere, è proprio che non gioca secondo le regole, in questo come in nessun altro campo. Narrativamente è un'opera densa e spesso pesante, che tocca temi difficili spesso tramite allusioni, e attinge visivamente alle parti più contorte e disturbanti dell'immaginario di Lynch – dal punto di vista strettamente visivo è quasi parente più stretta di Eraserhead che delle sue stesse prime due stagioni. È un'opera che fa un uso enorme di immagini e simbolismi, e un uso molto deliberato del suono – Lynch, che è anche musicista, ha curato lui stesso il comparto sonoro – e che invece usa pochissimo, quasi per nulla, il trucchetto dell'esposizione, tanto caro a quasi tutte le narrazioni serializzate di questi anni. Twin Peaks non spiega niente al suo spettatore: lo spettatore deve mettere insieme tutti i pezzi e capire da sé. Ma a differenza di altri enigmi televisivi che non sono mai stati pensati per essere risolti da altri che dai propri personaggi – tipico tra tutti Lost, che proprio al Twin Peaks originale è stato spesso paragonato, e il cui enigma era di fatto insolubile – Twin Peaks fornisce al suo spettatore tutti gli elementi necessari per comprendere tutto quello che sembra essere lasciato insoluto dalla trama. In un'ora o due di discussione ragionata, a serie conclusa, è possibile ricostruire un quadro coerente e completo, in cui non restano praticamente più interrogativi. E la serie si fida che il suo spettatore sia in grado di farlo – sia in grado di individuare gli indizi, di comprendere il significato dei simboli, di notare gli elementi sullo sfondo, di capire il significato di lunghi segmenti di narrazione solo visuale, in cui si parla pochissimo e quel che si dice non ha nessun significato immediatamente comprensibile.
Il vero grande valore, e la vera grande sfida, di quest'opera, forse la più matura di Lynch finora, sta proprio in questo: nella fiducia che ripone nell'intelligenza del suo pubblico. Nel suo rifiuto di semplificare le cose, fondato sulla certezza che il pubblico non ha bisogno di essere protetto, schermato, dalle cose complicate. Nella sua convinzione che si possano trattare temi pesanti, e usare un immaginario innovativo e complesso, e riuscire ugualmente a comunicare un messaggio senza dover fare una pausa per presentare un riassuntino semplificato di quel che si voleva dire. Lynch e Frost hanno scommesso sul fatto che il loro pubblico fosse intelligente, disposto a dare una chance a un formato di narrazione non ovvio, e disposto a ricambiare la fiducia e continuare fino alla fine nonostante il fatto di essersi trovato di fronte a qualcosa di molto diverso da quel che probabilmente si aspettava. Hanno avuto ragione: la serie ha avuto un successo di pubblico che ha superato di gran lunga le aspettative. E chi l'ha guardata non si è fermato ai primi episodi, su cui avrebbe potuto sintonizzarsi per pura curiosità, ma ha continuato fino alla fine, lasciando che la serie gli raccontasse la sua storia nel modo in cui voleva raccontarla.
Twin Peaks è importante a prescindere dal fatto che chi lo guarda sia o meno un fan di Lynch e del suo stile narrativo: è importante perché ha dimostrato che una simile fiducia può essere ben riposta, che dall'innovazione e dalla complessità non bisogna fuggire, e che il pubblico è in grado di affrontare un'opera articolata e stratificata e di interagire con essa. E ha dimostrato così facendo che non solo la fiction televisiva non ha affatto raggiunto il picco del suo potenziale, ma che a trattenerla dal raggiungerlo è proprio questa mancanza di coraggio e di fiducia nel pubblico, questa convinzione che il pubblico non possa capire le cose troppo complesse e non voglia interagire con quelle diverse da ciò a cui è abituato. Regalando al mondo questo terzo atto di Twin Peaks, Lynch e Frost hanno sferrato un colpo molto ben assestato alla convinzione erronea che l'arte, quella vera, non possa che essere elitista. E hanno sfidato gli altri creativi a seguire il loro esempio, e smettere di trattenersi, e realizzare, per davvero, il loro pieno potenziale.
Per il bene della scena artistica contemporanea c'è da sperare che la sfida venga raccolta.