Altra degna di attenzione è la distopia fantascientifica Westworld, tratta dal film di Michael Chricton Il mondo dei robot. Jhonathan Nolan – fratello del più famoso Chistopher e co-sceneggiatore insieme a lui di capolavori come Memento e Il cavaliere oscuro – affronta la tematica, profondamente attuale, dell’intelligenza artificiale e della possibilità di una forma di coscienza anche nelle macchine. Il mondo delineato da Westworld si divide tra gli umani dell’immenso e futuristico laboratorio scientifico in cui avviene la creazione degli androidi, e l’avveniristico parco-divertimenti, in stile west - di Jurrassikiana memoria, con le ovvie differenze, dato che qui si parla di androidi identici agli umani – popolato dai “residenti” (gli androidi) e i “visitatori”, i giocatori umani che pagano per vivere un’esperienza di totale immersione nella dimensione fittizia del parco. Le macchine di Nolan sono uguali in tutto e per tutto agli esseri umani: oltre all’aspetto fisico sono stati dotati di una memoria storica, di emozioni preimpostate, di espressioni facciali e gestuali; sono programmati per sedurre o affascinare, per indurre il giocatore a compiere avventure o cacce al tesoro in un contesto che ricorda perfettamente gli scenari degli western di John Ford o di Sergio Leone.
La potenza narrativa della serie non sta solo nella genialità con cui riesce, fin dalle prime scene, a calare lo spettatore nella finzione, plasticamente reale, del mondo “creato” e a familiarizzare con le “macchine umane” che lo abitano, ma sta anche nel portare alla luce le perversioni più segrete dell’animo umano: basta la consapevolezza che quello che si vive a WestWorld non sia vita vera, per sfogare quelle pulsioni che nell’ordinarietà dei propri mondi non sono consentite o vengono represse. La maggior parte dei visitatori “uccide” i residenti con la stessa facilità con cui si scola un bicchiere di rhum o si scatena in orge con le prostitute dei saloon, tanto che a destare empatia sono molto più alcuni androidi che non gli esseri umani che li hanno creati o che partecipano al gioco.
Sempre parlando di scenari fanta-politici, il presente distopico di Handmaid’s tale, tratto dall’omonimo romanzo di Margaret Atwood, ci trasporta in una società post-apocalittica in cui, dato il massiccio crollo delle nascite causate da una presunta epidemia di infertilità delle donne, si è instaurato un regime violento e ultraconservatore che ha fatto dei precetti biblici leggi di stato assolute e performative, veri e propri dogmi da seguire e interpretare alla lettera. Il racconto, reso discontinuo dai continui flashback che via via svelano alcuni eventi passati chiarificatori, è tutto filtrato dallo sguardo di June/OfFred, l’“ancella” protagonista, magistralmente interpretata da Elizabeth Moss. Le ancelle sono quelle ragazze che, in quanto fertili, dopo un rigido addestramento e un feroce indottrinamento, vengono consegnate alle coppie benestanti, diventando vera e propria proprietà dei “comandanti” (da qui i nomi con la particella “of” davanti con cui le ancelle vengono ribattezzate): ogni mese, nel periodo fertile, le ancelle vengono sottoposte alla “cerimonia”, un rituale che le costringe ad avere un rapporto sessuale con il proprio comandante, distese sul letto tra le gambe delle mogli-padroni.
Senza soffermarci sui dettagli spesso raccapriccianti delle torture fisiche e psicologiche che le donne subiscono, la serie prende una posizione netta sulla questione di genere e sulla sessualità, denunciando un mondo che esaspera le intolleranze e il bigottismo delle nostre società. La serie sembra voler tracciare un’indelebile linea di confine tra chi di fronte a catastrofi che hanno ricadute sociali, per non dire umanitarie – come l’infertilità diffusa a livelli drastici – si chiude in un ultraconservatorismo senza vie di fuga, volutamente giustificato e accentuato da dogmi biblici, e i pochi che riescono a mantenere umanità e senso di ribellione nei confronti di un regime che cancella ogni libertà e ogni diritto per portare avanti il progetto di riproduzione forzata.
In ultima battuta passiamo a parlare di due serie ormai diventate cult come Stranger Things e The Game of Thrones. Abbiamo voluto trattarle separatamente rispetto alle altre perché in queste non emerge immediatamente quel carattere di introspezione dei personaggi che abbiamo descritto come emblematico fino ad adesso per collocare le serie televisive che abbiamo definito “contemporanee”. Ciò significa che non possono essere considerate come tali? In realtà, se guardiamo attentamente, il motivo per cui ci può sembrare meno marcata l’attenzione introspettiva sui personaggi è da ricercare nel diverso punto di vista con cui ci si approccia alla vicenda.
In queste due serie la narrazione è più lineare, mancano quasi del tutto i flashback, i personaggi in gioco sono molti – nel caso di The Games of Thrones moltissimi –, le storie narrate contemporaneamente sono numerose e il montaggio parallelo – più filoni narrativi che procedono parallelamente – predomina su quello alternato – un unico filone narrativo che va avanti consequenzialmente. In altre parole, qui abbiamo molti elementi che ci spostano l’attenzione dai personaggi alla storia, è come se noi vedessimo l’intera narrazione come una divinità, guardando il tutto nel suo complesso anziché da una singola angolazione. L’introspezione dei personaggi e il focus sulla loro psicologia ci sono ma sono come messi in secondo piano da quello che accade, le vicende hanno un che di epico e sensazionale, come se si stesse assistendo a qualcosa di veramente straordinario.
Proprio questo sembra essere il leitmotiv di Stranger Things, un racconto paranormale animato dalle azioni di tre ragazzini di una ordinaria cittadina americana, che si trovano catapultati nel mistero della scomparsa di un loro caro amico e nel ritrovamento di una ragazzina con poteri speciali. A intervenire nella vicenda ci saranno un poco convenzionale sceriffo, la madre del ragazzo scomparso e alcuni misteriosi scienziati e agenti segreti invischiati in un progetto top secret negli anni della guerra fredda, in cui tutto sembra sospettoso. In bilico tra un mondo anni ’80 fin troppo ordinario e quello del “sottosopra”, una realtà parallela piena di tenebre in cui dimora una strana creatura, la serie, costruita con scatole cinesi in cui più si procede e più si scopre, viene filtrata per lo più attraverso occhi di ragazzini un po’ nerd e dotati di prematura intelligenza e scaltrezza che riescono a risolvere un caso misterioso, oscuro alla maggior parte degli adulti.
Il racconto fatto dai ragazzi, a cui all’inizio nessuno crede, aumenta l’atmosfera di dubbio e di unicità della vicenda, che assume quel carattere di racconto mai raccontato, di mistero insondabile, di storia originale ed esclusiva che solo lo spettatore può scrutare. Questo conferisce alla serie quegli elementi che gli hanno permesso in poco tempo di diventare popolarissima, a tratti nostalgica, in un ambiente che si è fermato agli anni ’80, con musiche ed effetti sonori che ricordano quell’epoca, ma che comunque non tralascia i tempi e i ritmi dell’intrattenimento odierno.
Quando parliamo di The Game of Thrones valgono solo in parte i discorsi fatti per Stranger Things. Qui, anche per il grande numero di episodi, il tutto è amplificato e trasportato in un mondo fantastico, fatto di edifici e castelli dai tratti medievaleggianti e popolato da potenti casate nobiliari che si contendono il trono, draghi e inquietanti “estranei” che guidano l’imponente esercito di non morti al di là della barriera che minaccia i regni degli umani. Non staremo a parlare nel dettaglio della trama per la grande complessità degli avvenimenti e perché è già probabilmente nota a molti. Se le vicende narrate risultano essere in primo piano, data la sorprendente spettacolarizzazione, l’abile costruzione degli intrighi e la ricchezza dei numerosi colpi di scena (anche all’interno di un singolo filone narrativo) non manca comunque l’accurata analisi psicologica dei personaggi, non soltanto dei protagonisti ma anche di quelli minori. Anche coloro che possono sembrare meno sfaccettati e “scolpiti con l’accetta”, stigmatizzati nel bene quasi assoluto e nel male quasi demoniaco, in realtà evolvono di serie in serie e presentano conflitti e sfumature che li rendono non eroi o antieroi totalmente monolitici ma esseri umani con umani dubbi, rimorsi e sentimenti. Molti dei personaggi vengono seguiti nei loro personali percorsi senza semplificazioni o banalizzazioni, così che l’intricarsi della trama spesso è accompagnato dall’evoluzione della personalità del personaggio, che acquista di volta in volta maggiore spessore.
Questo rende possibile un’immedesimazione e persino un affezionamento da parte dello spettatore che riesce ad entrare dentro una storia così lontana dai propri mondi quotidiani, proprio perché empatizza o resta affascinato dalla maggior parte dei personaggi, anche quelli più cupi e oscuri. La partecipazione alle vicende di questa saga epica è oltretutto facilitata dagli sfondi politici che in qualche modo possono richiamare ad alcuni aspetti della nostra realtà e che spesso vengono incarnati da alcune delle figure principali. Tematiche come lo sfruttamento, la lotta per il potere, le ribellioni, potrebbero facilmente sembrare dei topoi e quindi rischiare di diventare degli stereotipi – l’infinita lotta tra bene e male, le vendette, il senso dell’onore etc. – ma in verità riescono a stupire perché non risultano mai troppo prevedibili e lineari, grazie, appunto, anche alla complessità dei personaggi che, a parte alcune eccezioni, non sono mai identici a se stessi nel corso della storia.
Con effetti speciali grandiosi e un’attenzione chirurgica per ciò che riguarda la sceneggiatura e la scelta del cast, Game of Thrones ha le fattezze di un vero e proprio kolossal e segna quello che può rappresentare un sorpasso delle serie televisive rispetto al mondo del cinema, sia in termini di spettatori che nel budget richiesto per la produzione – che in questo caso è altissimo.
Con il nostro excursus tra le varie serie prese in considerazione abbiamo posto l’attenzione su alcuni aspetti, non sempre facendo riferimento a un ragionamento onnicomprensivo. Risulterà evidente tuttavia il tratto comune che unisce le serie prima citate, come appunto l’accuratezza del profilo introspettivo dei personaggi che diviene, dagli inizi del 2000, una vera e propria costante. Che si parli di supereroi o uomini qualunque, di ricchi e potenti regnanti appartenenti ad epoche passate, di brillanti scienziati o intuitivi detective, viviamo le loro vite da vicino, con i loro conflitti e rimorsi quotidiani. Questo conflitto interiore, in un’epoca in cui l’aspetto legato all’individualità ha invaso e infranto ogni costruzione collettiva, appare come l’elemento caratteristico e decisivo che tiene lo spettatore odierno incollato allo schermo. Altro aspetto accattivante sono gli sfondi politici e sociali, che sembrano riportare sullo schermo argomenti caldi e questioni in sospeso della contemporaneità.
Tutto questo insieme all’accentuarsi della loro diffusione, grazie ai canali satellitari, alle numerose piattaforme che mettono a disposizione lo streaming, a youtube, i social network e ai moltissimi forum, ha permesso alle serie televisive di diventare dei veri e propri motori propulsivi dell’intrattenimento di massa.
Oltre a essere le più democratiche per quanto riguarda la facilità di fruizione per un sempre maggior numero di persone, anche relativamente ai loro costi, le serie moderne rappresentano un vero e proprio cambiamento che agisce non solo sui modi della fruizione ma nel rapporto stesso tra spettacolo e spettatore, riducendo all’estremo la distanza dal narrato, e portando il tutto ad essere visivamente e plasticamente credibile.